78° Anniversario della rappresaglia nazifascista del 17 agosto 1944

Come ogni anno, mercoledì 17 agosto, una delegazione dell’ANPI di Vicenza si è recata a Padova, alla caserma “Pierobon” e, successivamente, in città, in via Santa Lucia, dove sono stati fucilati 7 partigiani (alla caserma) e impiccati altri tre (in via S. Lucia) da parte dei fascisti il 17 agosto 1944.

Tra coloro che vennero uccisi vi furono Luigi Pierobon “Dante” e Clemente Lampioni “Pino”, conosciuti ed apprezzati dalle partigiane e partigiani vicentini perché rispettivamente Comandante e Commissario politico della Brigata Stella. Un’operazione vigliacca.

Una rappresaglia compiuta a seguito dell’uccisione di un ufficiale fascista nei giorni precedenti.

Gli assassini che hanno deciso di uccidere i 10 partigiani sapevano che a colpire il tenente colonnello fascista Fronteddu non erano stati i partigiani ma sicari inviati da un ufficiale tedesco per motivi di gelosia.

Orazione di Irene Barichello (Anpi Padova)

Autorità civili e militari, rappresentanti delle associazioni combattentistiche e d’arma, compagni partigiani e antifascisti, parenti delle vittime, concittadine e concittadini tutti, vi porto il saluto dell’ANPI di Padova a nome della quale vi parlo.

Siamo qui oggi a fare memoria di fatti accaduti 78 anni fa. Oratori illustri mi hanno preceduto, testimoni diretti e partigiani come Egidio Meneghetti che fu il primo nel 1945, Paolo Pannocchia, Giorgio Tosi, Franco Busetto, Giuliano Lenci, Emilio Pegoraro e molti altri.

È per me difficile, dunque, adempiere altrettanto degnamente al loro stesso servizio. Difficile ma non meno importante e necessario: ogni cittadino di questa Repubblica potrebbe e dovrebbe farsi carico della storia da cui i suoi diritti provengono: ce lo chiede la nostra Costituzione con tutta la forza del suo spirito antifascista. Essere cittadini dovrebbe implicare anche il saper fare memoria e la memoria, come ci ricorda lo scrittore Marco Balzano, va generalmente attivata affinché possa assumere una connotazione etica: è dalla sua attività, infatti, che dipende la vita del passato, il quale può farsi polvere o monumento.

La memoria è l’arma con cui si fissa nella pietra quel passato prezioso con cui dobbiamo fare ancora i conti e che dobbiamo proteggere dai rischi sempre incombenti dell’oblio e della manipolazione.

La funzione etica della memoria, dunque, ne sancisce anche la sua dimensione pubblica: salviamo ciò che per la sua ricchezza di senso può illustrare il presente, ciò che è giusto non dimenticare.

Poco fa alla caserma Pierobon sono stati ricordati i sette assassinati dal nazifascismo, vigliaccamente fucilati alla schiena, come toccava ai traditori. Eppure questo nome – traditori e asserviti agli occupanti nazisti – lo meritano i tre gerarchi fascisti che all’epoca opprimevano Padova: Menna, Vivarelli e Prisco.

Questo triumvirato fascista decise di fucilare i sette della Pierobon e di impiccare Busonera, Calderoni e Lampioni qui, per rappresaglia contro l’omicidio del  ten. col. Bartolomeo Fronteddu, ammazzato in realtà per questioni di gelosia da tre sicari pagati dal sottufficiale nazista Martin, invaghitosi della stessa donna.

Questa unica verità era nota alle autorità fasciste padovane già alcune ore prima delle esecuzioni, verità poi provata da due processi. Eppure i repubblichini hanno allestito la messa in scena delle 7 fucilazioni e 3 impiccagioni per colpire e terrorizzare la collettività padovana e la lotta partigiana che combatteva!

A proposito di cose note, permettetemi: la lapide presente alla caserma Pierobon reca i nomi non solo dei “Caduti per la libertà” ma anche quelli dei tre sgherri che assassinarono Fronteddu. Da anni l’ANPI di Padova, assieme ai familiari di alcune delle vittime, ha fatto presente questo paradosso sia alle autorità militari sia a quelle civili, senza ancora ottenere che quel “monumento” sia corretto o debitamente integrato con delle spiegazioni. Com’è possibile? O da 78 anni ricordiamo 10 martiri anziché 13, oppure questo errore va sanato. Burocrazia e procedure non possono soffocare e vincere una legittima, comprovata e giusta richiesta di rettifica. 

Oggi come allora, la morte di questi 10 uomini dice molto, condannandolo senza appello, del Fascismo, il regime che li ha uccisi.

La loro vita, invece, racconta ciò che il fascismo non è mai stato: una Resistenza composita, plurale e diversificata. Donne e uomini diversi per estrazione sociale, culturale e politica non esitarono a mettere a rischio e a perdere la propria vita, combattendo, nascondendo, sfamando, per opporsi alle lugubri, crudeli e autoritarie ideologie fascista e nazista. Anche sulla forca di quell’ormai lontano 17 agosto si sono spente per un’unica causa, quella della libertà e della democrazia, vite e storie diversissime che seppero conoscersi, rispettarsi e collaborare nella prospettiva di un futuro e un Paese migliori.

Vi era il dottor Flavio Busonera, pediatra di Oristano, costretto ad abbandonare la Sardegna per via del suo radicato antifascismo socialista e comunista. Esercitò la sua professione a Claut nella Valcellina  e Cavarzere, nel Basso Veneziano. Zone di miseria profonda. Busonera lì fu un medico davvero al servizio del popolo; ricorda la figlia Maria Teresa che «Spesso veniva chiamato fuori della sua condotta a visitare bambini malati di gente poverissima. Così non solo non si faceva pagare, ma era lui che lasciava qualche soldo perché comprassero del cibo ai loro bambini». Prese successivamente contatti con i primi nuclei della Resistenza padovana fino a divenire commissario politico della “Brigata Venezia”, tenne rapporti con alcuni professori universitari, in particolare con l’ing. Otello Pighin, con cui, nel maggio-giugno del 1944, organizzò numerosi lanci alleati nelle campagne attorno a Cavarzere. Contemporaneamente prestava la sua opera di medico nelle condizioni più pericolose anche per i partigiani feriti o ammalati. E per questo venne catturato: fu fatto prigioniero a Rovigo, poi  a Padova e infine portato a questo patibolo.

Vi era il piacentino Ettore Calderoni, classe 1915, che ebbe sicuramente un ruolo più marginale e probabilmente oscuro nel movimento resistenziale: si sa che venne trovato con le armi in pugno nelle campagne di Cervarese Santa Croce, che era uno dei tanti renitenti alla leva condannati a morte dai bandi di Graziani. Non sappiamo  nulla del suo livello di consapevolezza politica o della sua attività partigiana.

Ma anche questa indeterminatezza si fa spunto di riflessione: ci aiuta a considerare quanti, degli oltre 100.000 partigiani e partigiane, si sacrificarono per l’Italia e per la libertà rimanendo del tutto oscuri ai posteri, senza il distinguo di una monografia o il riflesso di una medaglia e ci aiuta a dar corpo e peso alle parole di Italo Calvino ai detrattori della Resistenza: “D’accordo, farò come se aveste ragione voi, […] metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!”.

Vi era Clemente Lampioni, “Pino”. Le ricerche storiche meticolose, in particolare quella di Faggion e Cecchinato, l’opera zelante dei familiari, hanno portato a una doverosa rivalutazione di “Pino”, Commissario Partigiano della Brigata Garibaldina “Stella”, operante tra Valdagno e Recoaro. Proviene da un’esperienza di ribellione anarcoide alla società e alle sue leggi, e aderisce attivamente, dal 1937 al 1939, alla Banda Bedin, i cui colpi tuttavia, come ricorda il partigiano garibaldino Vittorio Marangon, «godevano di tacito ma diffuso consenso». Lampioni è stato un bandito, sì, e per questo pagò con la  detenzione nelle carceri di Ancona. Carceri colpite da una bomba ai primi del settembre del ’43, così Lampioni fuggì a casa. Arrivato a Padova chiese di entrare nelle formazioni partigiane: fu Aronne Molinari a incontrarlo e valutarlo degno di fiducia, e lo mandò così – tra i primi – a formare il gruppo di Malga Campetto. In quelle valli e montagne, Lampioni, allora quarantenne, collaborò gomito a gomito con il ventiduenne Luigi Pierobon, “Dante”, il “professore”, di estrazione cattolica. Insieme seppero, con il loro esempio, il loro coraggio e la loro moralità, conquistarsi la fiducia e la stima di moltissimi uomini e ingrandire il “battaglione Stella” sino a farne prima una brigata, di cui furono rispettivamente commissario e comandante, e poi una divisione. La relazione operativa della formazione garibaldina “Stella” riporta nei mesi tra aprile e luglio 1944 ben 70 azioni militari partigiane contro i nazifascisti. Significa che “Dante” e “Pino” esercitarono con efficacia la loro capacità di comando. Significa che Dante e Pino usarono le armi. Sì, rammentiamo anche questo una volta per tutte, la Resistenza fu anche lotta e guerra, “perché – come ricorda Sergio Luzzatto nel suo La crisi dell’antifascismo – certe guerre civili meritano di essere combattute” se l’obiettivo è riconquistare e allargare i diritti, se il fucile si prende, come scrive Giuseppe Filippetta ne L’estate che imparammo a sparare, “per tornare a ballare”, per votare finalmente tutti quanti e dar vita a un mondo che si voleva libero da oppressioni e discriminazioni. 

Poco prima alla caserma Pierobon e ora, qui in via Santa Lucia, siamo nei luoghi dove gli antifascisti hanno trovato la morte ma, lo ripeto, è della loro vita che dobbiamo fare memoria e a cui dobbiamo ispirarci.

Ai partigiani piaceva la vita e aborrivano la morte, proprio il contrario di quanto – con gran sperpero di retorica – inneggiava il Fascismo, che glorificava la bella morte ma più spesso tendeva a darla ai suoi nemici, ossia chiunque non fosse fascista.

Sono anche questi gli effetti della pericolosa equazione italiano-fascista ordita da Mussolini. Sono certa che nessuno, tra i presenti, possa sostenere con onestà intellettuale che “Mussolini ha fatto anche cose buone”, al netto ovviamente delle cose buone che anche un orologio rotto sa fare almeno due volte al giorno, ma sono – e da un pezzo – tempi strani, in Italia e in Europa. Nessuna formazione politica e partitica, oggi, si ispira esplicitamente all’antifascismo storico.

Mi chiedo e vi chiedo se possiamo dire anche il contrario. Se possiamo con certezza affermare che oggi nessuna formazione politica e partitica si ispiri esplicitamente, nei simboli e nei “valori”, al fascismo storico e ai suoi paradigmi. È una domanda importante, ma anche se la risposta fosse no, non per questo l’antifascismo perderebbe di significato.

L’antifascismo non sussiste solo in funzione e per reazione al fascismo, ma continua ad avere senso a prescindere e a darne all’esistenza che ad esso si impronta. Infatti, spiega lo storico De Luna, “si può intendere l’antifascismo come un forma particolare della concezione politica del tutto svincolata dall’ambito cronologico del Ventennio fascista, una concezione politica definita da elementi che appartengono drammaticamente alla realtà del nostro tempo: la tolleranza, la libertà, i diritti degli esseri umani, l’uguaglianza, la giustizia, il rispetto delle regole della convivenza civile”. Ferruccio Parri aggiungerebbe “Nella fede di queste idee noi ci riconosciamo: nel dispregio di queste idee riconosciamo il fascismo”.

W l’Italia democratica e sempre antifascista!
W la Costituzione della Repubblica!

Irene Barichello