LE STAFFETTE DI LONIGO

Caterina Martello (Stella)
Dopo l’8 settembre ’43 anche a Lonigo si è cominciato a organizzare l’antifascismo e venne costituito il Cln mandamentale.
I promotori, per quanto ne so, erano stati alcuni militari, il capitano Fiandini dei carristi, un tenente sempre dei carristi, Nicolino Polcino, che verso la fine dell’estate ’44 divenne comandante della «Brigata Martiri di Grancona» ed altri graduati e soldati che non erano riusciti a raggiungere le loro case.


A proposito di soldati, per tutto il periodo della guerra a Lonigo ne sono passati molti, di diversi Corpi. Lonigo era un luogo di transito. I soldati vi stazionavano per essere poi mandati sui fronti di guerra, nei Balcani soprattutto e In Russia. Da ultimo sono venuti i carristi, mi pare nei giorni precedenti l’armistizio. Oltre a quei militari nella rete clandestina c’erano il pretore Ettore Gallo, il comunista Marchetto rientrato dal confino di Ventotene, dei vecchi socialisti come De Lorenzi e Campanaro (che abitava proprio in piazza), nonché Luciano Bettini, uomo proprio di grande coraggio, che aveva delle autocorriere con cui faceva servizio pubblico e che si dava molto da fare coi giovani e riusciva a procurare armi. Collaborava pure la famiglia Sterchele. Pure mio padre e il mio fidanzato, che era del ’14, collaboravano.


A Lonigo nei primi tempi c’erano pochi militari tedeschi. Poi di più. Avevano il comando a Villa Giovannelli, ma occupavano anche altri posti: le scuole di via Scortegagna, una parte della Colonia Agricola, una parte dell’Ospedale, la villa Pisani di Bagnolo. Alcuni dei tedeschi facevano pietà perché erano veramente anziani. I tedeschi non si occupavano con continuità dell’attività repressiva contro i partigiani, compito che lasciavano ai fascisti e, quando si costituirono, alle Brigate Nere.
Intervenivano invece quando c’erano da fare delle vere e proprie retate per catturare i partigiani o per obbligare la gente a lavorare nella Todt che sul finire dell’estate ’44 aveva cominciato a costruire un grande vallo, fortificato con bunker e postazioni per armi pesanti, dai Lessini fino alla costa adriatica per impedire l’eventuale avanzata delle truppe corazzate degli alleati. Quel fossato attraversava Lonigo e altri paesi della zona, come Sarego e Alonte.


Il mio compito di staffetta era portare in giro messaggi, informazioni, tenere i contatti tra i membri della rete clandestina. Gli ordini li ricevevo direttamente dal capitano Fiandini, più che da Marchetto. Giravo la zona, andavo in bicicletta, spesso con Maria Sterchele, a Noventa, a Cologna, a Vicenza. A Noventa ci andavo soprattutto per ritirare delle tessere e dei documenti da uno, non mi ricordo più se comunista o socialista, che poi è finito in un campo di concentramento con me a Bolzano. Lui aveva un cognato che lavorava in Municipio e ci procurava dei documenti che poi venivano distribuiti a delle persone per evitare che prestassero il servizio coatto nella Todt che allora, soprattutto nelle colline, come ho detto, faceva scavi, trincee, fosse anticarro, fortificazioni, oltre che riparare le strutture viarie danneggiate dai bombardamenti.


A Cologna avevo contatti soprattutto con il professor Giovanni Zorzi. Quando poi mi recavo a Vicenza, l’appuntamento era fissato a Monte Berico, ma non ricordo con chi. Una volta a Vicenza ho ritirato del sale e l’ho portato in bicicletta a Lonigo. Un’altra volta sono andata da Galla per ritirare un ciclostile perché qui, a Santo Stefano, c’era un giovane impiegato, che abitava in aperta campagna ve sapeva adoperare bene macchina da scrivere e ciclostile. Nascosti in campagna c’erano anche dei carabinieri che avevano disertato e noi gli portavamo notizie delle loro famiglie e dei soldi. Poi in zona ci sono stati dei lanci, pochissimi per dire la verità, e aiutavamo a recuperarli.


Ma noi staffette non è che avevamo una conoscenza esatta dell’organizzazione. Qualche componente di Lonigo, o dei paesi vicini, magari li conoscevamo bene; altri, di paesi più lontani, solo col nome assunto in clandestinità.
Andavamo dove ci dicevano di andare e facevamo quello che ci dicevano di fare. Ma, ripeto, non è che le staffette dovevano sapere troppe cose, o come era organizzata la rete o le azioni che venivano progettate.
Per quanto ricordo i maggiori contatti li avevamo con Gallo e con Zorzi.
Tenete conto che la staffetta la facevo saltuariamente, quando potevo, perché lavoravo in Filanda.
Nei primi tempi la staffetta la facevo per quel gruppo di cui vi ho detto erano Fiandini, Gallo, Marchetto e altri, poi, a partire dalla tarda estate, per la «Brigata Martiri di Grancona», ma per me c’è stata come una continuità tra queste formazioni partigiane perché la nostra attività di staffette non è cambiata nel corso dei mesi. Nell’inverno ’44-‘45 ho avuto contatti con il gruppo guidato da Alberto Sartori, dirigente della «Garemi».


Alla fine del ’44 l’azione repressiva dei fascisti è diventata più cattiva e nei diversi posti molti sono stati i catturati. Per cui in quel periodo abbiamo annullato ogni azione.
Nel febbraio ’45 è capitato anche a me, e a molti che facevano parte del nostro gruppo, di essere arrestata.
La ragione è stata questa. Dopo il terribile bombardamento di Lonigo del 31 ottobre del ’44, tanti del paese si erano trasferiti in campagna, Uno che faceva parte del nostro gruppo, un tale B., che abitava in una fattoria in campagna, distante e isolata, non ha più potuto stare lì e campanaro se l’è preso in casa, A casa di Campanaro si facevano delle riunioni e cosi B., che prima ci conosceva poco e solo coi nostri nomi di partigiani, ci ha conosciuto coi nostri nomi e cognomi veri. Ha conosciuto anche me che una volta ero andata a ritirare la macchina da scrivere a casa di Campanaro. Quando è cominciata, mi pare a gennaio, la caccia ai partigiani, B. è tornato a nascondersi dalle parti di Santo Stefano. Ma qualcuno ha fatto la spia e i fascisti lo hanno preso e a furia di botte lo hanno costretto a dire tutto ciò che sapeva sull’attività e sull’organizzazione della Resistenza locale e a rivelare anche i nomi e cognomi dei partigiani. In somma verso i primi di febbraio mi hanno catturata e portata in caserma a Lonigo. Volevano sapere a tutti costi dove avessi nascosto la macchina da scrivere. Io ho provato a negare e mi sono presa due o tre sberle. Poi hanno fatto entrare per il confronto B. che a fura di botte era stato ridotto un “ecce homo” e insomma lui ha fatto il riconoscimento e detto che ero stato io a ritirare la macchina.
In quel giorno siamo stati arrestati in diversi, l’ingegnere Francesco Gecchele, Piero Cunico, Maria Sterchele, il direttore della Cassa di risparmio Marchini, Antonio Benna e altri,
Da Lonigo ci hanno poi portato con due carrette, prima a San Bonifacio, nella sede delle Brigare Nere , e ci hanno fatto pagare persino il pranzo e poi da lì a Verona, dalle parti di Porta Vescovo nello scantinato di una scuola elementare, e ci siamo rimasti, non so perché o come un po’ di tempo, mi pare una settimana, interrogati dapprima dalle Brigate Nere e poi dalle SS, la cui sede in un palazzo delle Assicurazioni, dalle parti di piazza Bra. Verona in quel tempo era bombardata e noi vedevamo gli aerei che bombardavano, gli spezzoni incendiari, il fumo che si alzava dai palazzi colpiti. Il nostro gruppo però era ormai diviso, per cui di alcuni non so che successe.
Insomma, alcuni di noi siamo stati inviati al campo di concentramento di Bolzano, che era in realtà un campo di smistamento dal quale trasferivano i prigionieri nei vari lager nazisti, ma quando ci sono arrivata io le deportazioni erano fortunatamente cessate.


Mi pare di essere stata mandata, sopra un camion, ai primi di marzo. Ci hanno fatti partire da Verona verso le sei del pomeriggio e siamo arrivati a Bolzano verso la mezzanotte e sistemati nelle baracche. Mi ricordo che c’erano B. e Cunico, ma di altri che erano stati presi come il direttore della Cassa di Risparmio o l’ingegnere Gecchele non so. So che altri erano stati portati a Bolzano, come Maria Sterchele, ma io non li ho mai incontrati e questo perché il campo era grande e pieno di prigionieri.
Sono stata anche fortunata, non sono rimasta fino alla fine a Bolzano perché a metà aprile ero stata ricoverata prima in infermeria e poi in ospedale.


La cosa è andata così. Devo raccontare che nel campo arrivavano altri prigionieri, oltre agli italiani. Arrivavano degli inglesi, degli americani, di altri posti.
Quelli del campo sapevano di non essere in regola con l’igiene – sapevano pure di aver perso la guerra – così hanno provveduto a disinfestare le baracche perché piene di pidocchi. I pidocchi c’erano sempre, anche a Verona li ho trovati. Siccome disinfestavano le baracche, ci hanno sistemato nei magazzini e in altri locali di servizio e hanno messo nell’autoclave i nostri vestiti e le coperte. Siamo stati così un giorno e una notte, io era nuda, avevo addosso solo una coperta, faceva un gran freddo e perciò mi sono presa una broncopolmonite e dopo mi è venuta la pleurite. Perciò hanno dovuto mettermi nell’infermeria, credo fosse la metà di aprile,
Prima di questo ricovero, nel campo mi avevano messo a lavorare nella lavanderia e a svolgere altri servizi. Gli uomini li mandavano fuori a lavorare nelle fabbriche o nei posti che erano stati bombardati. Lavoravano dieci ore al giorno.
Due volte al giorno, mattino e sera, ci allineavano e facevano la conta. Si stava malissimo, si dormiva poco e il mangiare era una specie di semolino, uno sbrodego.


In quel periodo mi ricordo che ci veniva a parlare un prete r ci raccomandava di non vendicarci a guerra finita. Eravamo tanti, per questo non ho incontrato Maria Sterchele o altri. Lì in infermeria c’era anche Meneghetti, un professore padovano, io non l’ho mai incontrato, ma lui ha sentito che c’era gente di Lonigo e lui aveva avuto contatti con la resistenza della nostra zona. Da quel che ho saputo, si è adoperato perché venissi mandata in ospedale.
A Lonigo ci sono tornata ai primi di maggio. Era venuto mio papà a prendermi all’ospedale dove ero ricoverata.


Tornata a Lonigo non ho fatto, in campo politico, più niente, a differenza di Maria Sterchele che invece è sempre stata attiva. Cogli anni me ne sono un po’ pentita, la le cose sono andate così. Nel dopoguerra mi sono sposata e ho avuto tre figli. Dal punto di vista economico, Lonigo nel dopoguerra se la passava male. Le filande hanno chiuso, a cominciare dalle più importanti, che erano di proprietà di Gino Bonazzi. Per qualche tempo è rimasta attiva la filanda Giacometti. Poi anche la Pellizzari ha chiuso lo stabilimento. Molti allora dovevano trovare lavoro fuori Lonigo. Le ragazze trovavano un lavoro saltuario fino ai primi anni Cinquanta, andando a fare la monda nelle risaie del vercellese e del pavese. C’è stata tanta miseria. Io sono stata prevalentemente in casa, ma saltuariamente ho lavorato perché un solo stipendio a volte non bastava per mantenere tre figli.
Politica non ne ho fatta, invece ho frequentato l’ANPI, ho partecipato a tante manifestazioni commemorative dei fatti della Resistenza, ci ho portato i miei figli. Sono stata in Germania in visita ai lager. Però confesso che a volte mi sento demoralizzata per quel che vedo oggi, al governo del paese. Mi sembra che si torni indietro.

Maria Sterchele (Maruska)
Il mio lavoro, nell’autunno e nella primavera, era quello di staffetta di quel gruppo che si chiamava «Tre Stelle», ma in particolare facevo da staffetta al capitano Fiandini. Di staffette a Lonigo c‘erano, oltre me, Rina Martello ed altre di Santo Stefano. Anche a Noventa e in altri paesi c’erano staffette, ma non le ho conosciute.
Il gruppo faceva attività nella zona da Cologna a Lonigo e Noventa. Noi portavamo i messaggi del CLN ad altri Comitati, facevamo collegamenti all’interno della rete clandestina ed anche altro. Al capitano Fiandini che doveva nascondersi gli ho trovato una casa alle scuole di Bagnolo. Ho parlato con la maestra e lei ha accettato, nonostante ci fossero lì tanti fascisti.


Voi mi dite che il gruppo «Tre stelle» si è sciolto a metà del 1944, ma io ora ho ottant’anni e tante cose mi scappano di mente. Non è che poi le staffette sapevano, o dovevano sapere, tante cose. Il nostro lavoro, anche se voi dite che il gruppo «Tre Stelle» si è sciolto, non è proprio cambiato. Anzi, i contatti divennero man mano più estesi.
Nell’autunno ’44 si era formata una brigata che si richiamava ai Martiri di Grancona [eccidio perpetrato dai fascisti l’8 giugno ‘44], ma c’erano altri gruppi, divisi ma anche collegati. Mi ricordo che nell’autunno ’44 venne ad operare nel Basso Vicentino Alberto Sartori, uomo assai coraggioso, uno dei capi delle formazioni garibaldine.
Sartori era tanto amico di Marchetto e l’ho visto più volte con lui. Fu Sartori che sparò al generale Peloso, ma in quel periodo io non ero più a Lonigo perché mi tenevano prigioniera nel campo di Bolzano.
Insieme a me, nel febbraio del ’45, vennero catturati altri del gruppo, ma già un mese prima era stato arrestato, davanti alla Pretura, Ettore Gallo che poi finì a Padova nelle mani della banda Carità.
Sono stata arrestata uno dei primi giorni del febbraio ’45, alle sei del mattino. Mi hanno preso che ero ancora a letto e portato subito nella caserma dei carabinieri di Lonigo. In quelle ore hanno catturato anche altri: l’ingegnere Gecchele; un operaio comunista, tale Cunico, gran brava persona; Caterina Martello e altri che ora non ricordo. Ma eravamo parecchi.
Sono stata interrogata dal capitano Berti – e poi ho testimoniato contro di lui al processo che gli hanno fatto – e da due marescialli che non conoscevo. Mi hanno interrogato e siccome non rispondevo mi hanno dato delle botte. Ricordo che ho detto; «mi avevano detto che picchiate anche le donne, ma adesso ho la prova su di me».
Mentre un maresciallo mi picchiava hanno portato nella stanza una donna di Santo Stefano che collaborava con la Resistenza. Ho fatto finta di non conoscerla e lei lo stesso. Ma è stato per me un colpo. Significava che cercavano tutti, che sapevano di tutti. Ci hanno catturati perché uno di Santo Stefano, che pure era dei nostri, fermato e picchiato dai fascisti, aveva parlato e fatto i nomi di tutti quelli che lavoravano per la Resistenza a Lonigo e dintorni. Dopo l’interrogatorio ci hanno trasportata colle carrette a San Bonifacio e lì ricordo di aver dormito in una stanza con tanti militari e mi sono messa in un canto, giovane com’ero, piena di paura che mi succedesse qualcosa.
La mattina del giorno dopo, lunedì, ci hanno portato a Verona dalle Brigate Nere. Lì siamo stati diversi giorni e sono stata interrogata prima dai fascisti e poi dai tedeschi. Infine, ci hanno spedite a Bolzano.
Bolzano era un campo di smistamento verso i campi di concentramento. Li ci hanno separato, uomini e donne. Da Bolzano tantissimi erano stati deportati nei campi di concentramento e non sono più tornati. Ma anche a Bolzano ne sono morti diversi. Anzi, mi chiedo come sia stato possibile sopportare quella vita, visto che ci trattavano come bestie.
Un giorno nel campo ho incontrato il professor Perotti, un partigiano che avevo conosciuto in casa del professor Zorzi di Cologna. Perotti si era avvicinato per salutarmi e invece una donna mi ha afferrato per i capelli e trascinato via perché tra detenuti non si poteva parlare.
La situazione del dopoguerra era terribile. Non sono più tornata in fabbrica. Basta filanda. Le filande erano chiuse o lavoravano saltuariamente. Anche negli ultimi anni della guerra c’erano state parecchie interruzioni del lavoro, sia per mancanza di bozzoli da lavorare sia per i bombardamenti o le minacce di bombardamento.
Quando c’erra l’allarme non è che la fabbrica chiudesse, eravamo noi operaie a scappare e ci mettevamo nel campo dell’Ippodromo in attesa che il pericolo cessasse. Tra bombardamenti e mitragliamenti aerei a Lonigo ce ne sono stati una trentina. Ma gli allarmi aerei sono stati diverse centinaia.
La ragione vera per cui nel dopoguerra sono stata a casa è che mia madre era ammalata di arteriosclerosi. Cinque anni ha passato su una sedia, allora non c’erano le cure di oggi, mi capite? Ho dovuto badare alla famiglia, tanto più che i miei fratelli sono tornati dalla guerra invalidi.
Ho anche fatto, e fino a pochissimi anni fa, tanta attività sia politica che sindacale.


Subito dopo la fine della guerra, quando era sindaco Leo Marchetto, ci fu una bella manifestazione in teatro per onorare la Resistenza, ma dopo più nulla: anzi i resistenti erano guardati con sospetto, messi ai margini, Lonigo era piena di democristiani.
Governavano i signori, ci guardavano dall’alto in basso. Anche i preti ci consideravano delle bestie nere, anche quando facevamo le cose giuste.
(Interviste del febbraio 2005, a cura di Giuseppe Pupillo e Filippo Schiavo)

Giuseppe Pupillo