L’Italia che resiste, negli spot e nella Memoria

Nell’aprile del 2020, 75 anni dopo la Liberazione, in tutte le case dalla Valle d’Aosta al canale di Sicilia risuonano, più volte al dì, queste parole: “A chi è spaesato, ma si sente ancora un Paese. All’Italia che, ancora una volta, resiste”.
In attesa di scoprire in quale modo la pandemia avrà ispirato poeti, musicisti e scrittori, forzatamente chiusi nelle loro stanze dalla quarantena del coronavirus, questo è il messaggio che raggiunge decine di milioni di italiani. Il mezzo, reso ancora più potente dal lockdown nazionale iniziato in marzo, è uno spot televisivo, lanciato da una delle più importanti, e storicamente radicate, industrie alimentari italiane. In un minuto di racconto visivo, scorrono monumentali cartoline del Belpaese deserto, alternate a scorci di ospedali e attività produttive rimaste aperte, mentre il testo, affidato alla voce di Sophia Loren, diva-simbolo del cinema italiano del ‘900, commenta panoramiche e primi piani con calibrate frasi a effetto, fino a quel finale sull'”Italia che, ancora una volta, resiste”. A fare da non secondario collante fra le immagini e le parole dell’attrice, che ha gratuitamente prestato la propria voce, concorre la musica, per nulla nuova, trattandosi del ripescaggio di “Hymne”, melodia del celeberrimo compositore greco Vangelis, già utilizzata dalla stessa azienda per una fortunata serie di spot trasmessi negli anni ’80. Scelta, come vedremo più avanti, tutt’altro che casuale.

Nel frattempo, ci sono due considerazioni da fare.
La prima riguarda la portata di verità di quelle parole. Che, pur avvolte dalle convenzioni del linguaggio pubblicitario, colpiscono al cuore un Paese sconvolto dal covid-19, e così violentemente brutalizzato dalla letalità e dalla contagiosità di questo virus, da dover riattivare l’esercizio della sua più ricorrente virtù: “resistere”, per l’appunto. Gli italiani hanno cominciato a praticarla, in modo eroico e generoso, durante la Resistenza antifascista culminata nella vittoria del 25 aprile 1945, e da allora non hanno più smesso di farlo attraverso tre quarti di secolo scanditi da tentativi di colpi di Stato, terrorismo, malgoverno diffuso, corruzione elevata a sistema, crisi economiche, infiltrazioni mafiose, derive berlusconiane e populiste. Fino a ritrovarsi dall’oggi al domani a fronteggiare, chiusi nelle proprie case, “come in guerra”, una catastrofe sanitaria e socio-economica destinata a segnare un’epoca. Ma è proprio questo, di nuovo, un Paese che resiste, come ci ricorda la materna voce della Loren.
La seconda considerazione discende dal successo mediatico arriso a questo spot. Dove, nel corale assenso tributato a un video effettivamente gradevole e ben fatto, è molto difficile rinvenire traccia della fonte storica di quell'”Italia che resiste”. Non se ne legge cenno negli articoli pubblicati da Corriere della Sera-Style, Repubblica Tv e La Stampa (a firma di Fulvia Caprara), tanto per citare i tre principali quotidiani nazionali, nè ci è capitato di scovarne una qualche citazione in altri link comparsi in rete.
Peccato per Francesco De Gregori, e per i milioni che da quarant’anni si portano nel cuore la sua “Viva l’Italia”, ballata dedicata al proprio Paese dal cantautore romano, nonché pezzo portante del suo album omonimo, pubblicato nel 1979. Da allora, nell’immaginario popolare del Paese, compreso quello degli elettori di Salvini, fan dichiarato tramite pagina Facebook della musica di De Gregori, “l’Italia che resiste” è quella posta, come nello spot, a conclusione di un testo ispirato non agli spaghetti, ma alla storia patria. Significativa è in tal senso la testimonianza di Sara Simeoni, saltatrice in alto veronese che, raccontando al Corriere della Sera della medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi di Mosca del 1980 (dove, a causa del boicottaggio occidentale ai Giochi, non venivano eseguiti inni nazionali) rivela di avere cantato sul podio proprio “Viva l’Italia”.
La forte presa emotiva esercitata dal pezzo risale alla sua ispirazione. In particolare, la canzone nasce da una precisa ricorrenza, che sono i dieci anni trascorsi, in quel 1979, dal 12 dicembre 1969. In quel giorno, nella sede di Milano della Banca Nazionale dell’Agricoltura, l’esplosione di una bomba provoca la morte di diciassette persone, e il ferimento di altre ottantotto. E’ la tristemente famosa strage di piazza Fontana, attentato di cui la Corte di Cassazione, con sentenza del 3 maggio 2005, attribuirà l’esecuzione a una cellula di terroristi neofascisti. E’ a questo passato che dice no “l’Italia derubata e colpita al cuore”, “l’Italia metà dovere e metà fortuna” di cui canta De Gregori. E’ questa, e solo questa, l'”Italia che resiste”.
Di una così netta rimozione, lo spot, realizzato dall’agenzia Publicis Italia, non ha alcuna responsabilità. E’ un problema di Memoria collettiva, i cui vuoti generano conseguenze su cui è bene riflettere.
Da una parte, senza la possibilità di guardare al di là delle immagini, “l’Italia che resiste” diventa quella, squisitamente pubblicitaria, evocata dalla musica di Vangelis a suo tempo utilizzata per spot di grande successo, e scelta per riportare quanti c’erano agli anni ’80 della crescita economica, degli investimenti facili e dell’imperante edonismo seguito alle stagioni dell’impegno politico. Come se prima di quelle famigliole felici, o di quei micetti amorevolmente salvati sotto la pioggia, si stagliasse più o meno il nulla,
Dall’altra, rischia di sbiadire il formidabile impatto emotivo che, in questo sciagurato 2020, attualizza a chiare lettere la ballata degregoriana. Già, perché nell’Italia dei cortei di salme e delle oltre 23mila vittime “ufficiali” censite il 19 aprile, dopo due mesi di contagi, recita una parte non indifferente il malgoverno della sanità, di nuovo nella Milano di piazza Fontana, e nella regione Lombardia di cui Milano è il capoluogo. Soffermandoci a un solo esempio, la magistratura che indaga per “epidemia colposa”, riferita a 190 anziani morti negli ultimi due mesi all’interno del Pio Albergo Trivulzio, riporta alla ribalta la stessa, e per ora immortale, “Italia metà giardino e metà galera” di quaranta e cinquant’anni fa. Ma anche di trenta, ricordando che l’istituto per la terza età è lo stesso luogo dove nel 1992, con l’arresto del presidente Mario Chiesa, iniziava il crollo della Prima Repubblica, dovuto alle meritorie inchieste giudiziarie di Tangentopoli.
Ci sarebbe molto di cui disperarsi di fronte a questi eterni ritorni, nonostante l’indubbio impegno profuso dall’attuale governo per tutelare la salute degli italiani, pur con gli inevitabili errori dovuti all’emergenza. Ma è un sentimento, la disperazione, a cui si oppongono molti fatti, a cominciare dall’immane sacrificio dei medici e degli infermieri prodigatisi con uno spirito di servizio esemplificato dai 150 morti “ufficiali” e dai circa settemila contagiati che si contavano la mattina del 20 aprile.
Uno fra questi sanitari è il medico che la mattina dell’11 aprile è costretto dalla calamità in pieno corso a chiamare il 112 dall’interno della casa di riposo Villa Paradiso di Brugherio, nei dintorni di Monza. “Sono rimasto solo in mezzo agli anziani che muoiono, venite ad aiutarmi” dice all’operatore di servizio.
La sua voce ci rivela una volta di più che ha ragione Francesco De Gregori, così come Sophia Loren: il 25 aprile 2020 c’è un “‘Italia che ancora resiste”.
Stefano Ferrio