“Amelia”, l’intrepido battaglione delle donne

tratto dall’articolo pubblicato Patria Indipendente il 24/04/2021
a firma di Sonia Residori, storica e dottore di ricerca Università di Verona

Aveva comandanti tutte al femminile
e una schiera di garibaldine abili con armi ed esplosivi, organizzate, decise, grazie al coraggio di un’idea.
Ma da protagoniste della Resistenza diverranno spettatrici.
Fin dalla Liberazione

Nel Vicentino, all’indomani della Liberazione, partigiane e patriote della brigata “Stella” furono inquadrate nel battaglione “Amelia”, dal nome di battaglia di Cornelia Lovato, caduta il 28 aprile 1945. Designate comandante e commissario politico furono Flora Cocco (Lea) e Wilna Marchi (Nadia). Seppure la nomina avvenne sulla carta e a posteriori, rispecchiava comunque una realtà di fatto.

Un consistente numero di donne aveva aderito alla Resistenza in tutta la valle dell’Agno. Divise in gruppi, “ogni garibaldina”, si legge nel diario di Wilna Marchi “ha il proprio compito da svolgere. Alcune confezionano calze, altre raccolgono lana e indumenti vari, medicinali, viveri ecc. ecc.; altre fanno la spola dal paese alle più alte contrade di montagna con sacchi di pane; e c’è chi fa la staffetta da un distaccamento all’altro”. Wilna scrive che il giornale Noi Donne era letto con entusiasmo e passato con cura di gruppo in gruppo e che alle riunioni, tenute ora nei boschi, ora nei fienili, oltre 40 garibaldine accorrevano volentieri, a volte portando ai compagni qualche sorpresa (un dolce, una bottiglia di vino, un pacchetto di sigarette).

Nell’esercito della Resistenza le donne hanno ricoperto molteplici incarichi, in particolare quello di staffetta: un ruolo prezioso nato dalla necessità della guerra per bande di tenere i collegamenti tra i diversi distaccamenti e assicurare i rifornimenti. Donne e ragazze, anche giovanissime, andavano in giro dappertutto, attraversavano villaggi, si arrampicavano per i monti, scendevano le valli passando, spavalde o piene di paura, per i posti di blocco nazisti e fascisti, portando messaggi ma anche cibo, vestiti, medicine, stampa e anche armi smontate e munizioni. Talvolta avevano una bicicletta, ma spesso erano a piedi, nella neve, nel fango o sotto il sole, o dovevano spostarsi in treno, o trascinare carrette o carriole di fortuna servendosi per il trasporto di astuzia e di arnesi femminili: grandi borse della spesa, panciere, giarrettiere, reggiseni per nascondere la “roba”.

Sfidando la morale comune, un certo numero di ragazze viveva presso i comandi di brigata. Emilia Bertinato (Volontà), staffetta della brigata Stella, mi ha raccontato in un’intervista che “c’erano tre-quattro donne partigiane fisse, la Anita, sorella del combattente  Giglio e per me una grande amica, aveva il mitra in spalla, [ma poi c’erano] la Serena, la Maria, l’Agata, fisse là. Anche la Liliana stava fissa. Dormivano sulla tezza, là dove c’era il fieno. Portavano i pantaloni e il giubbetto rosso fatto dalle sarte, chissà a loro cosa sembrava, di andare chissà dove. Ce n’erano tante, non solo loro, molte da Montecchio”. Qualcuna di loro era innamorata ed era salita in montagna per vivere la sua storia d’amore, ma Emilia ci tiene a sottolineare che erano poche, per lo più “c’era l’ambizione, il coraggio di un’idea”.

Per immaginarci come dovevano essere queste ragazze mi piace rievocare la scena che Johnny, il partigiano raccontato da un grande scrittore della Resistenza, Beppe Fenoglio, si trova di fronte quando arriva al quartier generale degli “azzurri” e vede un gran numero di donne: “con ciò aumentando quella generale impressione di anacronismo che quei ranghi inspiravano, un’abbondanza femminile concepibile soltanto in un esercito del tardo Seicento, ancora fuori della scopa di Cromwell. Il latente anelito di Johnny al puritanesimo militare, appunto, gli fece scuoter la testa a quella vista, ma in effetti, sul momento appunto, le donne stavano lavorando sodo, facendo pulizia, bucato, una dattilografando… Il solo fatto che portassero un nome di battaglia, come gli uomini, poteva suggerire a un povero malizioso un’associazione con altre donne portanti uno pseudonimo. Esse in effetti praticavano il libero amore, ma erano giovani donne, nella loro esatta stagione d’amore coincidente con una stagione di morte, amavano uomini doomed e l’amore fu molto spesso il penultimo gesto della loro destinata esistenza. Si resero utili, combatterono, fuggirono per la loro vita, conobbero strazi e orrori e terrori sopportandoli quanto gli uomini. Qualcuna cadde, e il suo corpo disteso worked up the men to salute them militarily. E quando furono catturate e scamparono, tornarono infallibilmente, fedelmente alla base, al rinnovato rischio, alle note sofferte conseguenze, dopo aver visto e subito cose per cui altri od altre si sarebbero sepolti in un convento”.

Certo, la promiscuità dei sessi comportava alcuni problemi per i responsabili dei distaccamenti che dovevano preoccuparsi di preservare l’immagine della brigata dalle chiacchiere maligne, un’immagine che doveva sempre apparire cristallina. E, infatti, si legge nell’ordine del giorno del 23 agosto 1944 firmato da Iura (Armando Pagnotti), comandante della brigata Stella che aveva le proprie basi nei paesi della valle dell’Agno: “Si è convenuto per eliminare certi scontenti verificatisi tra i vari distaccamenti, che, da oggi, tutte le garibaldine dovranno restare riunite in sede separata e svolgere quei compiti che verranno loro affidati. Oltre al lavare, cucinare e servizio di staffetta, all’arrivo del medico diverranno anche crocerossine. Con l’affluire dell’elemento donna si faranno delle vere e proprie pattuglie. Esse dovranno montare la guardia diurna, mentre verrà ad esse concessa un’ora al giorno di piena libertà, affinché possano recar visita all’uno o all’altro distaccamento. Non sarà permesso alcun contatto tra garibaldini e garibaldine durante le ore di servizio. Ai trasgressori verrà applicata quella punizione che si meritano”.

Le ragazze in brigata si alternavano con i loro compagni maschi nei turni di guardia, condividevano nascondigli e riposi notturni, insieme fuggivano dai rastrellamenti. Alcune sapevano pure sparare, ma si occupavano di lavori prettamente femminili come cucinare, lavare e cucire, una “separatezza basata su vecchi schemi e vecchie concezioni” riflette Tina Merlin nella sua analisi per il mancato riconoscimento da parte dei comandi partigiani del valore politico dell’agire delle donne nella Resistenza. Alcune delle donne partigiane presenti nei distaccamenti possedevano un’arma e la usavano. La partigiana Tamara che nel settembre 1944 dovette nascondersi in un campo di granoturco durante un rastrellamento e sorvegliare Maria Boschetti sospettata di voler fuggire, era armata di pistola e decisa a usarla: “La Tamara – mi dice Emilia – se c’era un partigiano bravo, quello era proprio lei”. Una delle più combattive era sicuramente Luigina Camerra (Anita), che aveva quattro fratelli partigiani. “Mia sorella – mi ha raccontato in un’intervista il fratello Giglio – era come un uomo con il suo mitra per traverso. Mia sorella sparava e ne ha anche colpiti. Ha partecipato anche lei armata al disarmo della Marina”.

Secondo le carte processuali della Corte d’Assise straordinaria di Vicenza, due coniugi furono processati come spie da un tribunale partigiano e poi giustiziati: da Anita con pistola la donna e l’uomo da Gastone di Montecchio Maggiore. Durante il rastrellamento della Piana, il 9 settembre 1944, fu catturata dal battaglione russo di stanza a Marano Vicentino, assieme a Maddalena Faccin (Ombretta), altra partigiana fissa al distaccamento. Furono portate al carcere di Thiene e sottoposte a diversi interrogatori, poi trasferite in quello di San Biagio a Vicenza, e poi liberate nell’ottobre del 1944 “per mancanza di prove”. Al loro rientro a casa, poiché soffrivano per le percosse ricevute, un’altra partigiana le accompagnò prima dal dottor Dalle Ore e poi nella farmacia di Alvise Crosara a Valdagno a comprare le medicine ordinate dal medico, e infine nel negozio di parrucchiere di Freghetto per tingersi entrambe i capelli di biondo. Ripresero la loro attività con più prudenza e nei documenti ritroviamo Anita, negli scontri armati dei giorni della Liberazione, a Tezze di Arzignano, quando, con il fratello Inferno, va armata a “rinforzare le file del battaglione Brill”. Ombretta, invece, prese parte all’occupazione Valdagno.

Per le donne che avevano compiuto una scelta di campo si presentò il secolare dilemma fra la rivendicazione dell’eguaglianza con l’uomo e l’affermazione della diversità, che sembrò doversi riassumere, nell’emergenza della lotta armata, nella scelta fra usare e non usare le armi. Lo sparare sui nemici era visto, talvolta, come una sfida vinta anche nei confronti dei propri compagni, ma spesso si trattava di una decisione consapevole. Vi erano per contro donne che si rifiutavano di sparare e uccidere per propria scelta. Le testimonianze in questo senso sono numerose. Curavano i feriti, portavano ai combattenti armi, plastico e munizioni, ma non sparavano mai: queste donne erano probabilmente convinte del valore assoluto della vita e si rifiutavano di sopprimere di propria mano quella altrui. Esse, che pure avevano compiuto una netta scelta di campo, alle ragioni della lotta politica e armata non intendevano sacrificare quelle della pietà.

“Non sono mai stata capace neppure di tirare il collo ad un gallina – mi ha raccontato Luigina Castagna (Dolores) – se la mia famiglia avesse dovuto aspettare me sarebbe morta di fame”. La sua era una scelta interiore di rifiuto di qualsiasi tipo di violenza. Mi confidò che un giorno i partigiani le dissero: “Questa pistola te la regaliamo per ricordo”, lei invece la regalò a un partigiano che era senza armi: “Non ho mai pensato di tenerla per difendermi perché odio le armi. Non ho mai sparato un colpo in vita mia. A Campo Davanti i partigiani volevano insegnarmi a sparare ora che avevo anch’io la mia pistola, ma io fui decisa nonostante le loro insistenze. No, le armi mai, sparare mai. Penso che per un uomo fosse più semplice essendo stato abituato già sotto le armi, infatti penso che adesso sia più semplice per una donna prendere in mano una pistola, troviamo le donne poliziotto, soldato… forse hanno più dimestichezza di una volta”.

Non possiamo in ogni modo affermare, come sottolinea Jean Bethke Elshtain, che le donne possiedano alcuna innata inibizione circa il combattimento e lo spargimento di sangue, in quanto le combattenti emergono durante tutta la nostra storia. Le rivoluzioni, le insurrezioni e, in genere, la guerriglia hanno ripetutamente impiegato le donne in ruoli di combattimento, in quanto sono conflitti atipici o, forse, perché le forze rivoluzionarie sono per definizione meno formali e meno condizionate dalla tradizione che non gli eserciti degli stati nazionali.

Anche se non organizzate e strutturate come nella brigata Stella, le donne erano presenti, a vario titolo, in tutte le brigate partigiane vicentine, a volte individuate per necessità, come Liliana, la staffetta “Meri”. Meri faceva l’operaia del lanificio Conte di Schio, era inserita nella pattuglia di Ivan del distaccamento Barbieri e ricorda che “quando stavo nel bosco dormivo dove capitava, a Monte di Magrè ai Casarotti, in qualche casa, nel buso, nel fieno. Portavo ordini e messaggi. Andavo al [passo di] Xomo, a Monte di Malo. […] Andavo giù in valle, uno dei partigiani faceva la guardia e io su due sassi mettevo su un gran pentolone per la minestra. Quando veniva prelevata una bestia, siccome non c’era il frigorifero, la si tagliava in quarti e lo si dava anche agli altri distaccamenti”.

In qualche caso le donne occupano anche posti di comando, come Luisa Urbani (Juna), che divenne vicecommissario della brigata garibaldina Mameli. Studentessa delle Magistrali, non ancora diciottenne, cominciò la sua avventura resistenziale come staffetta dei fratelli Francesco (Pat) e Antonio (Gatto), partigiani della brigata autonoma “Sette Comuni”. Arrestata ad Asiago, riuscì ad evadere dalla prigione con l’aiuto di un secondino, ma da quel momento dovette darsi alla macchia. Dopo aver partecipato con i fratelli ai combattimenti nel pesante rastrellamento di Granezza, Luisa scese dall’altopiano di Asiago, nell’ottobre del 1944, ed entrò nel distaccamento Mameli (allora in via di costituzione) che aveva posto le basi sulle colline delle Bregonze. Fin dall’inizio ebbe l’incarico di vicecommissario e, come tale, divenne la responsabile dell’ufficio stampa, pertanto divulgava “manifesti in tutta la zona della brigata per incitare la popolazione contro i nazifascisti e sostenere i partigiani”, ma senza rinunciare alle azioni armate. Definita “intrepida garibaldina”, la cronistoria della brigata sostiene enfaticamente che nel marzo del 1945 catturò “due tedeschi armati che percorrevano la strada in motocicletta”.

Anche Filomena Dalla Palma (Gina) operava assieme ai partigiani, essendo stata costretta, per evitare la cattura, a salire sul massiccio del Grappa. Operaia addetta alla pressa alla Lancia di Cismon, raggiunse i garibaldini della brigata Monte Grappa. Inizialmente, oltre a qualche “azione economica”, il compito di Gina fu quello di curare gli uomini ammalati e feriti, ma poi divenne responsabile anche del magazzino con tutto il vestiario del reparto. Nel settembre del 1944, Gina riuscì a fuggire dal Grappa in fiamme insieme ad alcuni compagni garibaldini e trascorse i mesi rimanenti a lavorare per la Resistenza, in mezzo a pericoli affrontati con un coraggio misto a baldanza, perché lei sentiva forte e prepotente l’amor di patria. Un sentimento, questo, che una volta arrestata, durante un interrogatorio, le fece dire a un certo sergente maggiore della Decima Mas che la accusava di essere comunista e non italiana: “Nella mia brigata eravamo garibaldini e non comunisti, non ho mai sentito che ci siano delle brigate comuniste, tutti eravamo liberi di essere di qualsiasi partito, purché non fascista”. Un coraggio, una forza d’animo che nasceva da un ideale, un forte senso di giustizia che la portava a sfidare il potere in un contesto bellico.

Tra le sofferenze della guerra, caduta la distinzione assoluta tra militare e civile, le donne possono trovarsi, per scelta, necessità o caso, a trasportare cibo, informazioni e mitragliatori, ma anche a partecipare alle azioni armate. “A dispetto di recenti speranze e di antiche retoriche – scrivono Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone – nessun dono di nascita e nessuna eredità storica hanno finora immunizzato le donne dall’orgoglio di condividere esperienze fondate su categorie da cui nella normalità sono state escluse, per esempio gloria, onore, virtù civile, come non hanno loro impedito di combattere con vecchie e nuove armi”. Fra le donne che nel vicentino avevano aderito alla Resistenza un numero imprecisato faceva parte delle squadre di sabotatori partigiani: le Sap e i Gap del 13° settore (successivamente inquadrati nella brigata Argiuna della divisione Vicenza), abilmente comandati e addestrati da Nino Bressan, Gino Cerchio e Carlo Segato. Le squadre erano presenti in numerosi paesi vicini alla città, come Altavilla, Brendola, Monteviale, Costabissara, e avevano il compito di danneggiare o distruggere le linee di comunicazioni, così importanti per le truppe occupanti, mediante sabotaggi messi in atto con materiale esplosivo, abbondantemente fornito dagli Alleati per mezzo dei lanci di rifornimento.

I nomi dei comandanti di queste squadre e dei componenti maschili che ne facevano parte sono conosciuti nell’ambiente resistenziale locale, mentre quelli delle donne che usavano il plastico sono caduti nell’oblio assoluto. L’unica eccezione è Alberta Cavaggion, Medaglia d’Argento al Valor Militare, della quale si trova traccia nei documenti perché staffetta personale di Cerchio e talvolta lo sostituiva nella consegna del materiale.

Ma chi erano le altre donne? Solo di recente l’analisi di documenti contenuti in diversi fondi archivistici ha permesso di ricostruire i nominativi delle ragazze che facevano parte delle squadre di sabotatori e di quelle che supportavano il loro lavoro. In particolare, è stato possibile ricostruire parzialmente la storia di due partigiane sabotatrici, Maria Carta, telefonista presso la Telve (Centrale telefonica di Vicenza) e Lidia Rossignolo, impiegata alle Fornaci Venete, che facevano parte del Comitato comunista femminile con compiti di propaganda, raccolta di medicinali e spionaggio. Una volta arrestate, durante gli interrogatori, Maria confessò di aver partecipato al sabotaggio, avvenuto nella notte tra il 23 e il 24 luglio 1944, alla stazione ferroviaria di Vicenza messo in atto da lei stessa con Lidia Rossignolo e altri partigiani, collocando la dinamite sui binari.

“Fummo puntuali all’appuntamento – ammise Maria – e alla stazione trovammo il Busatta Enrico il quale aveva portato la plastica e cioè l’esplosivo consistente in una pasta elastica e in matite esplosive. L’esplosivo venne dato al Caniotto il quale, assieme al Bastesin, andò a collocarlo nelle locomotive al deposito. Nel frattempo, io e gli altri ci siamo intrattenuti al bar esterno della stazione. Ritornati i due verso le ore 18 ci siamo recati in un altro bar della città fino a quando verso le 19.30 ci siamo separati. L’esplosione avvenne verso le ore 22.15 e cioè non all’ora prevista. […] per me personalmente dichiaro che io vi ho partecipato entusiasmata dalla Rossignolo e per spirito di avventura”. Le indagini della Polizia ausiliaria accertarono che erano stati collocati ordigni esplosivi lungo la linea ferroviaria Altavilla Vicentina-Grisignano di Zocco e nella stazione di Vicenza, dove vennero danneggiate 4 locomotive e interrotta la linea ferroviaria fra Vicenza e Altavilla, Vicenza-Lerino e Grisignano di Zocco. Ma Maria svelò agli inquirenti che l’anima dell’atto di sabotaggio era stata Lidia, una partigiana molto attiva poiché si occupava di reperire i medicinali e carte d’identità e annonarie che falsificava per mezzo di timbri che si era procurata. Inoltre, distribuiva materiale comunista e organizzava atti di sabotaggio come appunto quello della stazione ferroviaria del 23-24 luglio 1944, al quale aveva persino dedicato una poesia, trovata durante la perquisizione nella sua stanza.

Notte d’Incanto

24 luglio 1944

Oh! Pallida luna, Oh! Faccia scema,
che rischiari la terra che trema,
rischiara la mente di quell’animale
che un anno fa… già stava male.
Brillano in ciel le prime stelle,
i primi scoppi in terra, proprio in città,
s’odono i tonfi lugubri e forti,
in tutti i punti… in tanti posti.
Batton le dieci… scocca il minuto,
il primo a scoppio dura un minuto,
e… dopo di questo fino al mattino
è tutto un colpo al clandestino.
Partono fili, parton rotaie,
locomotive, al salto van,
rotta la linea Chiampo Recoaro
i nostri eroi a piè… la fanno.
Alla marina infine viene tolta,
cassa e ingredienti senza rivolta,
resister che… convien, non vale la pena
meglio piantar tutto e… scappare con lena.
Del prestabilito l’idea sorride
ai nostri bravi, scorta fantasma
e all’idea, d’azion combinata
metton sossospra l’intera borgata.
Sicché al mattino, già festa nostra,
tutta la gente è stanca morta,
mentre che Rino assieme con me
commenta e ride di queste corvée.
Dei patrioti, amici guerrieri,
il forte coraggio voglio premiar,
domando dei versi… in questa carta
con grandi gli auguri e le… congratulazioni.

Monte Cucco 29/7/1944 Lidia R.

La poesia di Lidia celebra con toni semplici ma passionali l’attentato compiuto alla stazione ferroviaria di Vicenza, messo in atto dai partigiani quale diversivo per distogliere l’attenzione dal reale obiettivo: il disarmo del Sottosegretariato di Stato alla Marina repubblicana realizzato nella notte tra il 23 e il 24 luglio a Montecchio Maggiore, operazione che fruttò armi e munizioni, ma pure titoli di Stato, buoni del tesoro e denaro per un ammontare di 18 milioni di lire che finirono a finanziare le formazioni della Resistenza.

Finita la guerra, nel momento della discesa delle brigate partigiane dalle montagne alle piazze e delle sfilate per le strade cittadine, le donne, combattenti e patriote, generalmente vennero messe in coda o non sfilarono affatto.

Le circondavano l’imbarazzo e l’ironia dell’Italia “tradizionalista e bacchettona”, che non erano esclusivamente di parte politica conservatrice: “Io non ho potuto partecipare alla sfilata, però. I compagni non mi hanno lasciato andare. Nessuna partigiana garibaldina ha sfilato. Mi ricordo che strillavo: ‘Io vengo a ficcarmi in mezzo a voi, nel bello della manifestazione! Voglio vedere proprio se mi sbattete fuori’. ‘Tu non vieni, se no ti pigliamo a calci in culo! La gente non sa cos’hai fatto in mezzo a noi, e noi dobbiamo qualificarci con estrema serietà’. Così alla sfilata ero fuori, in mezzo alla gente, ad applaudire. Ho visto passare il mio comandante, poi ho visto il comandante Mauri con i suoi distaccamenti autonomi e le donne che avevano combattuto. Loro sì, che c’erano. Mamma mia, per fortuna non ero andata anch’io! La gente diceva che erano delle puttane”.

Il racconto è della partigiana piemontese Trottolina, e si riferisce al 1° maggio di Torino, ma non mancano testimonianze simili da altre città italiane. Già all’indomani del conflitto, infatti, si verifica una pronta espulsione delle donne dal movimento della Resistenza. Le partigiane da attrici, anzi artefici della lotta di Liberazione, diventano spettatrici, tra il pubblico che applaude, scruta e mugugna, dei liberatori che si esibiscono festanti sulle strade. Le perplessità e le contraddizioni, quando non le ostilità maschili di fronte alle donne con le armi o senza, comunque quale parte integrante delle formazioni partigiane, sono numerose e la reazione sociale nei loro confronti è di condanna fino alla volgarità.

Nell’intervista Alberta Cavaggion mi ha riferito: “Dirò che finita la guerra noi donne siamo state tanto offese. Io sono stata fortunata che ho trovato un marito meraviglioso, con il quale non ci sono stati problemi. Ma io dovevo essere l’amante di questo, l’amante di quello. Ho dovuto lasciare… tanti non lo sanno, ma per me era un’offesa da chiarire, per me non era normale”.

Diversamente da quanto accaduto in tante altre città, a dispetto della morale bigotta, in quei giorni al campo sportivo di Valdagno il battaglione Amelia sfilò, in divisa, insieme a tutti gli altri reparti partigiani combattenti e le donne di Recoaro, sedute su un carro agricolo per il fieno, erano arrivate tutte insieme a Valdagno. Molte di loro non erano entrate nelle fila della Resistenza solo per seguire l’uomo che amavano, ma avevano scelto consapevolmente di combattere per una causa, per un’idea. Da piccole fotografie, relegate nelle vecchie scatole in fondo agli armadi, sono emerse le istantanee di giovani uomini e donne, l’uno a fianco all’altra, spesso entrambi in divisa e armati. Pezzi di vita custoditi gelosamente, nei quali le ragazze partigiane, sorridenti e a testa alta, esprimono tutto il loro orgoglio per la scelta di aver partecipato alla Resistenza.