Le donne nella Resistenza vengono definite “uniche volontarie a pieno titolo nella resistenza”, dalle storiche Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone in “La guerra senz’armi. Storie di donne, 1940-1945, Laterza 2000, in quanto non obbligate a nascondersi per sfuggire al reclutamento coatto nella Repubblica di Salò, ma gappiste e partigiane per scelta.
Sonia Residori, nel suo documentato lavoro “Sovversive, ribelli e partigiane” (ed. Cierre, 2021) ricostruisce alcuni aspetti del rapporto tra il regime fascista e le donne vicentine: le dissidenti, schedate dagli apparati di polizia come pericolose e costantemente vigilate; le madri, mogli e figlie dei confinati politici, che, rimaste prive del sostegno maschile, dovettero far fronte a miseria e solitudine; le lavoratrici e le massaie, che furono il fulcro delle proteste contro il regime, in prima fila negli scioperi e nelle sollevazioni popolari.
Infine, l’autrice affronta il tema delle scelte compiute dalle giovani donne che decisero di arruolarsi come volontarie nella Resistenza vicentina. Donne che non solo furono staffette, infermiere, cuoche, sarte e lavandaie, ma anche combattenti e dinamitarde, pagando un prezzo altissimo per la loro scelta in termini
di sofferenze e umiliazioni, torture e sevizie, detenzione in carcere e deportazione nei campi di concentramento.
Tuttavia la “centralità del paradigma del maschio guerriero” (come ricorda Santo Peli in “La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, 2004) che fa della lotta armata una modalità esclusivamente maschile, porta a considerare le donne partigiane imbarazzanti e troppo libere. È per questa ragione che, alla Liberazione, le donne sono escluse da molte delle sfilate partigiane nelle città liberate.
Per decenni la partecipazione delle donne alla Resistenza è stato definita “contributo” e la qualifica attribuita solo quella di “staffetta”, ruolo effettivamente preziosissimo e realmente pericoloso, con trasporto di messaggi, documenti e anche armi.
Questa sottovalutazione riguarda anche i numeri, infatti a pochissime donne, 35.000 a fronte di 150.000 uomini, sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente, nonostante un impegno, nei fatti, molto più significativo. Tante donne, presumibilmente, non chiederanno il riconoscimento; a tante, materialmente, esso sarà ingiustamente negato.
Una volta terminata la guerra, l’esperienza della Resistenza e della Liberazione, era divenuta oramai un punto di non ritorno per il paese e anche per i diritti delle donne. Con il decreto n.74 del 10 marzo 1946, in occasione delle prime elezioni amministrative postbelliche, le donne con almeno 25 anni di età potevano eleggere ma soprattutto essere elette.
Il Referendum del 2 giugno 1946 era accompagnato dal voto per l’elezione dell’Assemblea Costituente. Con il suffragio universale e l’esercizio dell’elettorato passivo, le donne entrarono per la prima volta in Parlamento.
Le elette furono 21 su un totale di 556 deputati.
Solo da qualche anno sono state definite e ricordate come le nostre “Madri Costituenti”.
L’ingresso di queste 21 donne nello scenario politico nazionale fece sì che le istanze del mondo femminile, fino ad ora delegate agli uomini, potessero essere portate avanti in prima persona da chi fino a poco prima era senza voce.
Quelle 21 donne rappresentavano tutte quelle staffette e partigiane che al momento del voto non avevano compiuto la maggiore età ma anche tutte le donne che ora si sentivano sempre più paritarie agli uomini.
Tra queste 21 Costituenti, cinque vennero elette nella “Commissione dei 75”, incaricata materialmente di redigere la Costituzione. Pur appartenendo a schieramenti politici diversi, fecero spesso fronte comune per l’affermazione dell’uguaglianza giuridica fra i sessi, per il superamento dei tanti ostacoli che rendevano difficile la partecipazione delle donne alla vita politica, sociale ed economica del paese.
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