Maria Setti Broglio: breve profilo biografico a cura di Pio Serafin

MARIA SETTI BROGLIO
(Vicenza, 11 agosto 1899 – Vicenza, 6 febbraio 1996)


Medaglia d’argento al valor militare, insignita della Légion d’Honneur, per molti anni docente di francese al Pigafetta e presidente dell’Alliance Française di Vicenza, è la Marta descritta da Luigi Meneghello ne “I piccoli maestri”.
Nata a Vicenza nel 1899, diplomata all’istituto magistrale “Fogazzaro”, già nel ’17 era a Parigi a studiare alla Sorbona. Dopo la laurea in lingue a Bologna era andata a studiare a Grenoble. In seguito sarà insegnante a Tripoli e a Pola.
Nel ’42 era entrata nel gruppo di “Giustizia e libertà” con Giuriolo, Magagnato, Ghirotti, Nicolini, Gallo, Meneghello, Caneva, Ghiotto, Spanevello, Galla.
Aveva fatto parte del primo gruppo resistenziale vicentino e Nino Bressan in una intervista al “Giornale di Vicenza” rilasciata in occasione della morte della Setti la ricordava “già il 9 settembre del ’43 in stazione fra i soldati che stavano per essere deportati in Germania. Lei raccoglieva i biglietti per le famiglie, dava da bere ai prigionieri.”
Luigi Meneghello colse la prontezza del suo impegno: “l’otto settembre deve averle colpito la fantasia: adottò subito, come sua figlia e sorella, la resistenza vicentina.”
Come scrive Trentin nella sua biografia su Antonio Giuriolo fu lei ad accompagnare Meneghello e i cugini Galla nel bellunese prima e sull’Altipiano poi. Fu lei a salire a Campogrosso con Libero Giuriolo che voleva incontrare il fratello ferito dopo il rastrellamento del 5 giugno del ‘44.
Nella sua casa di Montemezzo fece un luogo di rifugio per partigiani, ebrei, fuggiaschi fino a quando fu arrestata, proprio in quella casa, come ricorda la motivazione della medaglia d’argento al valor militare: “Sprezzante di ogni pericolo costituiva nella sua casa il centro della resistenza clandestina di un vasto settore della zona prealpina; perseguitata dalla polizia veniva catturata e sottoposta ad inaudite torture che non valsero a strapparle un motto che potesse compromettere i suoi compagni di lotta e di fede.” Dopo l’arresto fu infatti condotta a villa Girardi di via Fratelli Albanese dove fu torturata. Da lì fu portata alla caserma di San Michele dove si finse pazza fingendo di strozzare una compagna di cella e di volersi buttare dalla finestra e fu ricoverata all’Ospedale di Montecchio Precalcino.”
Maria Setti, nella denuncia al Procuratore Borrelli datata “Montecchio Precalcino 24.2.1945” ha dettagliatamente descritto le torture cui fu sottoposta quando fu arrestata e condotta nel carcere di S. Michele il 2 gennaio 1945. “mi applicarono ai polsi i fili di una macchina elettrica (…). Insisterono colla macchina (…) La macchinetta mi era stata applicata agli orecchi e mi sbatteva continuamente a terra. (…) Mi applicarono agli orecchi i fili di una macchinetta più grossa dell’altra. (…) si hanno degli assalti epilettici in uno dei quali le mie gambe si trovarono sul loro tavolo sbattendo carte e calamaio (…) Marchesi con ira e scherni volgari mi frustò con uno scudiscio. Ne ho avuto gambe, coscie e faccia gonfie e tumefatte: ho perduto sangue nelle sottocoscie dove ho ancora il segno. (…) Il Marchesi fece la proposta di una nuova macchina più forte e l’andò a prendere (…) Facevano girare la macchina con una velocità atroce sempre più a lungo (…) Li scongiuravo di uccidermi, mi sentivo morire (…). Marchesi (…) mi gettò rabbioso una bicicletta sulla testa.”

Pio Serafin

SILVIO TRENTIN
(San Donà di Piave 11.11.1985 – Monastier 12.3.1945)


Nato nel 1885 a San Donà di Piave, si era laureato in giurisprudenza a Pisa e divenne a 24 anni il più giovane docente universitario di diritto in Italia. Volontario nella prima Guerra Mondiale fu pilota pluridecorato sui primi aerei apparsi sui cieli italiani. Durante il conflitto si vide costretto a bombardare la propria casa che era sede del comando austriaco. Partecipò, a bordo di un dirigibile, alla più lunga ricognizione aerea della guerra fotografando l’intera linea del fronte dal Trentino all’Adriatico.
Avvocato, deputato dal 1919 al 1921 per la Democrazia sociale, protagonista dell’istituzione dell’Ente di rinascita agraria delle provincie di Treviso e Venezia e della bonifica integrale dei terreni paludosi tra il Lemene e il Livenza, divenne professore di diritto pubblico a Ca’ Foscari. Legato da profonda amicizia con Giovanni Amendola, fu con Salvemini e con l’ex presidente del consiglio Nitti uno dei tre soli docenti italiani che preferirono scegliere la via dell’esilio in Francia nel 1926 per non dover giurare fedeltà al fascismo.
Dapprima agricoltore, poi operaio e successivamente libraio a Tolosa, durante l’esilio scrisse una straordinaria quantità di opere, quasi tutte in francese, e svolse un’intensa attività politica forte di una riconosciuta autorevolezza culturale e morale. Alla morte di Carlo Rosselli, assassinato a Bagnoles de l’Orne il 9 giugno 1937, tenne un discorso a Tolosa davanti a ventimila persone divenendo il leader di Giustizia e Libertà e subì la rabbiosa reazione di Roberto Farinacci che arrivò a minacciare per lui la stessa fine dei fratelli Rosselli
La sua “Librairie du Languedoc” fu un centro culturale e politico, “le centre principal pour l’intellighentsia antifasciste à Toulouse” secondo lo scrittore Jean Cassou. Durante la guerra di Spagna essa divenne “una specie di ambasciata, la sede dei collegamenti irregolari fra la Francia e Barcellona, attraverso i Pirenei”, come scrisse Lussu.
Partecipò alla Resistenza nel movimento “Libérer et Fédérer” elaborando una compiuta teoria federalista dello Stato che trovò la traduzione normativa in due progetti di costituzione per la Francia e l’Italia.
Nella sua casa di Tolosa nell’ottobre del ’41 fu firmato il patto di unità d’azione sottoscritto da Nenni e Saragat per il partito socialista, da Dozza e Sereni per il partito comunista e da lui per Giustizia e Libertà.
Dopo lo scoppio della guerra egli diede completezza alla visione federalista dello Stato che già aveva delineata negli anni trenta e che aveva evidenziato ne La crise du droit et de l’Etat. Essa è contenuta nel libro Stato-Nazione-Federalismo del 1940 e nel saggio Libérer et Fédérer che il giurista veneto portò con sé in Italia ed affidò nell’autunno del ’43 ad Antonio Giuriolo per la traduzione.
Trentin morì il 12 marzo 1944, a Monastier di Treviso. Era ritornato nel suo Veneto solo da pochi mesi dopo quasi 18 anni di esilio in Francia. “Lo riconoscemmo immediatamente come la guida che avevamo cercata”, scrisse Norberto Bobbio e per Leo Valiani egli fu, assieme a Concetto Marchesi, “la prima guida spirituale di tutto il movimento nel Veneto, il vero teorico del carattere autonomista della resurrezione d’Italia, il critico più forte della struttura centralizzata dello Stato italiano.” Giuseppe Zwirner disse che “Ognuno si aspettava e desiderava che Trentin facesse ogni cosa, tutti si appoggiavano alla sua inestimabile esperienza, alla sua intelligenza, alla sua autorità morale.”
In una lettera ad Emilio Lussu Trentin aveva declinato l’invito a far parte della direzione del CLN perché egli riteneva che il suo posto fosse qui nel Veneto e non a Roma. E nella sua veste di leader e di guida morale il 1° novembre del ’43, su “GL”, il giornale degli azionisti padovani, aveva lanciato il suo “Appello ai Veneti guardia avanzata della nazione italiana” prima di essere arrestato a Padova con il figlio Bruno il 19 novembre 1944. Morirà a Monastier il 12 marzo successivo.
La prematura morte di Trentin nel momento decisivo della lotta di liberazione non gli consentì di esercitare quel ruolo che egli avrebbe potuto avere nella ricostruzione del Paese come affermò Pietro Nenni secondo il quale egli “sarebbe stato certamente uno dei capi della nuova Italia, uno dei maestri della nuova generazione”.

Pio Serafin

SILVIO APOLLONI “LEO”

Ai primi di gennaio 1944 la Delegazione Triveneta delle brigate Garibaldi aveva costituito sui monti sopra Recoaro un gruppo partigiano che nelle intenzioni doveva diventare e lo diventerà, un polo di attrazione per gli antifascisti, i giovani sbandati dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, i renitenti che non volevano aderire alla RSI, insomma di tutti coloro che non ne potevano più del fascismo, della guerra e dell’occupazione tedesca. Di quel gruppo, che si addestrava militarmente e politicamente alla guerriglia partigiana, facevano parte anche alcuni giovani provenienti dalla città di Vicenza.
Quel gruppo, che annoverava circa 25 uomini, si era stanziato a Malga Campetto a 1600 m. di altitudine, ma venne ben presto individuato dalle autorità fasciste, le quali, intuendone la pericolosità, stabilirono di annientarlo, come avevano fatto un mese prima con un altro gruppo simile a Malga Silvagno, sull’Altopiano di Asiago. Così, a metà febbraio, i tedeschi e i fascisti sferrarono un vero e proprio attacco contro la Malga, impiegando 3/400 uomini che, per circondarla, salivano sia dalla valle dell’Agno che da quella del Chiampo e che erano dotati anche di armi pesanti e supportati persino da un aereo da ricognizione.
Ma i partigiani, preavvertiti, organizzarono la difesa e lo sganciamento. Lo scontro ebbe luogo il 16 febbraio e si risolse con una sconfitta cocente per i nazifascisti che dovettero contare un numero imprecisato di morti e feriti, mentre i partigiani ne uscirono tutti vivi.. L’eco della battaglia vittoriosa si sparse velocemente in tutta la provincia e molti giovani manifestarono la volontà di unirsi ai partigiani.
Sergio Mattolin “Aviatore” dopo lo scontro, ritornò in città e qui avvicinò due giovani conoscenti, Lino Albanello e Silvio Apolloni, ambedue panettieri e non ci volle molto per convincerli a ritornare con lui in montagna a fare i partigiani. Lino Albanello divenne il partigiano “Cirillo-Patata” e Silvio Apolloni “Leo”.
Silvio Apolloni, figlio di Giuseppe e di Danzo Antonia, era nato a Vicenza il 13 settembre 1924, aveva quindi 19 anni, e abitava in Via Borgo Santa Lucia, al n. 21.
A 18 anni fu chiamato alle armi e si presentò regolarmente nell’agosto 1943 , ma poco dopo vi fu l’armistizio dell’8 settembre. Ritornò quindi a casa e al suo lavoro di panettiere ma si trasferì ben presto a Monteviale con la famiglia ivi sfollata a causa dei bombardamenti.
Accolto tra i partigiani, Silvio Apolloni “Leo” entrò a far parte della pattuglia comandata da “Pino” (Clemente Lampioni) e nel mese di marzo partecipò alla missione assegnata a quella pattuglia che aveva come scopo verificare la possibilità di minare la ferrovia Verona-Brennero nella Valle d’Adige. Partirono dalla base di Durlo e dopo aver attraversato tutta la Lessinia, scesero in Val d’Adige all’altezza di Brentino (Madonna della Corona). Posero dell’esplosivo sui binari, ma con poco successo: era la prima volta. Mostrarono però che l’operazione era possibile e così, circa due mesi dopo, e cioè il 23 maggio ’44, un’altra pattuglia scese in Val d’Adige all’altezza di Ala presso Rovereto, piazzò l’esplosivo sui binari, che scoppiò al passaggio di un treno, carico di soldati. Radio Londra parlò di 450 morti.
“Leo” divenne capo pattuglia e il suo amico “Patata” ricorda che egli spesso si recava in pianura a procurare armi e ad arruolare combattenti. Alla fine di marzo però, contro i partigiani di Marana-Durlo, i fascisti sferrarono un nuovo rastrellamento, anche stavolta molto agguerrito (300 uomini) ma altrettanto inutile perché non riuscirono a prendere nessun partigiano. Infatti il comandante dei partigiani , n.b. “Giani”, dispose che tutte le pattuglie si disperdessero e ordinò una temporanea smobilitazione.
Fu durante il ritorno verso i monti che il 28 marzo 1944 “Leo” fu sorpreso ed arrestato dalla polizia fascista di Monte di Malo. Aveva con sé una vecchia pistola, nemmeno funzionante.
Fu trascinato a Vicenza e rinchiuso nel carcere di San Biagio. Di fronte all’intensificarsi della lotta partigiana e al pressoché fallimento dei bandi di arruolamento i fascisti decisero ad un certo punto di sacrificare quel prigioniero per dare una lezione al movimento partigiano e lanciare un monito e un esempio per i numerosi vicentini renitenti alla leva. Così imbastirono un processo e lo condannarono a morte con sentenza del 20 aprile. La sua fucilazione avvenne il 22 aprile 1944 e fu preceduta da una macabra messinscena: il giovane partigiano, preceduto dal rullo dei tamburi, fu prelevato dal carcere e fatto percorrere le vie della città fino al poligono di tiro, sulla strada Marosticana. Invano egli chiedeva ai suoi aguzzini di poter vedere la madre prima di essere fucilato.
Silvio Apolloni fu il primo partigiano caduto per la libertà del gruppo che, partendo dalla ventina di uomini di Malga Campetto, per la grande adesione di giovani uomini e donne alla Resistenza, diventò il 17 maggio 1944 la XXX Brigata Garibaldina “Garemi”. A Silvio Apolloni fu dedicato un battaglione che operò nella Val Leogra. La “Garemi” fu la formazione che portò la lotta armata in una vasta zona che va dal lago di Garda al fiume Brenta e dal Basso Vicentino al Trentino e che arrivò a contare oltre 10.000 tra partigiani e patrioti, uomini e donne, e oltre 750 caduti.
A Silvio Apolloni la città di Vicenza ha dedicato un busto in Via Santa Lucia posto nei pressi della sua abitazione sopra un porticato.

Giorgio Fin