Resistenza Oggi n. 7 – Delle carceri si deve parlare (febbraio 2021)

Pubblicazione riservata ad iscritti/e Anpi Vicenza

A cura di Michele Zanna e Mario Faggionato

Dalla Costituzione alla questione carceraria
La responsabilità penale è personale.
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte

Secondo il World Prison Brief, un database che fornisce informazioni sui vari sistemi carcerari, nel mondo ci dovrebbero essere undici milioni di detenuti. Il dato non è nemmeno completo, perché di paesi come la Cina, la Corea del Nord, la Somalia e altri dell’America Latina si sa molto poco.

Il paese con più persone in carcere in rapporto alla popolazione sono gli Stati Uniti.

In Italia alla fine del 2020 c’erano 52.908 detenuti, ma i posti disponibili sono solo 47.187: siamo al 154° posto con 90 detenuti ogni 100 mila abitanti. Nella classifica delle carceri più sovraffollate d’Europa, l’Italia è superata soltanto dal Belgio e dalla Turchia. I dati più aggiornati sono quelli del Ministero della giustizia: le carceri più grandi sono anche quelle più sovraffollate, ma spesso la realtà è molto più pesante di quella ufficiale, perché dai singoli “posti disponibili” occorre sottrarre i “posti inagibili” e quindi “non utilizzabili” (la realtà della nostra edilizia penitenziaria è fatta di 189 istituti di pena). La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte il nostro paese per il trattamento “inumano e degradante” al quale sono sottoposti i detenuti in alcuni nostri istituti penitenziari: celle in cui lo spazio a disposizione di ciascuno è di soli tre metri quadri.

Le donne in carcere sono il 4,2 per cento, gli stranieri il 32,4, in gran parte provenienti da Albania, Marocco, Romania, Tunisia e non è vero che con l’aumento dell’immigrazione è cresciuto il numero degli stranieri detenuti. Nelle carceri italiane ci sono anche, con le madri, 34 bambine e bambini. Inoltre nell’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, l’Italia risulta anche tra i primi Paesi (all’11° posto dopo Liechtenstein, Monaco, Andorra, Lussemburgo, Svizzera, Olanda, Armenia, Albania, Danimarca e Nord Irlanda) per percentuale di detenuti in attesa di sentenza definitiva. Ma salta addirittura al quarto posto, dopo Andorra, Lettonia e Islanda, per percentuale di reclusi che scontano condanne in violazione delle leggi sulle droghe. In Italia sono il 31,8% della popolazione carceraria, a fronte di una media europea del 16,8%.

Il problema tutt’ora irrisolto e che fa aumentare la paura di contagio da Covid19, rimane quello del sovraffollamento: nel corso dell’anno la popolazione detenuta è andata leggermente calando, grazie a qualche timido provvedimento per far sì che si potesse prevedere l’isolamento di persone che dovevano essere poste in quarantena o in isolamento precauzionale. Agli inizi di gennaio del 2021 i detenuti positivi al coronavirus erano 537: la maggioranza è costituita da asintomatici; una decina i sintomatici curati nelle carceri e altri 26 ricoverati in ospedale. A questi numeri, che cambiano anche notevolmente con il trascorrere delle settimane, si devono aggiungere i contagi tra la polizia penitenziaria (635 agenti positivi) e il personale amministrativo e dirigenziale (60 casi); in tutto i dipendenti ricoverati sono 13. I decessi sono stati quattro nella prima ondata, altrettanti nella seconda. Non è possibile “descrivere l’anno trascorso senza ricordare che per la prima volta, dopo decenni, 14 persone sono morte in carcere a seguito delle manifestazioni violente- mente sviluppatesi all’apparire della prima chiusura dei rapporti con l’esterno.

Sullo sviluppo di queste rivolte, sulle conseguenze e sulle possibili responsabilità indaga la magistratura” (Mauro Palma). Ecco perché è assolutamente necessario considerare il mondo chiuso della detenzione come uno dei luoghi prioritari per le vaccinazioni.

Nel mondo del carcere italiano non sono solo la pandemia e il sovraffollamento i due unici problemi: le carenze igieniche e sanitarie, le criticità legate all’edilizia penitenziaria, la penuria di risorse, il numero dei suicidi, la quantità e qualità del personale, sono problemi da sempre. Secondo i dati forniti dall’Osservatorio carceri di “Ristretti Orizzonti”, le persone detenute morte nelle carceri al 6 dicembre 2020 sono state 151; di queste, ben 55 si sono suicidate. Per trovare cifre analoghe, dobbiamo andare indietro nel tempo al 2013 (l’anno della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo), quando i morti in tutto l’anno furono 153, di cui 49 suicidi. E’ da questi dati che occorre partire per interpretare gli avvenimenti che hanno sconvolto le nostre carceri nei mesi scorsi: quelle violenze sono la conseguenza di un sistema carcerario pronto a scoppiare da tempo, anche a prescindere dall’emergenza sanitaria e del sovraffollamento.

Il nostro settimo numero di “Resistenza oggi” vuole affrontare, con la sua formula ormai consolidata che tende a fornire materiale utile per discutere e confrontarsi, il tema delle carceri.

Lo facciamo partendo da una duplice consapevolezza: da un lato il carcere è senza dubbio uno dei punti di osservazione attraverso cui è possibile studiare la società e valutarne il grado di civiltà; dall’altro è forte in noi la convinzione del divario esistente tra la chiara formulazione dell’articolo 27 della Costituzione italiana e i dati drammatici della “questione carceraria” che abbiamo cercato di riassumere in breve. Fra questi due elementi ci sono una gran quantità di luoghi comuni e una buona dose di disinformazione che vorremmo tentare di smussare con una serie di percorsi ben documentati: le riflessioni di alcuni antifascisti che il carcere lo hanno vissuto, le loro idee sui diritti umani e lo stato di diritto; le elaborazioni del miglior pensiero liberale, democratico, socialista e garantista, che rappresenta uno dei punti più alti del pensiero giuridico contemporaneo e che trova il suo sbocco na- turale nel dettato costituzionale. La saggistica più aggiornata, si affianca al tentativo, molto sintetico per motivi di spazio, di allargare lo sguardo a livello mondiale. Infine, come è nostra consuetudine, una serie di riferimenti e approfondimenti nel mondo della cultura: letteratura, cinema, teatro, fotografia; per concludere con una serie di analisi e commenti ben argomentate

Sul tema del carcere negli ultimi anni sono intervenute figure istituzionali, intellettuali di alto profilo, militanti di associazioni che da tempo seguono con molta attenzione e dedizione questa tematica, politici sensibili a questo aspetto della società.

Fra tutti è stato papa Francesco ad intervenire con maggiore frequenza e anche vigore. Ricordiamo la messa del giovedì santo con la lavanda dei piedi a dodici giovani detenuti nel carcere minorile romano di Casal del Marmo il 28 marzo 2013, due settimane dopo l’elezione al soglio pontificio.

Le sue parole forti in occasione del XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale del diritto penale (novembre 2019): “La sfida presente per ogni penalista è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali”.

Le meditazioni per le stazioni della Via Crucis, Pasqua 2020, sono state affidate a detenuti e loro famigliari, volontari e personale della Casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova, in cui sono recluse circa seicento persone: cinque detenuti, la figlia di un ergastolano, la madre di un carcerato, un’educatrice, una catechista e un frate volontari in carcere, un magistrato di sorveglianza, un agente di polizia penitenziaria, i genitori di una ragazza uccisa e anche un prete accusato di pedofilia e poi assolto. Infine le parole pronunciate in questi ulti mi mesi durante le messe mattutine a Santa Marta nelle quali più volte ha denunciato «il problema del sovraffollamento nelle carceri», soprattutto in questi tempi di pandemia, con il rischio «che finisca in una calamità grave».

Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è intervenuto in più occasioni. Ricordiamo la sue lettera (marzo 2020) in risposta ad un appello che i carcerati del Nordest gli avevano rivolto dalle colonne del quotidiano “Il Gazzettino”: “Ho ben presente – afferma Mattarella – la difficile situazione delle nostre carceri, sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana e mi adopero, per quanto è nelle mie possibilità, per sollecitare il massimo impegno al fine di migliorare la condizione di tutti i detenuti e del personale della Polizia penitenziaria che lavora con impegno e sacrificio. Sono fiducioso che i tanti esempi di solidarietà umana che in questo periodo si stanno moltiplicando nel nostro Paese avranno anche l’effetto di far porre la giusta attenzione ai problemi che sottolineate”.

Studiosi di vario orientamento come Luciano Canfora, Donatella Di Cesare, Carlo Ginzburg, Adriano Prosperi, Marcello Flores d’Arcais, Gustavo Zagrebelsky, insieme a molti altri, si sono rivolti al capo dello Stato (dicembre 2020) chiedendo un intervento urgente: “Pensiamo non soltanto a misure ordinarie comunque indispensabili, quali quelle prudentemente e responsabilmente suggerite dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale, ma anche ad un impulso politico-culturale per il legislatore, e persino educativo-persuasivo per la collettività tutta, verso strumenti di svolta: dal ricorso ad un provvedimento generale di clemenza; al considerare nella misura della metà la capienza regolamentare degli istituti; alla sospensione degli ordini di carcerazione; fino al computare come un periodo doppio le pene scontate nel corso della crisi sanitaria dovuta al covid-19 (tutte misure adottabili con le opportune, ovvie esclusioni)”.

Infine in una lettera pubblica (gennaio 2021) la senatrice a vita Liliana Segre e Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, hanno avanzato una richiesta chiara: “considerare l’ambiente carcerario come luogo di prioritaria attenzione nella vaccinazione che il nostro Paese sta predisponendo. Il carcere è luogo strutturalmente chiuso, dove peraltro, dati i numeri attuali, la misura preventiva del distanziamento è impossibile e dove il tempo trascorso all’interno di un ambiente stretto e condiviso, quale è la camera di pernottamento, ricopre ampia parte della giornata, se non quasi la sua totalità. La connotazione personale e sociale della popolazione detenuta rivela inoltre una particolare vulnerabilità dal punto di vita sanitario, dati i difficili percorsi di vita che molto spesso connotano coloro che giungono in carcere”.

Numerosissime le iniziative e le proteste da parte di organizzazioni non governative, associazioni di volontariato, reti, esperti, gruppi di attivisti: per tutti ricordiamo il lungo digiuno dell’esponente radicale Rita Bernardini teso a sollecitare provvedimenti da parte di governo e Parlamento.

“Resistenza oggi” nel corso del 2020 ha già affrontato tematiche socialmente rilevanti: dalle problematiche relative alle disuguaglianze a quelle legate al razzismo. In questo numero avremmo potuto scegliere altri settori della società italiana meritevoli di attenzione: l’esperienza della pandemia ha solo aggravato e dimostrato i limiti della sanità pubblica (diritto alla salute), come anche di tutto il comparto educativo con la scuola al primo posto (diritto allo studio); l’elenco potrebbe essere lungo. Ma c’è un dato che ha attirato in modo determinante la nostra attenzione. Nel consueto rapporto annuale del Censis (il 54°) è riportato l’esito di un sondaggio secondo il quale il 43,7% degli italiani sarebbe a favore della pena di morte; una percentuale che sale addirittura al 44,7% se si tratta di giovani. Un dato decisamente sconcertante: il rapporto parla “di un rimosso in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità, cause”.

L’Italia è stata, non solo con Cesare Beccaria, una delle prime nazioni a discutere di abolizione della pena di morte; può vantare intellettuali che hanno fatto scuola per aver promosso una ispirazione egualitaria secondo cui alla radice del crimine c’è la disuguaglianza economica e sociale; allo stesso modo in cui si è faticosamente raggiunta una concezione laica che deve disciplinare il diritto di punire. L’Italia che nella propria Costituzione prevede che non sia ammessa la pena di morte, ora si ritrova “spaventata, dolente, indecisa tra risentimento e speranza” al punto che “il 73,4 per cento degli italiani indica nella paura dell’ignoto e nell’ansia conseguente il sentimento prevalente in famiglia”. Infine, sottolinea sempre il rapporto, da diversi anni il “rancore è di scena da tempo nella nostra società, con esibizioni di volta in volta indirizzate verso l’alto, attraverso i veementi toni dell’antipolitica, o verso il basso, a caccia di indifesi e marginali capri espiatori, dagli homeless ai rifugiati. È un sentimento che nasce da una condizione strutturale di blocco della mobilità sociale, che nella crisi ha coinvolto pesantemente anche il ceto medio, oltre ai gruppi collocati nella parte più bassa della piramide sociale”.

Ecco perché ha una forte valenza politica e cultura- le rivolgere le proprie attenzioni agli ultimi: poveri, diversamente abili, anziani, migranti e carcerati appunto. Non è un problema di buonismo, ma piuttosto della capacità di comprendere che l’attuale connotazione sociale della popolazione

detenuta evidenzia una carcerazione prevalente- mente segnata da mancanza di sostegno nel territorio (basti pensare ai reati legati alla droga), dalle povertà economiche, dai livelli sempre più bassi di istruzione, dalla mancanza di una rete che garantisca supporto a chi è socialmente debole.

A fronte di tutto questo prevale un modo di raccontare tali problematicità, da parte dei media vecchi e nuovi, senza un vero approfondimento: si evitano gli interrogativi che porterebbero ad evidenziare le caratteristiche complessive della nostra società e sulla tipologia dei rapporti al suo interno.

Nel dibattito sul carcere ci si limita ad esempio a considerare prevalentemente la presenza di rappresentati della grande criminalità organizzata, trascurando le caratteristiche della maggioranza della popolazione carceraria che non appartiene a questa categoria. Si parla spesso di sovraffollamento e negli ultimi mesi della pandemia, ma tutta la grande complessità della vita delle carceri, ad iniziare dalla concretezza quotidiana, non viene quasi mai affrontata. Si parla pochissimo dei piccoli reati e della necessità che nella società siano previsti percorsi e strutture che prevengano il ricorso al carcere.

L’Italia è uno dei paesi con più personale in carcere: più che in Spagna, in Francia, in Germania o nel Regno Unito, tutti paesi in cui ci sono più detenuti che da noi. Ma da noi il personale è costituito quasi esclusivamente da agenti di custodia. Gli psicologi sono lo 0,1 per cento, contro una media europea del 2,2 per cento, mentre medici e paramedici sono lo 0,2 per cento, contro il 4,3 per cento della media europea. Significa che nel nostro paese l’idea della pena è ancora legata, in maniera assolutamente prevalente, alla dimensione della custodia. Di conseguenza non ha senso lesinare finanziamenti a tutte quelle attività che potrebbero facili- tare un recupero del carcerato.

Su questo sfondo abbiamo costruito i nostri percorsi che, ricordiamolo, possono essere letti anche autonomamente l’uno dall’altro.

IL CARCERE DEGLI ANTIFASCISTI

Il 18 marzo 1904 Filippo Turati pronunciava alla Camera un discorso memorabile, che sarebbe stato poi pubblicato in un opuscolo con il titolo: “I cimiteri dei vivi. Per la riforma carceraria”. Questi alcuni brevi passaggi significativi:

“L’attuale regolamento … si fonda essenzialmente su due concetti antitetici: da un lato l’intenzione … di atterrire e deprimere il condannato, di fargli sentire la potenza enorme dello Stato vindice …; questo è il lato innegabilmente feroce … del regolamento; ma di contro a questo, che è il lato in ombra, … vi è nel regolamento … tutta una serie di precetti … intesi poi a confortare il condannato, ad elevarlo … Senonchè, come è molto più facile rinchiudere un condannato, spaventarlo, brutalizzarlo, che non educarlo e farne un uomo nuovo; come la ferocia non richiede né intelligenza, né fatica, né mezzi pecuniari …, è avvenuto che … tutta la parte brutale, quella in cui sopravvive lo spirito della vendetta sociale contro il disgraziato che è nelle carceri, è larghissimamente applicata; tutta la parte, invece, che rispecchia il dovere dello Stato di provvedere alla redenzione del colpevole … è rimasta lettera morta”.

A quarantacinque anni dall’intervento del leader socialista, nel marzo del 1949, Pietro Calamandrei pubblicava un numero monografico della rivista “Il Ponte” con un titolo già di per sé significativo: “Carceri: esperienze e documenti”. I testi di quello storico fascicolo possono essere letti in ristampa anastatica al seguente link.

LINK: www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/ riviste/il_ponte.pdf

Il fascicolo si apre citando alcuni passi del discorso di Turati, richiama alcuni inevitabili riferimenti al fascismo e in particolare al regolamento carcerario del 1931 dovuto ad Alfredo Rocco, infine sottolinea che “oggi nel Senato siedono diverse decine di senatori di diritto che hanno scontato più di cinque anni di carcere per una condanna del Tribunale speciale”.

Ed ecco alcuni dei nomi di coloro i quali “hanno sofferto inumani orrori”: Carlo Levi, Massimo Mila, Vittorio Foa, Leone Ginzburg, Altiero Spinelli, Giancarlo Pajetta, Lucio Lombardo Radice, Luciano Bolis, Emilio Lussu, Ernesto Rossi e molti altri. Nelle ultime pagine del fascicolo Tristano Codignola firma una lunga recensione delle “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci nella loro prima edizione di Einaudi del 1947. Tutte le testimonianze, ancora oggi, hanno un valore inestimabile.

Ad una settantina d’anni dal discorso di Turati e da quasi venticinque dal fascicolo del “Ponte” Guido Neppi Modena, nel 1973, pubblica un lungo saggio, all’interno della gloriosa “Storia d’Italia” dell’Einaudi, dal titolo: “Carcere e società civile”. Lo studioso richiama le due linee direttive della storia penitenziaria dall’Unità d’Italia alla fine degli anni Sessanta: da un lato l’inazione di governi e legislatori di fronte al problema carcerario; dall’altro la forma e la continuità delle strutture penitenziarie che sembrano vivere un’esistenza propria. Più nel dettaglio in questi termini si esprime prima di iniziare il suo excursus storico: “ … la logica interna delle strutture carcerarie, nei loro aspetti formali- istituzionali e in quelli, altrettanto rilevanti, delle prassi operative, può riprodursi sostanzialmente immutata attraverso le vicende storiche non solo per forza propria, ma per la complice passività del potere politico, da cui tali strutture in ultima analisi di- pendono. In altri termini, la continuità delle strutture penitenziarie, malgrado i mutamenti, non solo politi- ci, ma istituzionali, del paese, dimostra che l’organizzazione carceraria è sempre stata congenia- le ai vari assetti politici succedutisi in Italia; il carcere serve, cioè, al potere così come è strutturato, con le sue disfunzioni, i suoi anacronismi, le sue componenti palesi di violenza legalizzata”.

Nel 2002 la rivista “Rassegna penitenziaria e criminologica”, nel curare la ristampa anastatica del fascicolo del “Ponte”, pubblica un numero speciale dedicato al tema del carcere. Molti gli interventi (Marcello Rossi, Giovanni Conso, Tullio Padovani, Elvio Fassone, ecc … ) che possono essere letti al seguente link.

LINK: www.rassegnapenitenziaria.it/cop/38.pdf

Particolarmente interessante, ancora una volta, l’intervento di Guido Neppi Modena a quasi trent’anni dalla riforma delle norme sull’Ordina- mento penitenziario approvata con la legge 26 luglio 1975, n. 354. Lo studioso ricostruisce con precisione la genesi del fascicolo della rivista e della “Commissione speciale” che nacque in Parlamento con l’obiettivo di indagare sulle condizioni degli stabilimenti carcerari. La Commissione deposita la relazione conclusiva il 21 dicembre 1950. Da tutta questa battaglia politica, culturale e parlamentare risulta “diffusa la percezione che sia assai difficile, se non impossibile, modificare in meglio la realtà carceraria sperimentata durante il periodo fascista, e rimasta sostanzialmente immutata nel dopoguerra, senza introdurvi trasformazioni assolutamente radicali. Trasformazioni che ne toccano ogni aspetto: dall’edilizia penitenziaria al personale di custodia, dal sovraffollamento alla promiscuità, dall’alimentazione all’assistenza sanitaria, dal lavoro al sistema disciplinare, dalla struttura gerarchica e burocratizzata dell’amministrazione alla gestione dispotica e arbitraria della quotidiana vita carceraria”.

Dopo aver constatato che il messaggio più importante degli ex detenuti politici sta proprio in un certo consapevole scetticismo e nella ritrosia a proporre rimedi all’interno di un sistema punitivo che privilegiava la pena detentiva come esclusiva risposta al delitto, queste sono le sue conclusioni: “A oltre venticinque anni di distanza dalla riforma penitenziaria del 1975 può essere motivo di consolazione constatare che questa convinzione sta finalmente prendendo piede in un più ampio contesto politico e culturale, di cui sono espressione da un lato le sempre più estese scelte legislative e istituzionali di «fuga dal carcere», ad esempio mediante il ricorso alle misure alternative alla detenzione, dall’altro le proposte, che incominciano a prendere piede anche al di fuori dei ristretti circoli della cultura penalistica, di abbandonare il monopolio esclusivo della pena detentiva e di affiancare alla privazione della libertà una vasta gamma di sanzioni alternative al carcere, così affrancando il sistema punitivo dall’equazione tra pena e carcere che lo contraddistingue da oltre due secoli”. Analizzare questo percorso, lungo so- stanzialmente un secolo, alla luce della situazione degli ultimi venti anni, sembra di poter dire che ogni ottimismo in rapporto alla “questione carcera- ria” sembra piuttosto vano: molta strada resta ancora da percorrere.

All’interno di questa cornice, più ideale che cronologica, si situano cinque libri che proponiamo per evidenziare il nesso stretto tra cultura democratica e antifascista in senso lato e il tema del carcere.

Il primo dei libri, “Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti” (Edizioni dell’asino, Roma, 2019) si ricollega direttamente a quanto abbiamo già accennato. I curatori, Patrizio Gonnella e Dario Ippolito, mettono a punto una antologia di memorie resistenti: antifascisti molto famosi dicono la loro sulla esperienza del carcere. Altiero Spinelli con la sua condanna a 10 anni; Michele Giua, chimico, appartenente a Giustizia e Libertà, condannato a 15 anni di carcere, di cui ne espiò oltre la metà; Giancarlo Pajetta, che ha trascorso 12 anni e 6 mesi prima nelle carceri per minorenni e poi in quelle per adulti; Vittorio Foa, condannato nel 1936 a 15 anni di reclusione e liberato nel 1943, e via discorrendo. Il libro è recensito sulle pagine del quotidiano “il Manifesto” da Patrizio Gonnella. Di seguito riportiamo un breve stralcio dell’intervento di Altiero Spinelli.

Le “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci non richiedono una particolare presentazione in quanto troppo note, ma in questo caso si tratta di una novità editoriale della casa editrice Einaudi che giunge ad un’ultima e sembra definitiva riedizione del 2020. Il sociologo Massimo Revelli e lo storico Angelo d’Orsi, rispettivamente sul quotidiano “La Stampa” e sul mensile “Micromega”, ne ricostruiscono con puntiglio tutte le vicissitudini. La prima edizione del 1947 vinse un premio letterario: il Viareggio; solo dopo questo evento il libro iniziò ad avere successo e il nome di Gramsci, fino ad allora conosciuto prevalentemente dai militanti comunisti, iniziò ad essere conosciuto da una schiera via via più ampia di estimatori, fino a diventare un protagonista della vita culturale del paese. Quella prima edizione conteneva 200 lettere, quella attuale

ne conta quasi cinquecento: un tragitto lungo e complicato, non privo di contrasti e polemiche fra gli specialisti.
“Un libro, come sostiene il suo curatore Francesco Giasi, da leggere pagina dopo pagina, come un’opera letteraria. Un’opera capace di raccontare una storia drammatica – con l’esito più tragico – come solo i capolavori della letteratura sanno fare”.

Le “Lettere dal carcere: 1939/42” di Aldo Natoli sono curate da Claudio Natoli e Enzo Collotti e sono pubblicate dalla casa editrice Viella: ne parla lo stesso Claudio Natoli sul “il Manifesto”. La cosa forse più interessante che emerge da questi testi è la vera “formazione” avvenuta in carcere dopo l’incontro con operai e contadini: «Il carcere fu per me una esperienza decisiva. L’incontro con tanti operai e contadini mi permise di conoscerli davvero. Conobbi il loro coraggio nell’opporsi al fascismo ma soprattutto da loro appresi il significato della solidarietà. Non fu solo perché eravamo giovani che potemmo superare quegli anni «di ferro» senza piegarci. Fu soprattutto perché vivevamo tra uomini riconosciuti tra nostri uguali e perché avevamo appreso ad imparare anche dagli analfabeti che, spesso, subivano pene ancora più severe. Ci sentivamo uniti nel voler trasformare quella società e inaugurare un’epoca senza più guerre. La vita in carcere, e principalmente il ‘collettivo’ che si era formato, fu la cellula in cui si generò per me la trasformazione dell’uomo. Ripensando a quegli anni posso dire che fu quello il momento in cui diventai comunista». L’altro aspetto interessante si rivela nel dialogo continuo, ma con sfumature molto diverse in rapporto ai diversi interlocutori, con tutti i familiari: i genitori Adolfo e Amelia, il fratello Ugo, la fidanzata Mirella, la sorel- la Elsa e il marito Francesco, fino ai nipoti Giulia- na, Clelia ed Enzo.

Molto interessante il lungo l’articolo di Adriano Sofri, apparsa sulla rivista “L’indice dei libri del mese” del lontano settembre 1998, delle “Lettere della giovinezza dal carcere (1935-43)” di Vittorio Foa: “Il Foa che entra in carcere nel 1935 non è più un ragazzo, è un avvocato, ha una professione avviata. Un venticinquenne di allora è un uomo fatto. (Piero Gobetti era morto prima di compiere i 25 anni). Nel 1943, quando uscirà, avrà già 33 anni. “Lettere della giovinezza”, dunque, ma più esattamente di una sua protrazione e di un suo rinnovamento, imposto dal carcere: la vita si interrompe, e torna alla casella in cui bisogna ancora decidere di tutto. Una cosa sola è decisa: più che un impegno politico in senso stretto, è un impegno di dignità civile, preso una volta per tutte. Ma il resto è azzerato e riaperto. Qualunque cosa debba venire, e chissà quando (che non sia presto, il prigioniero lo ha capito subito), si tratta di prepararsi. Di ricominciare dai verbi irregolari greci. Di far ginnastica. Di leggere, pensare: liberamente. Come, appunto, chi non sappia ancora quale sarà poi la sua strada. Come un liceale. Le lettere di Foa sono il diario straordinario di questa lunga, libera e geniale preparazione”.

Che quella preparazione darà i suoi frutti lo sappia- mo benissimo per il ruolo attivo che Foa avrà prima nella Resistenza e poi nel lungo secondo dopoguerra fino al 2008 come politico, sindacalista, ma an- che come brillante e colto giornalista, storico e fine saggista.

Alberto Cavaglion invece, sempre dalle pagine dell’Indice dei libri del mese”, un anno dopo nel 1999 si sofferma sulle lettere dal carcere di Massi- mo Mila: “Argomenti strettamente familiari. Lettere dal carcere 1935-1940” edite sempre da Einaudi. Mila condivise la stessa cella, nel carcere di “Regina Coeli”, proprio con Vittorio Foa, oltre che con Ernesto Rossi, e Riccardo Bauer e scrive alla madre con uno stile intimo e riservato. Il grande storico della musica che abbiamo imparto a conoscere nei decenni del dopoguerra in questi termini si esprime sulle proprie potenzialità: “Totalmente incapace di pensiero politico … io lì dentro facevo ‘il corriere della droga’. Mettevo a disposizione di Giustizia e Liberà le mie sole capacità sicure: quelle di alpinista, che mi permettevano di attraversare il con- fine, d’estate e d’inverno, per itinerari insoliti, dove non c’era pericolo d’incontrare la milizia confinaria”. Secondo Cavaglion le lettere di Mila poco per volta si allontanano dai temi legati alla condizione personale e prendono a parlare di temi culturali, con al centro Dante, la storia e il dialetto torinese, in ter- mini sempre ironici: “ciò che ne fa qualcosa di paragonabile ai quaderni gramsciani”.

Nel loro insieme tutti questi testi non ci parlano solo delle carceri nel ventennio fascista, un passato che comunque non dovrebbe essere dimenticato con il suo carico di condanne a morte, di pene inflitte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, di anni di confino di polizia, di violenze e torture, ma ci invitano a riflettere sul presente: per gli antifascisti di ieri, come per quelli di oggi, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, secondo il dettato della nostra Costituzione, frutto del coraggio di questi uomini.

CARCERE E LIBRI: LA SAGGISTICA

Un’ampia gamma di racconti, esperienze, riflessioni, sofferenze, speranze ed analisi da parte di un’umanità che vive il pianeta carcere secondo angoli di prospettiva diversi in ragione dei ruoli ricoperti. Vi è il contributo del Direttore, del Magistrato del De- tenuto, del Politico, dell’Operatore che vanno a completare le tessere di un mosaico che descrive il carcere a partire dalle persone che lo abitano.

Entrare ed uscire da un carcere significa anche entrate ed uscire dalla coscienza dell’uomo, un luogo che vuole essere il più asettico e razionale possibile ma che è allo stesso tempo pervaso da passioni impetuose ed estreme, irrazionalità, elevazioni e aberrazioni.

Ma il carcere diventa anche il luogo dell’incontro/ scontro tra l’uomo e la società degli uomini, tra l’individuo e lo Stato, tra il reo e la vittima, tra il diritto e la giustizia; ecco, dunque, la prigione come luogo che rappresenta la progressione o la regressione nella storia umana di tale dialettica tra termini talvolta declinati come opposti al cui centro è situata la Pena, come vero è proprio motore immo- bile.

Un’immagine che sembra richiamare il “panopticon” penitenziario di Foucault: “la prigione, luogo di esecuzione della pena, è nello stesso tempo luogo di osservazione degli individui puniti. In due sensi. Sorveglianza certo. Ma anche conoscenza di ogni detenuto, della sua condotta, delle sue disposizioni profonde, del suo progressivo miglioramento” (M. Foucault, “Sorvegliare e Punire. Nascita del- la prigione”, Torino, 2014, pag. 272).

Per scoprire, in definitiva, e per stare lontani una volta per tutte dai luoghi comuni, che è la concezione che abbiamo della Pena (in che cosa essa consista, chi la deve irrogare e dopo quale processo e quale sia la sua funzione) a descrivere il pianeta carcere e più in generale il grado di consapevolezza di un’intera civiltà.

L’ARTICOLO 27 DELLA COSTITUZIONE

Il carcere e la Costituzione: si può certo convenire con Dostoevskij che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni e, per quanto ci riguarda, a noi basterà verificare quanto nelle nostre carceri, luogo di espiazione delle pene, trovino attuazioni i principi espressi dalla Costituzione che corrisponde al massimo grado di civiltà, non solo giuridica, che il nostro Paese è riuscito ad esprimere nel secondo dopoguerra.

Ed allora, cominciamo con il dire che l’8 gennaio del 2013, l’Italia viene condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, con la famosa sentenza pilota Torreggiani – con decisione presa all’unanimità – per la violazione dell’art. 3 del- la Convenzione europea dei diritti umani (CEDU) che recita: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Il caso riguardava sette persone, detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, che lamentavano situazioni inumane e degradanti.

In questa sentenza i giudici di Strasburgo scrivono che «La carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente … la grave mancanza di spazio sperimentata dai sette ricorrenti per periodi variabili dai quattordici ai cinquantaquattro mesi – costitutiva di per sé di un trattamento contrario alla Convenzione – sembra essere stata ulteriormente aggravata da altri trattamenti denunciati dagli interessati. La mancanza di acqua calda nei due istituti per lunghi periodi, ammessa dal Governo, nonché l’illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere di Piacenza, sulle quali il Governo non si è espresso, non hanno mancato di causare nei ricorrenti un’ulteriore sofferenza, benché non costituiscano di per sé un trattamento inumano e degradante».

Purtroppo scopriamo che ancora a fine febbraio 2020 i detenuti erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti. I detenuti a fine 2012 erano 65.701. All’inizio dell’emergenza pandemica COVID 19, vi erano 10.229 persone in più rispetto alla capienza regolamentare e considerato che si calcolava che circa altri 4 mila posti non fossero effettivamente disponibili, si stimava una sovra-popolazione detenuta pari a poco meno di 15 mila unità. Il tasso di affollamento era del 130,4%. L’associazione Antigone fotografava in questi termini la situazione: in venticinque (su 98) carceri vi erano celle con meno di 3 mq per detenuto; in quattordici istituti visitati le celle più affollate ospitavano cinque detenuti; in tredici istituti c’erano celle da sei detenuti, in due istituti c’erano celle da sette detenuti, in cinque c’erano celle che ospitavano anche otto persone ed in tre istituti penitenziari (Poggioreale, Pozzuoli e Bolzano), c’erano celle che ne ospitavano dodici contemporaneamente. Ma non è solo questo: nel 50% delle celle mancava la doccia, cosa che costringe i detenuti ad usare docce comuni; in quarantacinque istituti, circa la metà di quelli visitati, c’erano celle senza acqua calda per lavarsi; inoltre in ventinove su novantotto istituti l’accesso alla luce del giorno e all’aerazione degli ambienti poi è invece ridotto (se non compromesso) dalla presenza delle schermature alle finestre.

Ecco dunque qual è la situazione anche se la nostra Costituzione si fonda sulla preminenza della dignità della persona e, per quanto riguarda la popolazione detenuta nelle nostre carceri, l’art. 27 prescrive che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Ma appunto l’Italia ancora nel 2013 è stata condannata per violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Ebbene, ancora oggi, nulla di nuovo: anche con riferimento alla situazione della carceri la nostra Costituzione rimane ancora largamente inattuata.

Del resto, come si potrà leggere nell’articolo dell’avv. Esposito, riportato nella parte antologica e apparso nel 2018 su “Altalex”, sebbene l’art. 27 della Costituzione imprima una svolta significativa, con riferimento alla concezione e alla finalità della pena, solo nel 1975 si concretizzerà una riforma dell’ordinamento penitenziario e inizierà un percorso di avvicinamento ai principi costituzionali, con l’introduzione delle misure alternative al carcere, con il prevedere una Magistratura di Sorveglianza, con il disciplinare un procedimento giurisdizionale per l’esecuzione della pena che garantisca le prerogative della difesa.

Sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, riportiamo un articolo del Prof. Claudio Sarzotti apparso sulla rivista “Questione Giustizia”. Soprattutto negli ultimi anni, peraltro, anche sulla scorta dell’analisi dei dati sulla recidiva, si è sviluppato una dibattito sulla funzione del carcere e sulla concezione della pena riparativa finalizzata, laddove sia possibile, a percorrere strade nuove rispetto alla detenzione carceraria che permettano la tutela delle ragioni della vittima del reato, della comunità e il recupero del reo. A tale proposito riportiamo l’articolo di Raffaele Crisileo, apparso su “Ristretti Orizzonti”, che richiama i libri di Luigi Mancuso e Gherardo Colombo, indefessi viandanti lungo queste nuove strade.

Infine la Costituzione e il Carcere si incontrano anche nella visita che i Giudici della Corte Costituzionale, che della Costituzione sono i primi garanti, hanno compiuto nelle carceri italiane; un incontro pieno di suggestioni, come ha bene messo in evidenzia nel suo discorso, che di seguito riportiamo, il Presidente della Corte Giorgio Lattanzi (la storia di questo incontro è raccontato in un documentario, visibile su raiplay e, qui commentato anche con due articoli a firma di Roberto Saviano e Raffaella Calandra).

Per concludere, ci sembra affascinante l’idea che sia proprio un carcere il luogo in cui la Costituzione, in persona dei suoi più illustri “sacerdoti”, porti un messaggio di umanità e speranza: in attesa che il contenuto di tale messaggio sia finalmente attuato.

LETTERATURA, CINEMA, TEATRO, FOTOGRAFIA E CARCERE

Fëdor Dostoevskij nel 1861, Anton Checov nel 1893 e Oscar Wilde nel 1897 si confrontano con il tema del carcere e ne scrivono in tre opere tra loro molto diverse, ormai classici della letteratura di tutti i tempi.

Nel 1849 Dostoevskij, all’età di ventotto anni, è già uno scrittore abbastanza affermato, ma viene ugualmente arrestato, processato e condannato a morte. La sua colpa consiste nell’aver partecipato con suo fratello ad un circolo di intellettuali che discutono di autocrazia e repressione: pochi mesi prima infatti in Europa ci sono state le rivoluzioni del 1848. Una spia li denuncia e lo zar Nicola I decide di usare il pugno di ferro anche nei confronti di questi giovani innocui. Prima la fucilazione, poi per grazia ricevuta, i lavori forzati. Per quattro anni Dostoevskij finisce nella fortezza di Omsk tra criminali comuni a scavare e trasportare pietre. Quando esce scrive, nel 1861, “Memorie di una casa di morti”. Un libro contro la giustizia solo apparentemente imparziale, contro il carcere che corrompe, devasta e perverte ciò che di buono è rimasto nelle persone, mentre esalta la determinazione al male di tanti reclusi. Ma è anche un romanzo sulla dignità umana che andrebbe rispettata, ma il carcere non lo fa. Tre anni dopo, nel 1864, Dostoevskij scriverà “Memorie dal sottosuolo”.

Molto diversa invece l’esperienza di Cecov che nel 1890 parte per l’isola di Sachalin in Siberia dove gli zar avevano istituito la colonia penale di Katorga. Vi rimane ben nove mesi e osserva con puntiglio tutto quell’orrore. Laureato in medicina, considerava i racconti e le opere per il teatro già scritte come un diversivo. Prima di partire aveva studiato non solo la questione carceraria, ma tutto quello che era possibile sapere su quelle terre inospitali. “L’isola di Sachalin” esce nel 1893 e parla di animali, di piante, di paesaggi, ma soprattutto di uomini: servi della gleba, coloni, poverissime contadine, esiliati, galeotti. Si indigna quando vede detenuti legati mani e piedi a carriole da catene che impediscono ogni movimento, i deportati con i ceppi ai piedi, la fustigazione fino a novanta frustate che il capo circondario può infliggere. Cecov racconta anche come avviene la cerimonia dell’impiccagione. In una lettera al suo editore Aleksej Suvorin scrive: «Sachalin è il luogo delle più intollerabili sofferenze che possa sopportare l’uomo, libero o prigioniero che sia (…). Abbiamo fatto marcire in prigione milioni di uomini, li abbiamo fatti marcire invano, senza criterio, barbaramente; abbiamo obbligato la gente a percorrere migliaia di verste al freddo, in catene, l’abbiamo corrotta, abbiamo moltiplicato i delinquenti».

Molto più conosciute le vicende che spingono Oscar Wilde a scrivere, nel 1897, il poema “La ballata del carcere di Reading”. In quel carcere lo scrittore ha trascorso ben due anni, parte finale per la condanna per “atti osceni”, come era chiamata allora l’omosessualità. Il carcere di Reading si trova a metà strada tra Londra e Oxford: ha chiuso solo nel 2014 ed ora si cerca un acquirente.

Nell’opera Wilde non parla direttamente della sua esperienza, ma si concentra sulla vita dei carcerati in generale. In centonove stanze descrive infatti gli incontri con gli altri prigionieri, in particolare quello con Charles Thomas Wooldridge, condannato a morte per l’omicidio della moglie, alla cui memoria è dedicato il poema stesso. Il verso più famoso resterà per sempre quel “each man kills the thing he loves”: ogni uomo uccide ciò che ama.

I romanzi di cui riportiamo le recensioni nella parte antologica sono stati tutti scritti negli ultimi anni e quindi molto distanti dai grandi classici citati. Non mancano di un loro fascino e ci aiutano a capire meglio di altri linguaggi la vita nel carcere.

Il canadese Jean-Paul Dubois ci racconta la vita di un uomo chiuso in cella, sfidandoci a capire perché mai si trovi nel carcere di Bordeaux , quartiere di Montréal in Québec. Per l’italiano Rocco Familiari invece, sarà l’amore per una donna il legame che unirà indissolubilmente due detenuti fra loro molto diversi. Forse fra tutti il romanzo più riuscito è quello dell’americana Rachel Kushner: “Mars room”: segue le vicende di Romy Hall, un’ex spogliarellista condannata all’ergastolo per aver ucciso un uomo, di un poliziotto assassino e di altri personaggi tutti scarti della società californiana che non perdona i perdenti.

Non ha bisogno di presentazioni John Grisham con i suoi milioni di libri venduti in tutto il mondo: anche in questo caso si tratta di un legal thriller che l’autore dice di voler dedicare a tutti i condannati a morte innocenti. Infine “Dentro” il libro di racconti dell’esordiente, nel 2013, Sandro Bonvito.

Non c’è solo la letteratura ad aver creato, con il passare dei decenni, un vincolo stretto con il carcere. Fra le attività educative e formative che all’interno delle carceri hanno sempre avuto una loro presenza, fino a quando la pandemia non ha sospeso ogni iniziativa, ci sono da annoverare il cinema e il teatro.

In alcune carceri sono state create delle “sale cinematografiche” alcune delle quali (ad esempio a Roma e Bologna) aperte agli esterni, in altre si svolgono laboratori teatrali: alcuni spettacoli sono stati portati nei teatri di alcune città italiane con notevole successo di critica e di pubblico. Del resto la privazione della libertà deve essere in qualche modo “spettacolare” e da sempre ispira autori e cinefili. Impossibile dimenticare film come “Fuga da Alcatraz” (1979), oppure “Papillon” nella sua duplice versione del 1973 e del 2018; imperdibili alcune scene molto realistiche del recente “Dogman” (2018) di Matteo Garrone, girate all’interno del penitenzia- rio romano.

Poi sono arrivati i “prison drama”, ossia le serie tv ambientate in carcere che ci hanno catapultato in un mondo fatto di guardie, secondini e galeotti. Prima gli americani, come sempre, poi gli italiani: i nostri sceneggiatori si sono fatti coraggio e hanno cercato una via italiana a questo genere. Il primo esperimento in questa direzione è stato fatto la scorsa estate dalla Rai con “Boez”. Una docufiction, ancora disponibile sulla piattaforma Rai-Play, che segue il cammino di sei ragazzi, detenuti in un carcere minorile di Roma, che accettano di percorrere la via Franchigena insieme all’escursionista Marco Saverio Loperfido e all’educatrice Ilaria D’Appollonio. Novecento chilometri a piedi in 50 tappe, il tutto ovviamente ripreso dalle telecamere.

Un altro esempio è quello di Rai 2 che ha rilanciato “Mare fuori”: il primo “teen drama” italiano ambientato in carcere, di cui è già in scrittura la seconda stagione. Mare fuori ruota attorno a un gruppo di giovani detenuti: alcuni sono finiti in carcere ingiustamente (pochi), altri hanno commesso gravi reati. Sono adulti invece i protagonisti della serie di Sky dal titolo “il Re”.

Il protagonista è Luca Zingaretti che abbandona temporaneamente i panni del commissario Montalbano per vestire quelli di Bruno Testori: il direttore di un carcere di frontiera. Come ha dichiarato lo stesso Zingaretti, il ruolo è impegnativo e la materia sicuramente incandescente.

Le serie tv si apprestano dunque a diventare un nuovo punto di osservazione su questo universo finora trascurato, e chissà che la via italiana al “prison drama” non possa essere proprio all’insegna del recupero sociale.

Il teatro e il carcere sono andati stringendo negli ultimi trent’anni un rapporto sempre più stretto, e incredibilmente coinvolgente. Il nome più conosciuto è quello di Armando Punzo che da più di trent’anni guida un’esperienza particolare, mantenendo il luogo del suo fare teatro tra i bastioni della Fortezza medicea di Volterra. Poi ci sono moltissime altre esperienze che in tutta Italia coniugano teatro e carcere, alcune anche di notevole livello come quelle di Gianfranco Pedullà. Talvolta i linguaggi si mescolano e allora il teatro diventa cinema, oppure una sceneggiatura nata per il cinema diventa un canovaccio per uno spettacolo teatrale. Il nostro percorso antologico prevede recensioni che affrontano tutte queste forme di espressione artistica. Due sono i film più recenti: il tradizionale “Il diritto di opporsi” del 2020 e lo straniante “Il terzo omicidio” del 2019. Impossibile non fare riferimento all’ormai classico “Cesare deve morire” (2012) dei fratelli Taviani. Sulla piattaforma Netflix è reperibile l’inquietante “Il buco”, sempre sul registro della distopia da ricordare “Numbers”, il film del regista Oleg Sentsov: oppositore dell’annessione della Crimea alla Russia, arrestato nel 2014 e rilasciato l’anno scorso. Dal documentario in dieci puntate “Boaz” di cui abbiamo già detto, si passa all’esperienza di «teatro partecipato» di “Cattività”, fino a “Fortezza” (girato nella casa di reclusione di Civitavecchia) di Ludovica Andò e Emiliano Aiello; una rilettura del romanzo “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati: prima spettacolo teatrale, poi anche film.

Il percorso si conclude con la segnalazione di due fotografi che all’ambiente del carcere hanno dedicato particolare attenzione. Nanni Fontana (nannifontana.com) con il suo progetto “In transito. Un porto a San Vittore” dal 2017 documenta le attività dei detenuti del reparto “La nave” del carcere di San Vittore a Milano. Nata nel 2002, La nave è una sezione speciale, con celle aperte per dodici ore, dove i detenuti svolgono attività psicoterapeutiche, lezioni sulla legalità e sulle dipendenze, partecipano a gruppi di scrittura, lettura, musica e teatro. Invece la fotografa documentarista Clara Vannucci (claravannucci.com) da diversi anni ha descritto, attraverso il suo obiettivo, molte carceri sia italiane che americane. In entrambi i casi finalmente storie con esiti positivi di interazione tra cultura e carcere.

IL CARCERE DEGLI ALTRI

Ne “Il carcere degli altri” siamo condotti attraverso un insieme di articoli e reportages giornalistici all’interno delle carceri di vari paesi di tutte le latitudini e continenti; il risultato è un lungo plot da film dell’orrore che testimonia di torture, violenze e vessazioni di ogni tipo nei confronti della popolazione carceraria; sia essa costituita da delinquenti comuni, minoranze etniche e/o religiose e oppositori politici.

Si parte dalla potenza mondiale degli USA che ha il più alto tasso di carcerazione al mondo, dove si assiste, da sempre, al fenomeno dell’appalto ai privati della costruzione e gestione delle carceri, in quello che si può definire un vero e proprio business dell’incarcerazione.

L’articolo di Francesca Berardi tratteggia che cosa significa questo business in termini di abusi nei confronti dei detenuti, di scarso monitoraggio degli standard minimi di civiltà e di come lo scopo di monetizzare al massimo i profitti si sostanzia nella estrema riduzione di servizi essenziali come nell’inesistenza di percorsi riabilitativi per i detenuti.

Uno spaccato straordinario della situazione del sistema carcerario negli USA emerge dalla pubblicazione di un libro da parte del giornalista Sahn Bauer, che per un certo periodo si fa assumere in incognito come guardia in un carcere privato della Louisiana, documentando, con video, foto e appunti, una realtà scandalosa che farà molto rumore: Shane Bauer sarà chiamato a Washington e l’amministrazione Obama annuncerà la rescissione dei contratti con le società private appaltatrici ma, dopo l’insediamento di Trump, l’impegno sarà annullato.

Ora però il nuovo Presidente Biden mette in cantiere dei provvedimenti che sembrano andare nella direzione di un deciso cambio di rotta con l’impegno a limitare o addirittura eliminare gli appalti ai privati, quanto meno per quel che riguarda le prigioni federali.

Altro scenario devastante ci viene riportato da un reportages dalla Palestina con la storia, raccontata da Michele Giorgio sul “Il Manifesto”, degli interrogatori in isolamento per giorni dei minori palestinesi nelle carceri israeliane, in celle senza finestre, con illuminazione ininterrotta h 24, per estorcere confessioni con l’uso di intimidazioni, minacce e violenze.

Si passa poi al Corno d’Africa, con lo sguardo rivolto all’interno della prigione di Adwa in Etiopia per scoprire la detenzione delle donne e dei loro figli in condizioni disumane, senza acqua corrente per sei giorni su sette (e nell’unico giorno spesso contaminata), senza norme igieniche, senza corrente elettrica.

Si parla, ancora di Siria e di detenzione politica, senza garanzie e da cui pochi escono senza aver subito torture o essere stati violentati, per indurre le persone a confessare, a dare informazioni anche attraverso il terrorismo nei confronti delle famiglie dei detenuti.

Ancora sul “Il Manifesto”, viene affrontata la situazione esplosiva delle carceri del Sud America sovraffollate e in perenne rivolta per le condizioni sub- umane in cui si trovano a scontare la detenzione decine di migliaia di carcerati e la carrellata di reportages riguarda la Colombia, l’Argentina e il Salvador.

Infine si sposta la visuale in Oriente: il focus riguarda la Cina e il fenomeno della detenzione in prigioni che vengono definite “centri di rieducazione” (politica) per la minoranza musulmana degli Uiguri, nella più totale indifferenza internazionale. Si parla di centinaia di migliaia di uomini e donne che vengono arrestati senza accuse di crimini specifici e portati in centri dove vengono “rieducati”, mentre ai loro familiari viene detto che i loro parenti sono stati “infettati” dal virus del radicalismo islamico e che devono essere messi in quarantena e curati.

E poi la Russia dove, dopo la diffusione di un video che documenta un caso di tortura all’interno di un carcere di massima sicurezza, i russi hanno potuto vedere cosa succede nelle prigioni dello zar Putin. Lo scandalo è tale che è costretta a muoversi la magistratura e diciotto guardie carcerarie vengono arrestate; ma il bubbone è scoppiato e da lì a poco due detenuti politici denunciano sevizie e la detenzione in isolamento anche per diversi mesi. E l’affaire si allarga a macchia d’olio: si parla del carcere di Kerci, in Crimea, ove sembra che venga fatto uso sui detenuti dell’elettroshock, e l’Associazione «Komanda» racconta di tredici casi di maltrattamenti nel carcere di Sapetopugo; le denunce si moltiplicano sino alla certezza che violenza e soprusi contro i detenuti sono la regola ed è il sistema carcere dell’intera Federazione che viene messo sotto accusa.

Per tirare allora una prima conclusione sul viaggio documentato in giro per il mondo, non si può che convenire che davvero la gestione delle carceri e il trattamento che viene riservato ai detenuti rispecchiano non solo la concezione della funzione della

pena e più in generale della salvaguardia dei diritti umani, ma dice anche molto sulla condizione sociale politica e culturale di un paese.

ANALISI E COMMENTI

Per motivi di spazio sono nove gli articoli di questo percorso: non ci sono grandi diversità di opinione, ma, sia pur con sfumature diverse e con ruoli e competenze diversificate, i vari interventi condividono tutti una forte denuncia sulle condizioni in cui versano le carceri, qualsivoglia sia la motivazione più immediata per chi li ha prodotti.

Il motivo di interesse di questi testi sta proprio nelle diverse modalità di intervento e di scrittura.

Dall’articolo dal ritmo compilatorio che elenca in modo semplice, ma efficace, tutto quello che è avvenuto durante il 2020, al classico pezzo di cronaca. Dalle due interviste (ad Andrea Orlando e Mauro Palma) abbastanza lunghe e dettagliate che aprono squarci per ulteriori riflessioni, ai testi ben argomentati, fino allo scritto più polemico con forti accenti di indignazione. Per questo abbiamo rinuncia- to ad una impaginazione per date e ci siamo orientati verso una organizzazione sul filo dei ragionamenti: tutti gli articoli comunque vanno dal maggio del 2020 fino al gennaio 2021.

In apertura è possibile leggere l’articolo di Giuseppe Rizzo che sulla rivista “Internazionale” (30 dicembre 2020) riassume mese per mese tutto quanto è avvenuto nelle carceri italiane nel corso del 2020. Non si tratta di un semplice elenco: basta soffermarsi con un po’ di attenzione sugli avvenimenti dal 7 al 9 marzo con i suoi 14 morti, di cui 9 solo a Modena. Giuseppe Rizzo in questi ultimi anni ha documentato con attenzione e sensibilità la situazione nelle carceri: tutti gli articoli possono essere letti nel sito di internazionale.it/.

L’articolo della giornalista Rachele Gonnelli, pubblicato sul quotidiano “Domani” (6 dicembre 2020), si occupa del carcere di Rebibbia che descrive in modo ben documentato. Di seguito affronta il tema del Covid riportando opinioni e proposte. Infine cerca di spiegare perché il carcere “non livella, ma anzi moltiplica le diseguaglianze socio-culturali” e racconta alcune esperienze di animazione culturale come quelle realizzate da Giorgio Poidomani. Questo recente quotidiano ha dedicato in questi pochi mesi di vita molto spazio al tema delle carceri: molti degli articoli pubblicati possono essere letti nel sito editorialedomani.it/.

I tre articoli di Paola Severino, Luigi Manconi e Roberto Saviano, affrontano il tema del carcere con lo scopo di attirare l’attenzione delle autorità e sensibilizzare l’opinione pubblica. Paola Severino, sul quotidiano “La Stampa” (10 gennaio 2021), lo fa con tono molto pacato e riportando alcune sue esperienze da ex ministro della Giustizia. L’intervento di Luigi Manconi, sempre sulla “Stampa” (28 novembre 2020), alza il tono della polemica soprattutto nei confronti dell’attuale ministro della Giustizia, descrive la protesta in corso da parte di numerose associazioni che si occupano delle carceri, denuncia la gravità della situazione per il diffondersi del virus e avanza delle proposte su come affrontarla. Infine il pezzo di Roberto Saviano, su “la Repubblica” (28 novembre 2020), si distingue per il maggior tasso di vis polemica contro il ministro Alfonso Bonefede, nei confronti di quella parte della classe politica che teme di perde- re consensi se affronta seriamente il tema della carcerazione, ma anche nei confronti di quella mentalità forcaiola tanto presente nel sentire comune.

Anche in questo caso si avanzano proposte ben precise, in linea con Manconi e Sandro Veronesi che scrive nello stesso giorno sul Corriere della Sera, su come affrontare i problemi più urgenti.

“In una democrazia emotiva come l’attuale, la legislazione penale costituisce lo strumento elettivo di una politica capace soltanto di assecondare la propria bulimia di consensi: esibire ringhiosità punitiva non costa nulla e, se è certo che non risolve nulla, costituisce ostentazione elettoralmente assai remunerativa”. Questo è l’attacco dell’articolo di Glauco Giostra, apparso sul “Corriere della sera. La lettura” (5 gennaio 2020), dal titolo già di per sé significativo: smascheriamo le furbizie del populismo forcaiolo. L’autore, ordinario di diritto processuale penale, utilizza un linguaggio più tecnico, ma esprime con chiarezza le proprie convinzioni: “il proposi- to di lasciare marcire i detenuti in galera sino all’ultimo giorno della pena inflitta, dobbiamo riba- dirlo, non è solo in contrasto con la Costituzione e con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani: è un attentato alla sicurezza sociale. Questa è l’idea che si dovrebbe riuscire a inoculare nelle vene mediatiche”.

La stessa cosa si può dire per il secondo intervento di Luigi Manconi, su “la Repubblica” (15 dicembre 1920), questa volta dedicato al tema della pena di morte. Scritto prima del triste primato di Trump negli USA, l’articolo commenta gli esiti del 54° rapporto del Cansis: gli italiani favorevoli alla pena di morte sono il 43,7%, e la percentuale cresce nella fascia di età tra i 18 e i 34 anni, mentre è assai inferiore in quella dai 65 anni e oltre. Inequivocabili le conclusioni: “la pena di morte sembra destinata a non dileguarsi una volta per tutte dal nostro spazio mentale, ma resta a covare nell’inconscio collettivo e a emergere nelle fasi di crisi più acuta”.

Infine due interessanti interviste. Di Simonetta Maggiorelli, sul settimanale “Left” (18 dicembre 2020), che contiene un approfondimento di molte pagine sul tema del carcere, all’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. E quella del quotidiano “il Manifesto” (9 maggio 2020) al Garante nazionale per le carceri Mauro Palma.

Orlando, esponente di spicco del Partito democratico, propone di riprendere la riforma del sistema penitenziario rimasta appesa nel passaggio fra le due legislature nel 2018; si dichiara contrario all’idea astratta di abolizione del carcere, ma di aver ben presente la necessità di umanizzare il car- cere; prende posizione su temi come la presenza dei bambini nelle carceri e quello della salute mentale di una parte dei detenuti; si sofferma sulle forti differenze fra M5s e Pd sui temi della giustizia. L’intervista si conclude con alcune domande sul ruolo dell’Europa: “luogo di salvaguardia di diritti fondamentali che non ha uguali in questo momento nel mondo”.

Molto più tecnica l’intervista a Mauro Palma. A suo giudizio sono tre le questioni urgenti da risolvere: il perdurante sovraffollamento, la netta prevalenza dei condannati a piccole pene, il fatto che il tema delle carceri è troppo investito da dibattiti ideologici lasciando in ombra i veri problemi pratici. Fra questi la presenza dei malati di Covid19 e dei necessari provvedimenti presi e quelli previsti. L’intervista si conclude con l’indicazione di tre priorità: riprendere gradualmente la normalità detentiva, continuare con la riduzione dei numeri della popolazione carceraria, non abbandonare alcune pratiche innovative già sperimentate e che si sono rivelate positive.

FINALE

Dall’insieme dei percorsi che abbiamo cercato di delineare risulta evidente, per sottolineare il titolo che abbiamo voluto dare a questo settimo numero di “Resistenza oggi”, che delle carceri si deve parlare, con l’obiettivo di mettere a fuoco la complessità della “questione carceraria”. Informazioni più approfondite possono essere reperite consultando la sitografia che abbiamo riportato nell’ultima pagina.

Purtroppo spesso a prevalere non è la ragionevolezza, ma una sorta di “populismo penale”. Le parole d’ordine diventano: “devono marcire in galera”, “dobbiamo buttare via la chiave”, “ci vorrebbe la pena di morte, altro che ergastolo” e via di questo passo. A tutto questo si devono aggiungere le campagne mediatiche sulle presunte “scarcerazioni facili” che si concludono sempre con l’influire an- che sulle decisioni politiche e sui provvedimenti che vengono adottati sulla spinta di tanto dannoso clamore. La chiusura delle carceri ad ogni presenza esterna ha reso negli ultimi mesi la situazione ancora più drammatica: si spera che si possa intervenire al più presto con una vaccinazione di massa e di conseguenza con una graduale riapertura in sicurezza. Tutte le attività (culturali, ricreative, socia- li, rieducative) che sono documentate in alcuni dei nostri percorsi sono sempre state un elemento che ha caratterizzato il nostro sistema detentivo.

A noi della comunità dell’ANPI non manca la consapevolezza della connotazione che le pene e la loro esecuzione dovrebbero avere, come previsto dalla nostra Costituzione, in termini di rieducazione del condannato. Il carcere dovrebbe restituire alla società persone in condizioni diverse da quelle che lo hanno portato a delinquere: solo in questo modo si può parlare di possibile reinserimento per il singolo, e allo stesso tempo di una maggiore sicurezza per tutti.