Signor sindaco, autorità militari, civili e religiose, amici rappresentanti delle Associazioni combattentistiche e d’arma, del corpo bandistico, cittadine e cittadini: buon 25 aprile, buona festa della Liberazione!
A 77 anni dalla conclusione della Seconda guerra mondiale e della Liberazione dal nazifascismo, dopo due anni di celebrazione in forma ridotta, ci ritroviamo finalmente in presenza. Ed è una gioia profonda, nonostante le ferite, la stanchezza, la preoccupazione che tutti soffriamo in questo terzo anno di pandemia; dal 24 febbraio, poi, la guerra è tornata sul suolo europeo a seguito della criminale invasione russa dell’Ucraina. Un gesto esecrabile e da condannare con fermezza, un gesto che ci ha riportati drammaticamente a uno scenario che non pensavamo di dover rivedere in Europa. E ogni giorno la guerra svela nuove atrocità, nuovi crimini.
In questo scenario complesso e preoccupante, mi sono chiesto il significato delle Festa che celebriamo. Il 25 aprile è infatti festa nazionale, festa di tutte e tutti gli italiani, festa che celebra e ribadisce i valori e gli ideali che animarono e sostennero la dura Lotta di Liberazione dall’occupante nazista e dall’oppressione fascista. Festa della fine di un’epoca di oppressione, morte e sopraffazione e l’inizio di un’epoca nuova, di pace e democrazia. Un cammino lungo, cosparso di sofferenze e lutti.
Fu una guerra difficile, quella di Liberazione: durata venti mesi, dal settembre 1943 ai primi di maggio del 1945, costò alle nostre comunità sofferenze e sacrifici immani, da aggiungersi a quelli di una guerra combattuta per tre anni dalla parte sbagliata, a fianco della Germania nazista, sulle Alpi, in Africa, nei Balcani, in Russia.
Come facevo notare già lo scorso anno, è significativo che qui oggi, accanto alle autorità civili, religiose e militari, ci siano i colleghi delle associazioni combattentistiche e d’arma, di quelle armi che tutte concorsero alla Liberazione dall’occupante e dal giogo della dittatura che per oltre vent’anni aveva soffocato in Italia ogni libertà, reprimendo il dissenso, condannando gli oppositori, incarcerandoli e uccidendoli. Quanti fanti, alpini, marinai, carabinieri, finanzieri, avieri parteciparono alla Resistenza! Alcuni sono nomi celebri, ma tutti diedero il loro contributo per un’Italia diversa rispetto al fascismo: una dittatura fondata sulla violenza, sulla sopraffazione brutale e sulla paura. In un discorso del 1954, così si esprimeva il padre costituente Piero Calamandrei:
«Ciò che soprattutto va messo in evidenza del fascismo è […] il significato morale: l’insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell’uomo, l’umiliazione brutale, ostentata come una gesta da tramandare ai posteri, dell’uomo degradato a cosa. […] Nel macabro cerimoniale in cui gli incamiciati di nero, preceduti dai loro osceni gagliardetti, andavano solennemente a spezzare i denti ai sovversivi o a verniciargli la barba o a somministrargli, tra sconce risa, la purga ammonitrice, c’era già, ostentata come un programma di dominio, la negazione della persona umana. […] Il ventennio fascista – conclude Calamandrei – non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione civile».
La scelta di molti italiani, uomini e donne, di opporsi fu il primo gesto di rinascita nazionale dopo questo ventennio di corruzione. Uomini e donne di ogni classe sociale e di diverso orientamento politico che scelsero di stare dalla parte giusta, quella della Libertà, della democrazia, della giustizia sociale, della pace. Certo, anche i partigiani avevano scelto la strada della lotta armata, ma la loro violenza aveva altre motivazioni. Lo ha scritto con sapienza Italo Calvino nel suo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno:
C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro […], va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti; degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali.
Iniziata con l’otto settembre 1943, la lotta di Liberazione si protrasse fino alla primavera del 1945 e seminò anche nel nostro territorio innumerevoli vittime fra i partigiani e la popolazione civile; portò distruzioni e sofferenze; lasciò in tutti ferite che faticarono non poco a rimarginarsi. Pensiamo ai tanti cippi e lapidi che nel nostro Comune ricordano i caduti, pensiamo alle numerosissime vie e piazze – almeno 24 – che nel nostro comune sono dedicate a donne, uomini ed episodi della Resistenza: è una storia che ci appartiene, ma che è necessario tenere viva. Per questo sarà importante che dal prossimo anno anche le scuole tornino ad essere presenti in questo momento: perché non c’è futuro se non c’è consapevolezza di quanto è stato.
I partigiani impugnarono le armi perché nessuno lo dovesse più fare dopo di loro. In un mondo sempre più preda della violenza, mentre ogni giorno vediamo immagini di guerra, di dolore e di sofferenza, dobbiamo vincere la tentazione di credere che non ci sia altra via che quella delle armi. Dobbiamo evitarlo quando è possibile: perché vediamo che quando le armi cominciano sparare poi fermarle è arduo. Non possiamo accettare che durante la pandemia, mentre il mondo aveva bisogno di investimenti per la sanità, siano cresciute invece la produzione e la vendita di armamenti!
Dopo due anni di pandemia, in una situazione internazionale difficile, dobbiamo vincere l’indifferenza e la stanchezza e rimetterci al lavoro per costruire la pace, consapevoli che la Libertà che la resistenza ci ha donato non è soltanto bene individuale ma ricchezza collettiva, non un dato di fatto, ma una conquista da rinnovare ogni giorno con l’impegno di tutti. La Libertà che la Resistenza ci ha dato in lascito è non tanto Libertà di ma Libertà con: una Libertà che dunque non finisce, come spesso ripetiamo, dove inizia quella dell’altro ma che comincia con l’altro.
“I care” era il motto che don Lorenzo Milani aveva scelto per la sua scuola, e cioè “Mi interessa, mi sta a cuore”. Oggi dobbiamo fare nostro il monito a non restare indifferenti, ad avere a cuore l’altro, per riscoprire, tanto più dopo due anni di forzato isolamento, il valore di una libertà in chiave sociale, che ci permetta di sentire e di praticare la responsabilità nei confronti degli altri, oltre ogni confine.
Termino con alcuni versi della poesia Delega di Primo Levi: un invito a non restare indifferenti ma, anzi, a impegnarsi.
Non spaventarti se il lavoro è molto:
C’è bisogno di te che sei meno stanco.
Poiché hai sensi fini, senti
Come sotto i tuoi piedi suona cavo.
[…]
Aiuta, insicuro. Tenta, benché insicuro,
Perché insicuro. Vedi
Se puoi reprimere il ribrezzo e la noia
Dei nostri dubbi e delle nostre certezze.
Mai siamo stati così ricchi, eppure
Viviamo in mezzo a mostri imbalsamati,
Ad altri mostri oscenamente vivi.
Non sgomentarti delle macerie
Né del lezzo delle discariche: noi
Ne abbiamo sgomberate a mani nude
Negli anni in cui avevamo i tuoi anni.
Reggi la corsa, del tuo meglio. […]
Onoriamo dunque la memoria di quanti caddero per la Libertà, facciamo nostri quei loro ideali di giustizia, di pace, di solidarietà per costruire un mondo più umano e più giusto, più libero e lieto. Questo è l’insegnamento della Resistenza.
Viva il 25 aprile,
viva l’Italia libera e democratica nata dalla Resistenza!
Michele Santuliana
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