Resistenza Oggi n. 6 – Palestina (novembre 2020)

Pubblicazione riservata ad iscritti ANPI Vicenza

5 linguaggi per parlare del popolo palestinese e capire la Palestina

A cura di Michele Zanna, con la collaborazione di Miriam Gagliardi

Gran parte degli iscritti dell’Anpi soprattutto i più longevi, a cui questo sesto e ultimo numero del 2020 di “Resistenza oggi” è dedicato in modo parti- colare, hanno vissuto sul piano politico e culturale in stretta relazione con il trascorrere dei decenni, le vicende relative alla Palestina, al popolo palestine- se, ai vari conflitti arabo-israeliani, alla storia dello stato di Israele. Se si indica il 1948 come anno spartiacque si sono succedute tre generazioni, il doppio almeno se si parte dai primi insediamenti sionisti nella Palestina ottomana. Ai più anziani probabilmente sarà arrivata l’eco delle vicende lega- te alla nascita di Israele e alla prima guerra arabo-israeliana: dalla Nakba (la catastrofe) del 1948 ad oggi sono passati 72 anni. Gli ultra settantenni rammenteranno sicuramente Arafat e l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina del 1964), come la “Guerra dei sei giorni”; dal 1967 ad oggi sono trascorsi 53 anni. Difficile che a qualche sessantenne sia sfuggita l’espressione “Settembre nero” che ebbe a suo tempo (1970) molta fortuna giornalistica o le immagini degli accordi di Camp David (1978) tra Egitto e Israele, con al- Sadat e Begin che alla Casa Bianca si stringono la mano.

La generazione successiva avrà visto qualche foto di giovani palestinesi che scagliano pietre contro i carri armati israeliani: siamo alla “prima Intifada” nel 1987 e alla nascita del movimento di Hamas. Infine tutti abbiamo nei nostri occhi la stretta di mano tra Arafat e Rabin durante gli accordi di Oslo (1993), come le sequenze dell’assassinio del premier laburista israeliano nel 1995. I telegiornali del tempo si soffermarono a lungo sulle sanguinose vicende della “seconda Intifada” esplosa a Gerusalemme nel settembre del 2000, in seguito estesa a tutta la Palestina.

L’attentato alle Twin Towers di New York (11 settembre 2001) segnano l’inizio di una nuova pagina per gli Stati Uniti e la loro politica mediorientale: segue infatti la “guerra al terrorismo” con l’intervento in Afghanistan e l’invasione dell’Iraq nel 2003. La morte di Arafat nel 2004 e i coloni israeliani portati via di peso da Gaza nell’agosto del 2005 chiudono un ciclo.

Da quella data in poi è netta la sensazione che le vicende legate al lancio dei missili dalla Striscia di Gaza contro Israele e le sanguinose operazioni di sicurezza israeliane contro le milizie palestinesi di Hamas, ma con conseguenze pesanti soprattutto per la popolazione civile, la costruzione del muro, il Jihad con la sua scia di attentati, gli omicidi mirati e i bombardamenti israeliani, le varie “marce del ritorno” con le numerose vittime solo palestinesi, lentamente hanno attratto sempre meno l’attenzione dell’opinione pubblica europea e italiana in particolare, fino a giungere ai giorni nostri in cui la “causa palestinese” è patrimonio prevalentemente di esperti e militanti di questo tipo di problematiche. Ormai è un luogo comune che la Palestina, ma soprattutto le condizioni di vita del popolo palestinese, sono cadute nell’oblio quasi completo. Per questo il nostro lungo dossier è dedicato, non alla “questione palestinese”, bensì prevalentemente al popolo palestinese: “Cinque linguaggi per parla- re del popolo palestinese e capire la Palestina”.

Numerosi e consistenti reportage su come si vive in Palestina, le condizioni di vita dei palestinesi attraverso il racconto della letteratura e del cinema, alcune analisi geopolitiche di esperti del settore, l’inevitabile ancoraggio ai libri di storia e alla migliore saggistica e infine le opinioni e i commenti di qualificati giornalisti. Ciò che si vuole evidenziare è la tragedia del popolo palestinese, soprattutto di quella parte della popolazione che vive in condizioni di povertà. Un popolo che da più di cinquanta anni vive sotto occupazione militare, caratterizzata da costanti e sistematiche negazioni di diritti umani fondamentali; che non ha libertà di movimento, al quale viene rubata sistematicamente terra e risorse naturali. Un popolo che vede migliaia di prigionieri politici nelle carceri di Israele e la dispersione di gran parte della propria gente nei campi profughi in Giordania, Libano, Siria senza la possibilità che un giorno possa ritornare sulle proprie terre.

Per non parlare dei sempre più numerosi palestinesi che vivono tra paesi Arabi, Europa, America Lati- na e USA.

Sulla “causa palestinese” le opinioni in Occidente, in Europa in particolare, sono molto diversificate: le vicende di questo ultimo periodo le hanno complicate ulteriormente. Dovrebbero i leader palestinesi accettare di negoziare il “Piano del secolo” proposto dalla amministrazione americana di Trump? Dovrebbero mantenere invariato il loro atteggiamento verso gli Stati arabi, compresi quelli che hanno stretto accordi con gli israeliani come gli Emirati Arabi e il Bahrein? Come affrontare le emergenze legate alla diffusione del Covid 19 in territori già di per sé gravati dalla precarietà e dalla povertà? Come far fronte alla crescente carenza dei finanzia- menti europei e arabi? Come alleviare la durezza della vita quotidiana a Gaza (dal 2007, ben 13 anni, questa piccola striscia di terra vive circondata da israeliani ed egiziani con controlli rigidi) e nei campi profughi del Medio Oriente?

E ancora: come affrontare la politica di colonizzazione israeliana e la svolta a destra dello Stato ebraico di Israele, per la responsabilità dei governi di Benjamin Netanyahu, che rendono, ormai da molto tempo e in modo del tutto evidente, irrealizzabile la soluzione dei due popoli e due stati (come sostiene la dottrina europea da decenni)? Quale il ruolo della comunità internazionale per affrontare il perenne contenzioso sull’acqua, i problemi posti dal muro di separazione, le arbitrarie detenzioni amministrative, gli ormai quotidiani interventi polizieschi a fini “intimidatori” e “educativi”, le continue provocazioni e aggressioni da parte dei coloni, la situazione di vero e proprio apartheid che si sta creando in tutte le tre zone della Cisgiordania?

Alcune risposte ci provengono dall’ottimo numero monografico della rivista “Il Ponte”, con il titolo “Palestinesi” (a cura di L. Binni, R. Bosco, W. Dahmash e B. Gagliardi, gennaio 2020), che invitiamo a scaricare gratuitamente dal relativo sito web. In quattrocento pagine gli autori dei diversi saggi, fra i maggiori esperti e studiosi italiani e stranieri, affrontano tutti gli aspetti più importanti relativi al dibattito politico e culturale della “Questione palestinese”.

Nell’introduzione gli autori chiariscono l’intento della pubblicazione: “Come risulta dai numerosi contributi a questo numero speciale, in un ampio “ventaglio” di approfondimenti tematici sui piani più diversi, dall’analisi socioeconomica e storico-culturale alla proposta politica, i «palestinesi » costituiscono oggi uno straordinario laboratorio aperto in cui confluiscono e si rilanciano processi politici di tipo nuovo, “dal basso”, in verticale nella vita quoti- diana dei palestinesi occupati, imprigionati e rifugiati, e in orizzontale nella diaspora internazionale. Nuovi temi sono oggetto di elaborazione teorica e di azione politica e culturale: la questione identitaria vissuta come radice storica profonda, base necessaria di processi conoscitivi ed educativi, la questione culturale come strumento indispensabile di autonomia e relazione con altre culture, la questione dei femminismi nelle società patriarcali, la questione democratica come terreno di confronto con i poteri politici e militari, la questione della violenza e delle pratiche non violente, la questione del confronto tra laicità e fondamentalismo religioso, la questione demografica come prospettiva di reale e concreto cambiamento nelle relazioni con la stessa popolazione ebraica”.

Il fascicolo della rivista risulta diviso in quattro parti: la prima affronta tutti i nodi della “questione palestinese oggi”. Il saggio di Jamil Hilal, sociologo palestinese indipendente, appare il più interessante in quanto chiarisce e riassume i diversi aspetti che definiscono la questione. In Palestina è in atto non solo una occupazione militare, ma un vero e proprio colonialismo di insediamento; villaggi e città palestinesi sono accerchiati e Israele ne controlla tutti gli aspetti: movimenti, economia, risorse naturali, terra, acqua, cielo, sottosuolo. I palestinesi quindi vivono in un perenne “stato di eccezione” che le tante risoluzioni della Assemblea delle Nazione Unite non hanno mai scalfito, né Israele ha mai subito sanzioni per questo. I palestinesi sono anche oggetto di uno “stato di diniego”, come se non esistessero nella geopolitica della regione: basta vedere come l’amministrazione Trump, di cui parleremo più avanti, ha affrontato in questi quattro anni la questione palestinese.

Fino agli accordi di Oslo (1993) i palestinesi erano rappresentati dall’OLP: dopo quella data inizia un processo di “disintegrazione del campo politico” della Palestina. Oggi l’Autorità palestinese (che nel 2007 si è divisa tra le zone della Cisgiordania con Fatah e la Striscia di Gaza governata da Hamas) si è ulteriormente disintegrata in tanti “campi locali”. Tutto questo ha come conseguenza una vulnerabilità di tutte le comunità palestinesi e la perdita della capacità di agire come collettività coesa. A tutto questo si deve aggiungere un certo distacco che si è creato tra le varie leadership (politica, militare, culturale, economica) e la parte più povera della popolazione; infatti solo la “classe media” (cresciuta in modo esponenziale negli ultimi venti anni), può vedersi garantita un tenore di vita accettabile.

Numerosi e tutti interessanti gli altri interventi: ad esempio Diana Carminati parla degli studi storici sul colonialismo di insediamento, Ibrahim Said dei palestinesi d’Israele, Chiara Cruciati dei rifugiati, Basil Farraj delle carceri israeliane, ecc … L’intervento di Michele Giorgio, dedicato agli scenari geopolitici, lo abbiamo riportato integralmente nella sezione dedicata alle analisi geopolitiche.

A questa prima parte seguono tre approfondimenti: il primo affronta il tema dei rifugiati con una attenzione particolare alla situazione nei campi profughi, al ruolo delle organizzazioni non governative, alle potenzialità e limiti dell’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi), alle varie letture del diritto internazionale. Un secondo approfondimento prende in considerazione le “culture della resistenza”: dai nuovi paradigmi della resistenza nelle strade, alla vivacità che la cultura palestinese (poesia, lettera- tura, cinema, teatro, musica) riesce ad esprimere nonostante tutto. Il terzo è dedicato alla campagna internazionale Bds: boicottaggio, disinvestimento, sanzioni, con una interessante intervista ad una protagonista in questo campo: Diana Carminati.

Impossibile comprendere la questione palestinese senza un accenno alla situazione internazionale e soprattutto al ruolo degli Stati Uniti. Impressionante, in questi ultimi quattro anni, la sequenza di iniziative da parte dell’amministrazione americana. Il 16 febbraio del 2017 Trump dichiara di appoggiare una soluzione di un unico Stato dopo l’incontro con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Il 6 dicembre annuncia il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e riconosce formalmente Gerusalemme co- me capitale di Israele.

Il 3 gennaio del 2018, su Twitter, Trump minaccia di tagliare gli aiuti ai palestinesi citando la loro riluttanza a “parlare di pace”. In agosto il Diparti- mento di Stato USA afferma che sta interrompendo tutti i finanziamenti all’UNRWA dopo aver stabilito che l’organizzazione è “un’operazione irrimediabilmente imperfetta”. Di seguito gli Stati Uniti chiudono la missione dell’OLP a Washington e revocano i visti per l’inviato dell’OLP e la sua famiglia, costringendoli a lasciare il paese.

Nel marzo del 2019 Trump riconosce l’annessione ad Israele delle alture del Golan occupate e in giugno gli Usa propongono la creazione di un fondo di investimento globale di 50 mld di dollari per i palestinesi e gli stati arabi limitrofi, il motore economico del piano di pace americano in Medio Oriente. Infine il 18 novembre Mike Pompeo annuncia che l’amministrazione non considera più gli insedia- menti israeliani incompatibili con il diritto internazionale. Siamo al cosiddetto “piano del secolo” che suggella una politica del tutto sbilanciata a sfavore del popolo palestinese.

In una recente intervista il segretario di stato americano alla domanda che cosa rende gli “Accordi di Abramo” (gli accordi fra Israele e stati arabi) strategici risponde: «In precedenza la teoria era che fino a quando il problema palestinese non fosse stato risolto nulla di buono sarebbe potuto avvenire in Medio Oriente. Vi sarebbero stati solo fuoco e fiamme. Ad esempio, spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme avrebbe innescato la Terza Guerra Mondiale. Il presidente Trump ha dimostrato che tutto ciò era profondamente errato perché si può rispettare il popolo palestinese ed al contempo creare un nuovo sistema di sicurezza e stabilità in Medio Oriente capace di giovare a tutti, palestinesi inclusi. Speriamo che i leader del popolo palestinese si uniranno a noi, accettando di far parte di questo processo e iniziando a impegnarsi in seri negoziati con Israele. Non ci si può limitare a tirare bottiglie molotov, bisogna impegnarsi nella diplomazia. È così che si sviluppano relazioni pacifiche». E conclude in modo perentorio che i palestinesi: «hanno bisogno di impegnarsi a dialogare».

Difficile che la nuova amministrazione Biden cancelli con un colpo di spugna l’azione del predecessore: del resto il futuro presidente ha già annunciato che manterrà l’ambasciata statunitense a Gerusalemme. E’ più probabile che ci sarà maggiore spazio per la diplomazia sul versante del dossier iraniano, nell’ottica di un approccio più multilaterale e meno antagonistico. Il neopresidente infatti durante la campagna elettorale ha espresso la sua disponibilità a ridiscutere il ritorno statunitense al JCPOA (accordo sul nucleare iraniano). Ma gli obiettivi di fondo della politica estera in Medio Oriente probabilmente resteranno gli stessi della vecchia amministrazione: il disimpegno militare, l’alleanza con Israele e i paesi arabi del Golfo e il contenimento delle ambizioni iraniane.

E’ prevedibile che saranno ristabilite le relazioni con il presidente Abu Mazen interrotte da tempo, inoltre ci saranno probabilmente dichiarazioni contrarie alla colonizzazione e all’annessione unilaterale a Israele di parti della Cisgiordania, ma niente di più concreto.

Con molto realismo un noto commentatore (Pierre Haski su “Internazionale” del 9 ottobre 2020), dopo aver constatato il rapporto di forze del tutto squilibrato tra palestinesi e israeliani, arriva a conclusioni molto amare: “Se davvero è impossibile immaginare i due stati, infatti, restano solo due soluzioni: un unico stato binazionale, che gli israeliani non accettano, o la conferma perpetua dello status quo, in cui i palestinesi non hanno alcun diritto e sono condannati al rango di non cittadini di seconda classe … viene sancita in questo modo la perdita di centralità diplomatica della questione palestinese, in un Medio Oriente in pieno caos e in fase di ricomposizione. È un fallimento per i leader palestinesi, quelli di Fatah come quelli di Hamas, ma anche per una comunità internazionale che non ha fatto rispettare gli impegni. Un fallimento che si compie nell’indifferenza generale”.

Il nostro dossier, che come in tutti gli altri casi adotta la formula di offrire materiali di qualità grazie ai quali informarsi o riflettere e sulla base dei quali eventualmente discutere, ha tra i suoi obiettivi proprio quello di smuovere questa indifferenza generale.

REPORTAGE: COME SI VIVE IN PALESTINA

Ben sei sono i reportage, per un numero di pagine molto ampio, che abbiamo deciso di antologizzare. Senza il distacco del linguaggio accademico, ma anche senza la presunzione di chi scrive saggi, soprattutto quando hanno la pretesa di voler spiegare tutto, il giornalista o lo scrittore che si reca in una località e ne scrive permette, molto spesso con l’ausilio di un buon servizio fotografico, di cogliere la situazione con una forte dose di realismo e immediatezza. Se il reportage riesce davvero a collega- re il piccolo e il grande, il locale al mondiale, si può sperare in storie più vere, più dirette, più istruttive, più in grado di tenere desta l’attenzione del lettore. Ecco perché, per parlare delle condizioni di vita del popolo palestinese, abbiamo dedicato tanto spazio a questo tipo di scrittura.

Il giornalista Michele Giorgio, storico inviato del quotidiano “il Manifesto”, vive in Palestina da molti anni e quindi descrive ciò che realmente conosce. Due i suoi interventi: il primo recentissimo del giugno 2020. Siamo nella Valle del Giordano (nella comunità di Jiftlik) e il giornalista parla prima con un palestinese anziano, poi con un giovane di 26 anni. Entrambi lamentano le pesanti condizioni di vita: la carenza di acqua e servizi, l’impossibilità di nuove costruzioni, gli stipendi ormai miseri, tutto l’opposto della vita nelle vicine colonie israeliane. Entrambi esprimono il timore che a causa delle ventilate “annessioni” che il governo israeliano vorrebbe attuare, ci si possa trovare a vivere in una sorta di «Bantustan». Il secondo intervento risale al luglio del 2019: siamo a Gerusalemme, nella zona di “Sur Baher”. Polizia ed esercito di Israele abbattono, con ruspe ed esplosivi, edifici palestinesi considerati “pericolosi” in quanto troppo vicini al muro.

L’inviato del quotidiano “la Repubblica” (novembre 2019), Vincenzo Nigro ci permette di cogliere alcuni aspetti delle condizioni di vita dei palestinesi di Gaza. I valichi sono tutti controllati: si passa dal territorio israeliano, ad un posto di controllo della Anp, poi alla terra di nessuno e infine al posto di controllo di Hamas; una volta dentro cambia il paesaggio: “Le strade, la campagna, le case e i villaggi cambiano immediatamente aspetto, sono lo scenario sbriciolato e polveroso di un paese in guerra”. Varie le testimonianze raccolte, ma la più interessante è quella di un pescatore che dopo aver descritto le condizioni in cui deve lavorare, conclude amareggiato: “a Gaza fino a pochi anni fa c’erano 4.000 pescatori, adesso sono 1.000”.

Molto interessante anche la descrizione del viaggio dello scrittore Giuseppe Cazzottella (novembre 2018 per il settimanale “L’Espresso”, con le belle fotografie di Pietro Marsturzo). Dall’arrivo all’aeroporto di Tel Aviv con l’atteggiamento a dir poco arrogante degli addetti ai controlli, attraversando vari check-point per giungere a Ramallah, l’autore, invitato per la presentazione dei propri libri tradotti in arabo, descrive la piccola odissea di una permanenza durata solo pochi giorni.

La sezione si conclude con due articoli (nel gennaio e giugno del 2020) di Gidoan Levy, giornalista israeliano molto noto anche in Italia del quotidiano “Haaretz”. Il primo parla dell’uccisione da parte della polizia, siamo nella Città Vecchia di Gerusalemme dalle parti della Porta dei Leoni, di un uomo palestinese autistico, Eyad al-Halak, che semplicemente si stava recando in un centro per persone disabili. Il fatto di cronaca, descritto nel dettaglio per cogliere la situazione di contesto, serve al giornalista per parlare delle tante uccisioni di palestinesi: “Nello scorso anno, uno dei più tranquilli nella storia di questo sanguinoso conflitto, sono state ucci- se decine di palestinesi dalle forze israeliane. In quasi tutti i casi non costituivano una minaccia per nessuno; quasi tutti avrebbero potuto essere arresta- ti, o al limite solo feriti, piuttosto che uccisi”. Il secondo articolo invece descrive ancora una volta, con tutta una serie di dati impressionanti, la vita difficilissima nel territorio di Gaza.

ARABI E ISRAELIANI NELLA LETTERATURA …

Nonostante il quadro fosco che ci proviene dalla Palestina, c’è almeno un punto sul quale tutta la comunità palestinese può ancora contare: la propria vitalità culturale. Negli ultimi dieci anni sono emerse nuove espressioni culturali praticamente in tutti i settori: la musica, il teatro, la letteratura, il cinema, le arti visive, ma anche danza, fumetto e street art. Sotto questo aspetto si consiglia il volume a cura di Chiara Comito e Sivia Moresi: “ARABPOP. Arte e letteratura in rivolta dai paesi arabi” (Mimesis, Milano, 2020). Alcuni intellettuali vivono nei territori di origine, altri girano il mondo testimoniando con la loro vita e le loro opere ciò che i media tradizionali tendono a non vedere. Diverso invece il caso dei social media: una vera e propria esplosione che è avvenuta all’interno di quasi tutte le comunità palestinesi.

Vediamo il caso, ad esempio, del giovane ventottenne palestinese Bashar Murkus, che al teatro Argentina di Roma ha da poco rappresentato, con successo, il suo ultimo spettacolo dal titolo «The Museum». La potente messa in scena, con un uso massiccio della tecnologia, vede come protagonista un terrorista che per le sue ultime ore di vita, non chiede il conforto di un parente, ma il confronto con l’uomo che lo ha arrestato: un uomo di stato, un poliziotto; durante il corso dello spettacolo i ruoli si invertono e la violenza prevale in entrambi i personaggi. In una delle tante interviste concesse alla stampa italiana il regista più volte ha ribadito lo stesso concetto: “Essere indipendente non ha niente a che vedere con la definizione che si può darne in Europa o in Israele. La (nostra) squadra, il Khashabi theatre di Haifa, funziona come un gruppo di lavoro. Abbiamo studiato insieme e poi scelto di lavorare insieme. Operiamo in un posto che si chiama Israele, ma siamo totalmente indipendenti dalla sua narrazione ufficiale. Crediamo che l’arte non debba essere solo una reazione a un’occupazione, è un’azione continua. Non chiediamo il diritto di fare qualcosa, questo diritto lo prendiamo”. Non a caso al suo teatro ad Haifa, sono stati tolti tutti i finanziamenti ed è intervenuta la censura, con relativa chiusura, quando la sceneggiatura di uno spettacolo è stata tradotta in ebraico.

Il nostro percorso antologico prevede, nella prima parte, la scelta di quattro scrittrici palestinesi di diverse generazioni, ma tutte molto attive e un solo scrittore; inoltre una selezione di film nella seconda. Molto utile sotto questo aspetto il blog di Chiara Comito (editoriaraba.com) che si occupa con competenza della letteratura araba tradotta in italiano. Oltre ad alcune brevi recensioni abbiamo privilegiato le interviste a quotidiani, riviste o siti, in cui questi intellettuali possono evidenziare le proprie esperienze di vita, oltre alle caratteristiche della loro scrittura. La sezione si conclude con la segnalazione, attraverso brevi schede, di altri autori palestinesi.

Suad Amiry (61 anni: scrittrice e architetto fondatrice del Riwaq Centre for Architectural Conservation) vive a Ramallha ed è molto nota anche in Italia, in pratica la sua seconda patria. Tutti i suoi numerosi romanzi sono stati tradotti in italiano, oltre che in molte altre lingue:

“Sharon e mia suocera”, “Niente sesso in città”, “Murad Murad” e “Damasco”. Il suo bellissimo ulti- mo romanzo, “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea” è recensito da Wlodek Goldkorn sulle pagine dell’”Espresso”. Il punto di partenza è una storia d’amore, in parte vera, tra due giovani palestinesi nella città di Giaffa, al tempo della Nakba, quando le forze israeliane bombardarono la città senza pietà, la occuparono, la ridussero a una città fantasma.

Molto interessanti le due interviste rilasciate al sito “Huffingtonpost” e al quotidiano “il Manifesto”. Alla inevitabile domanda di natura politica Suad Amiry risponde con decisione: “Dico che ci andrà bene uno Stato indipendente palestinese sovrano sui territori occupati del 1967. E ci andrà bene anche uno Stato unico con diritti uguali per tutti. Ma siamo onesti, queste voci israeliane chi rappresentano realmente nel loro paese? Hanno qualcuno dietro di loro? Non credo. Il punto è che gli israeliani, in larga parte, ora come in passato, vogliono la terra dei palestinesi ma senza i palestinesi. Ed è questo che dovrà cambiare prima di ogni altra cosa”.

Susan Abulhawa (50 anni: cittadina americana che vive in Pennsylvania) nasce da una famiglia palestinese in fuga dopo la “Guerra dei sei giorni”: passa i suoi primi anni in un orfanotrofio di Gerusalemme. In seguito abita in diversi paesi, tra cui anche il Kuwait e la Giordania. Si laurea in scienze biomediche all’Università della South Carolina e può contare su una brillante carriera nell’ambito delle scienze mediche. Ha fondato l’associazione “Playgrounds for Palestine”, che si occupa soprattutto dei bambini dei Territori Occupati. I suoi ar- ticoli sulla situazione palestinese sono apparsi su numerose riviste. Nel 2006 Sperling & Kupfer pubblica “Nel segno di David”, nel 2011 esce per Feltrinelli “Ogni mattina a Jenin”; nel 2015 “Nel blu tra cielo e mare” e nel 2020 “Contro un mondo senza amore” sempre per Feltrinelli.

Il suo romanzo più famoso, “Ogni mattina a Jenin”, racconta la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di “senza patria”. Attraverso la voce di Amal, la brillante nipotina del patriarca della famiglia Abulheja, viviamo l’abbandono della casa dei suoi antenati nel 1948, per il campo profughi di Jenin. In questo modo la storia della Palestina si intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo di tante famiglie palestinesi; le numerose vicende si snodano nell’arco di quasi sessant’anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro. In primo piano c’è la tragedia dell’esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, condannati a sopravvivere in attesa di una svolta.

Selma Dabbagh (50 anni: scrittrice britannico-palestinese, di padre palestinese e madre inglese). La parte palestinese della famiglia di Selma viene da Giaffa, dove suo nonno è stato arrestato numerose volte dagli inglesi per le sue opinioni politiche. La famiglia fu costretta a lasciare Giaffa nel 1948 quando suo padre, allora un ragazzo di dieci anni, fu colpito da una granata gettata dai gruppi sionisti. La famiglia si è rifugiata in Siria per poi trasferirsi in diverse parti del mondo. Selma Dabbagh ha vissuto in Arabia Saudita, Kuwait, Francia e Ba- hrein e ha lavorato come avvocato per i diritti umani a Gerusalemme, Il Cairo e Londra.

“Fuori da Gaza” è il suo romanzo più conosciuto tradotto anche in francese e arabo. Riportiamo una recensione della professoressa Elisabetta Benigni che insegna letteratura araba all’Università di Torino apparsa sulla rivista “L’Indice” e una intervista di Guido Caldiron del “Manifesto”.

Il romanzo “si avventura in uno dei terreni ancora inesplorati dalla letteratura contemporanea, an- dando a indagare l’animo più profondo della gioventù palestinese al tempo della “Seconda Intifada”. … La narrazione ruota attorno alla storia dei Mujahed, una famiglia medio borghese, colta e benestante, la cui casa si ritrova all’improvviso in mezzo alle macerie del quartiere distrutto dalle incursioni israeliane”. Ambientato tra Gaza e Londra, la trama segue le giovani vite di Rashid e Iman nel loro tentativo di costruirsi un futuro in mezzo all’occupazione, al fondamentalismo religioso e alle varie fazioni politiche.

Sahar Mustafath è figlia di palestinesi emigrati negli Stati Uniti, vive a Chicago, insegna letteratura in un liceo e si impegna per promuovere l’opera di scrittori e artisti in esilio. Di se stessa afferma che nei suoi testi esplora e cerca di recuperare l’eredità culturale palestinese.

Alessandra Pagliaru le rivolge diverse domande sul suo romanzo d’esordio: “La tua bellezza”: racconta la storia di una strage in un liceo femminile. Afaf è la preside del liceo, una palestinese a Chicago, sradicata dalla sua terra. Dallo stanzino dove si è ritirata a pregare, sente gli spari e si prepara all’impensabile: infatti sente i passi dell’assassino (un americano bianco che ha comprato il fucile automatico online), sempre più vicini ma non fugge, lo aspetta. Interessanti le dichiarazioni della scrittrice sul proprio ambito culturale di riferimento: “Spero che il mio romanzo dia vita con altre voci ghettizzate a una nuova letteratura Americana, facendo cadere la natura scissa delle nostre identità, con storie che mettano al centro le esperienze di immigrati, rifugiati ed esiliati, e dei loro figli, come Afaf, che ereditano il trauma generazionale e gli effetti dello spaesamento e dell’intolleranza in questo paese. Scrittori come Naomi Shihab Nye, Laila Lalami, Susan Muaddi Darraj, Mohja Kahf e Randa Jarrar, tra le molte voci arabe americane, hanno illuminato la strada per chi come me vuole raccontare una storia nuova che abbia caratteristiche familiari e nello stesso tempo inaspettate”.

Il percorso relativo alla letteratura si conclude con un richiamo particolare e riguarda un personaggio importante per la cultura palestinese: Sari Nusseibeh. Nato a Damasco nel 1949, discendente da una tra le più colte e illustri famiglie palestinesi, dopo aver studiato a Oxford e a Harvard, ritorna in Medio Oriente, segue le orme paterne sulla via della politica attiva, divenendo membro dell’Olp, esponente di spicco dell’Autorità palestinese e consigliere privato di Arafat. Per anni è stato rettore della Al-Quds, l’università araba di Gerusalemme: come tale conduce un’instancabile attività di promotore culturale.

“C’era una volta un paese. Una vita in Palestina” è l’autobiografia di un uomo che non ha mai smesso di difendere le ragioni della pace, della democrazia e della tolleranza, alla ricerca di una soluzione non violenta al conflitto israelo-palestinese. Nel 2010 ad una precisa domanda di uno storico giornalista del quotidiano l’Unità, Umberto De Giovannangeli, in questi termini risponde ad una domanda relativa all’essenza della propria testimonianza: «Credo fortemente in questo assunto: l’incapacità di immaginare l’altro. E mi ritrovo molto in una riflessione che i più grandi scrittori israeliani consegnarono ad un appello all’opinione pubblica e ai governanti d’Israele: c’era scritto che per Israele sarebbe stato meno doloroso cedere delle terre che riconoscere che la creazione del loro Stato nasceva da una ferita inferta al popolo palestinese. È profondamente vero. Per questo considero la colonizzazione culturale non meno grave dell’espropriazione di terre. La pace è innanzitutto riconoscere l’esistenza dell’altro, della sua storia, della sua identità. Riconoscere quanto fosse sbagliata l’affermazione che la «Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra». Questo, naturalmente, vale anche per noi palestinesi verso Israele. Nel libro riflettevo sul fatto che io ero cresciuto a non più di 30 metri dal luogo in cui Amos Oz aveva trascorso l’infanzia. Quando pensavo all’assenza di arabi nelle esperienze giovanili di Oz, ero costretto a riflettere anche sul modo in cui ero stato cresciuto. Cosa sapevano i miei genitori del suo mondo? Sapevano dei campi di sterminio? Le due parti, ciascuna immersa nella propria tragedia, non erano indifferenti, se non addirittura ostili, alle esperienze dell’altro?».

Di Nusseibeh riportiamo una intervista, fuori dal coro, del 2017 all’”Espresso”: si esprimono giudizi sulle scelte della amministrazione americana di Trump, ma anche sui limiti della leadership palestinese.

… E NEL CINEMA

Anche per la scelta di alcuni film abbiamo utilizzato la stessa formula della letteratura: due documenta- ri e due film di cui si riportano brevi recensioni e in alcuni casi una più consistente intervista al regista. La scelta è caduta su quei titoli che in qualche mo- do documentano le reali condizioni di vita della gente comune.

Nelle sezioni sono previste alcune brevi segnalazioni. Nella prima sono evidenziate le schede dei film passati alla recente 77^ mostra del cinema di Venezia: ben tre le pellicole che affrontano temi legati alla Palestina. “200 meters”di Ameen Nayfeh, “Gaza mon amour” di Arab Nasser e Tarzan Nasser, “Laila in Haifa”, regia di Amos Gitai.

Segue la segnalazione del libro di Maurizio Fantoni Minella: “Spezzare l’assedio. Il cinema del conflitto israelo-palestinese” utile per eventuali approfondimenti di natura più specialistica. Come del resto per una lettura più tecnica è da segnalare il saggio di Riccardo Bocco “Sionismo e Occidente fra storia e cinema” riportato nel fascicolo della rivista “il Ponte” segnalato in apertura.

Il saggio riporta una lunga e completa filmografia di tutti i documentari prodotti in questi ultimi decenni, molti dei quali mai arrivati nelle sale italiane.
La sezione si conclude con l’elenco di “15 film da non dimenticare” in ordine cronologico, trascurando volutamente registi famosi come il palestinese Elia Suleiman e l’israeliano Amos Gitai.

“La Strada di Samouni” di Stefano Savona:

Stefano Savona, archeologo di formazione, nel suo primo film si è soffermato sugli emigrati siciliani in Tunisia e di quelli tunisini in Sicilia. Di seguito si è occupato del Kurdistan e nel 2009 con “Piombo fuso” arriva in Palestina, a Gaza, per documentare l’operazione dell’esercito israeliano. L’argomento viene ripreso con il documentario “La strada di Samouni”: la storia di una famiglia che Stefano Savona ha conosciuto nel 2009 sotto i bombardamenti. Nel nostro percorso abbiamo riportato una bella intervista di Cristina Piccino sul “Manifesto” e una interessante recensione dell’antropologo Franco La Cecla (doppiozero.com).

“Sarah E Salem: là dove nulla è possibile” di Muayad Alayan
Muayad Alayan è un regista palestinese nato in Kuwait nel 1985: ha studiato a San Francisco prima di tornare a Betlemme per girare film sulla realtà della vita dei giovani palestinesi. Dopo aver completato gli studi a San Francisco, Alayan è tornato in Palestina con il sogno di fare cinema di e sui palestinesi. Cofondatore della Palcine Productions – un collettivo di registi e artisti audiovisivi con sede a Gerusalemme e Betlemme -, è attivo come in- segnante di cinematografia presso diverse istituzioni accademiche e organizzazioni in Palestina. Il film “Sarah e Salem” è recensito da Fabio Ferzetti sulla rivista “L’Espresso”. Saleem è palestinese e vive nella parte Est, Sarah vive a Gerusalemme Ovest ed è ebrea: una relazione a dir poco difficile.

“L’insulto” di Ziad Doueiri
Ziad Doueiri invece è nato a Beirut ed è cresciuto durante il difficile periodo della guerra civile che ha devastato il Libano dal 1975 al 1990. A vent’anni si trasferisce negli Stati Uniti, dove si laurea in cine- ma, alla San Diego State University. Il film si intito- la “L’insulto” ed è recensito da Alessio Turazza sulla rivista “La ricerca Loescher”: “Una banale questione privata si carica di significati che trascendono i fatti e chiama in causa vecchi rancori tra culture e religioni diverse: Toni è un libanese cristiano, mentre Yasser è un palestinese”.

“Jenin Jenin” di Mohammad Bakri
L’attore e regista, 69 anni, arabo-israeliano Mo- hammad Bakri è da una ventina d’anni nel mirino della giustizia israeliana per il suo documentario, naturalmente censurato in Israele e non solo. Di queste vicende ne parla nella intervista rilasciata a Michele Giorgio apparsa sul “Manifesto” del febbraio 2020. “Jenin Jenin” è stato girato nella seconda Intifada: documenta la devastazione del campo pro- fughi di Jenin durante l’offensiva “Muraglia di Dife- sa” che, nella primavera del 2002, vide l’esercito israeliano rioccupare le città autonome palestinesi. Il documentario è recensito da Alessandra Garusi sulla rivista cattolica “Missione oggi”.

L’ANALISI GEOPOLITICA

Abbiamo fatto un accenno alla politica americana nei confronti dello stato di Israele e dei palestinesi. La dimensione geopolitica ci obbliga ad allargare lo sguardo alla difficile situazione del Medio Oriente che sta attraversando un complicato processo di trasformazione. Tralasciamo per motivi di spazio i problemi più complessi: le quotazioni del petrolio e le relative crisi economiche in paesi che in passato contavano su grandi disponibilità finanziarie, una sorta di “recessione” democratica in atto a causa dei controlli introdotti per il Covid 19, le emergenze ambientali, il ruolo dei fondamentalismi religiosi, i flussi migratori, ecc …

Soffermiamoci solo sugli avvenimenti più recenti. Gli accordi che alcuni Paesi Arabi (Bahrein ed Emirati Arabi Uniti), da ultimo il Sudan fortemente condizionato dalle promesse di aiuti finanziari americani, hanno preso o stanno per prendere con lo Stato di Israele cambiano non di poco il quadro delle alleanze in questa area. La guerra ancora in atto in Siria e Yemen con il suo strascico non solo di vittime, ma di un flusso enorme di rifugiati; le guerre mai terminate in Afghanistan, Libia e Iraq con protagonisti i sanguinosi attentati terroristici. La politica destabilizzante del neoimperialismo della Turchia; il ruolo delle due potenze regionali sempre più instabili o meno credibili: Iran e Arabia Saudita. La presenza militare americana vistosamente più defilata e l’insidiosa ombra economica dei cinesi che stanno costruendo in tutta la regione porti e basi militari. In tutto questo mare di problemi, la “questione palestinese” praticamente scompare dai radar della pubblica opinione internazionale e dalle agende dei governi. Per quanto ci riguarda sono tre i brevi saggi che abbiamo selezionato.

Il primo di Michele Giorgio è tratto dalla rivista “Il Ponte”di cui abbiamo già parlato. Sono una decina le motivazioni che il giornalista analizza in apertura per cercare di spiegare come mai la comunità inter- nazionale si è negli ultimi anni del tutto disinteressata alla questione palestinese, mentre ha dimostrato particolare attenzione per altre minoranze perseguitate, come ad esempio i Curdi. Segue una attenta analisi dei vari soggetti che si muovono sul complesso scenario mediorientale: dagli Stati Uniti all’Iran, dalla Russia di Putin alla Turchia di Erdogan, dal ruolo dell’Arabia Saudita a quello degli Emirati. Allo stato attuale delle cose per molti leader arabi, in passato tradizionali sostenitori della causa palestinese, oggi l’idea della Palestina è solo “un fastidioso freno alla realizzazione di accordi con Israele alla luce del sole”. Dal canto loro i leader palestinesi “hanno commesso l’errore di farsi risucchiare nel gioco di interessi e alleanze che nascono e muoiono nella regione”. Molto precisa l’analisi delle strategie errate adottate sia da Abu Mazen, con il partito Fatah spina dorsale della Autorità nazionale, che dai leader di Hamas. Sconsolanti le conclusioni: “Il problema più grande per Abbas, come per Hamas che controlla la Striscia di Gaza, è l’abbandono dei palestinesi da parte della comunità internazionale, da parte degli occidentali come degli arabi. Soltanto invertendo questa tendenza i palestinesi avranno ancora la speranza di costruirsi un futuro di libertà. E dovranno avere una leadership unita, e definire una piattaforma politica nazionale accettata da tutte le loro forme ed espressioni politi- che, che non escluda i profughi”.

Alessia De Luca, analista dell’”Istituto per gli studi di politica internazionale” (novembre 2019), cerca di chiarire come mai gli Stati Uniti, con una decisione che rimette in discussione 40 anni di politica estera americana, si siano spinti a considerare legittimi gli insediamenti israeliani in Cisgiordania: “Considerati illegali dall’Onu, dalla Corte Internazionale di Giustizia e dalla Quarta convenzione di Ginevra, gli insediamenti sono uno dei temi più dibattuti del conflitto in Medio Oriente e uno dei principali ostacoli alla pace tra Israeliani e Palestinesi”. Dopo aver chiarito come e quando sono nate le colonie israeliane, la spiegazione che viene prospettata riguarda più le situazioni interne a Israele e USA, piuttosto che il contesto internazionale. Benjamin Netanyahu che in campagna elettorale aveva avanzato l’ipotesi di annettere le colonie allo Stato di Israele, deve rispondere al proprio elettorato della destra nazionalista, mentre Donald Trump tenta di conquistarsi il voto di una fetta consistente dell’elettorato conservatore americano.

Anche Dov Waxman (professore inglese di studi israeliani e autore di numerosi libri sul conflitto tra israeliani e palestinesi) in un articolo tradotto dal settimanale “Internazionale” (novembre 2019) risponde da studioso a quattro domande che riguardano sempre il tema scottante degli insediamenti. Perché il possesso dei territori in Cisgiordania è così contestato, perché i palestinesi si oppongono agli insediamenti israeliani, perché gli israeliani vogliono vivere in Cisgiordania, infine se gli insedia- menti israeliani sono legali o illegali. Anche in que- sto caso il giudizio è netto: “La maggior parte degli esperti e le Nazioni Unite ritengono che gli insedia- menti israeliani in Cisgiordania siano una violazione del diritto internazionale”.

UNA STORIA MOLTO CONTROVERSA

La storia della Palestina nel Novecento, inesorabilmente legata a quella degli ebrei prima e di Israele dopo, è di difficile interpretazione in quanto continuamente protesa sul terreno dell’uso pubblico della storia, in modo che le diverse comunità vi si possano identificare. Fiumi di inchiostro sono stati spesi per raccontare e spiegare, per perorare la causa dell’una o dell’altra parte, senza grandi risultati sul piano storiografico, se non quello di ridurre la storiografia avversaria a semplice falsificazione o revisionismo storico.

Alle due storiografie nazionali palestinese e israeliana, ovviamente contrapposte, si sono aggiunte quelle degli storici di varia nazionalità: dall’Europa agli Stati Uniti. Ognuna con i propri paradigmi, spesso compromessi da posizioni ideologiche e politiche molto condizionanti. Se poi il quadro si allarga ai vari conflitti arabo-israeliani, o ancora alla situazione dell’intero Medio Oriente, la bibliografia, con il passare dei decenni, non solo è diventa sterminata dal punto di vista quantitativo, ma soprattutto si presenta di difficile classificazione persino per gli specialisti.

I libri da noi selezionati hanno prevalentemente un taglio storico, si soffermano soprattutto sulla storia del Novecento, solo in parte sconfinano nella cronaca giornalistica, tentano di uscire dalla storia solo politica per cercare qualche riferimento anche a considerazioni che riguardano la società.

L’esempio più evidente riguarda la narrazione della cosiddetta prima guerra arabo-israeliana e della sua principale conseguenza per i palestinesi: la nascita del problema dei rifugiati. Gli eventi di quel frangente furono subito definiti con il termine arabo Nakba, «catastrofe»: l’espulsione di 750.000 persone e la distruzione di centinaia di villaggi nel territorio del nascente Stato di Israele (1948).

Solo la lettura di quegli eventi ha dato il via ad una quantità notevolissima di studi tra loro molto diversi persino all’interno della stessa corrente cosiddetta dei «nuovi storici» di Israele che, a partire dagli anni ottanta del Novecento, ha messo in discussione numerosi aspetti della narrazione nazionale sionista. Ancora in questi ultimi mesi uno storico israeliano, di nome Adam Raz, ha pubblicato uno studio, per il momento edito solo in ebraico, in cui raccoglie in un unico testo ogni informazione disponibile sui saccheggi di proprietà arabe da parte degli ebrei durante la guerra di indipendenza israeliana: persino David Ben-Gurion, capo del governo provvisorio del tempo, espresse una pesantissima critica sul modo in cui si era comportato il suo popolo.

Sono stati i “nuovi storici” di Israele, tra cui vale la pena di ricordare, Benny Morris, Avi Shlaim e Tom Segev, ad aver posto l’accento soprattutto sulla deliberata espulsione dei palestinesi dalle terre conquistate. Lo storico israeliano che ha portato alle estreme conseguenze questo approccio si chiama Ilan Pappe: i suoi numerosi volumi sono al primo posto nella nostra breve bibliografia. Il suo volume più importante si intitola “Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli, Einaudi, Torino, 2005/2014”. La lunga recensione dello sto- rico Vittorio Cuoco (“Rivista storica”, Viella) chiarisce molti degli aspetti di questa fondamentale ricerca e va letta nella sua interezza: infatti nella prima parte chiarisce il contenuto del libro di Pappe e nella seconda si sofferma sulle questioni storiografiche. Mentre Benny Morris lo storico che per primo ha sollevato la questione, predilige una linea più moderata e nell’aggiornare i propri lavori ha modificato notevolmente le proprie posizioni, Pappe arriva a sostenere che Israele ha attuato una vera e propria pulizia etnica contro i palestinesi costringendoli a fuggire. Il merito di Pappe resta quello di aver usato anche fonti palestinesi e di aver coinvolto nel dibattito internazionale storici palestinesi, come Jamil Hilal, con cui ha prodotto il saggio “Parlare con il nemico. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto”.

Ian Black non è uno storico, ma un giornalista britannico responsabile delle pagine dedicate al Medio Oriente del quotidiano “The Guardian”. Il suo libro, “Nemici e vicini. Arabi ed ebrei in Palestina e Israele” ricostruisce le vicende del conflitto tra arabi e israeliani e il pregio maggiore forse consiste nel soffermarsi a lungo “sugli accordi di Oslo, che ricostruisce in modo molto equilibrato, a partire dalla volontà di dare un giudizio più storica- mente attendibile su Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano dal 1992 al 1995, allorché venne assassinato da un terrorista ebreo”. Raja Shehadeh invece è un avvocato palestinese e il suo libro si intitola “Dove sta il limite. Attraversare i confini della Palestina occupata”. Come sostiene il recensore Arturo Marzano (insegnante di storia del Vicino Oriente) sulla rivista “L’indice”: “Il libro, molto interessante, ricco di aneddoti ed equilibrato, ripercorre la storia del conflitto israelo-palestinese attraverso i cambiamenti fisici e demografici che la Cisgiordania ha subito a seguito dell’occupazione israeliana a partire dai primi anni settanta”.

Ancora agli anni settanta fa riferimento il volume di Ahron Bregman (affermato studioso di origine israeliane che insegna presso il King’s College di Lon- dra): “La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei territori occupati”. Il punto di partenza è quello della “Guerra dei sei giorni” (giugno 1967), ma la caratteristica del libro è quella di soffermarsi sulle conseguenze di lungo termine e i problemi politici, economici, militari, diplomatici, morali, scaturiti dalla occupazione dei territori. Non un libro sulla guerra quindi, ma sul dopoguerra.

Dal sito della rivista “Pandora” riportiamo la recensione di un classico della storiografia sulla storia del Medio Oriente, punto di riferimento per generazioni di studenti e studiosi: “Storia del medio oriente contemporaneo”. L’autore il professor Massimo Campanini, prematuramente scomparso da poco tempo, è considerato tra i massimi studiosi italiani dell’Islam in tutte le sue dimensioni: quella storica, filologica, filosofica, quella politica legata agli interrogativi sulla democrazia nel mondo musulmano di oggi. Con le parole del giovane recensore Francesco Saverio Schiavi: “Il libro è principalmente destinato a svolgere il ruolo di testo introduttivo per gli studenti di storia politica mediorientale, sebbene la sua linearità e la sua semplicità ne rendano possibile la comprensione anche ad un pubblico non direttamente coinvolto in tali studi. La forza di questo lavoro, infatti, risiede nella sua capacità di offrire un’analisi generosa di un insieme complesso, ma intimamente intrecciato, di soggetti che uniscono aspetti culturali, sociali, economici e politici delle trasformazioni del Medio Oriente in una prospettiva storica ampia e che si presenta ben scritta e facile da cogliere”.

Ancora due studiosi italiani per gli ultimi due saggi. Marco Allegra con il suo “Palestinesi. Storia e identità di un popolo”, affronta la storia del popolo palestinese dalla fine dell’800 ai nostri giorni.

Arturo Marzano invece si sofferma sulle vicende e le opzioni culturali dei diversi sionismi e di conseguenza dello stato di Israele incrociando la storia delle idee con la storia contemporanea: “Storia dei sionismi. Lo stato degli ebrei da Herzl a oggi”. Argomento oggetto di molte pubblicazioni e di numerosi fraintendimenti. Con il trascorrere del tempo si passa da un sistema governato da partiti espressione del sionismo politico di matrice socialista e liberale, al “neosionismo” della destra israeliana quasi sempre al potere nel corso degli ultimi 40 anni, fino a giungere ai numerosi governi Netanyahu, sempre più legati alla destra estrema razzista e nazionalista.

La sezione si conclude con una ampia bibliografia per eventuali approfondimenti. Nel campo storico sono da segnalare le ricerche di studiosi del calibro di Claudio Vercelli e Giovanni Codovini. Per la saggistica i lavori di Enrico Bartolomei, Diana Carmi- nati e Alfredo Tradarti tutti pubblicati dalla meritoria casa editrice romana “DeriveApprodi”; per la casa editrice Allegre invece i libri di Chiara Cruciati e Michele Giorgio.

I COMMENTI:

OPINIONI A CONFRONTO

Difficile selezionare opinioni e commenti al termine di questa nostra lunga carrellata: per la grande quantità di materiale disponibile, ma ancora di più perché sulle vicende degli ultimi anni e mesi si confrontano un arco di opinioni molto diversificate. Gli articoli riportati hanno quindi un valore puramente simbolico. Sono di giornalisti italiani e stranieri, palestinesi o israeliani, che hanno da sempre a cuore la “causa palestinese”; scrivono su quotidiani, settimanali, periodici, siti web che si mantengono su una linea di corretta informazione, ma anche di aperta denuncia delle condotte più efferate come quelle che avvengono nelle carceri israeliane.

A titolo di esempio fra i tanti citiamo: Michele Giorgio, Chiara Cruciati, Alberto Negri per “il Manifesto”; Bernardo Valli storico corrispondente del settimanale “L’Espresso” e “la Repubblica”; Pierre Haski e Gwynne Dyer per il settimanale “Internazionale”; Gideon Levy e Noa Landau coraggiosi giornalisti israeliani del quotidiano “Haaretz”. Dopo la scomparsa di Amos Oz restano in campo, per i lettori italiani, i due scrittori israeliani più conosciuti a livello internazionale: David Grossman e Abraham B. Yehoshua. Da sempre schierati, con molti loro colleghi, non solo su posizioni pacifiste e favorevoli ad azioni tese al raggiungimento di accordi, ma anche di aperta denuncia della politica nazionalista e razzista dei vari governi di Banjamin Netanyahu. Di Yehoshua riportiamo un inascoltato appello alle istituzioni europee al fine di prendere una decisa posizione contro il “Piano del secolo” della amministrazione Trump.

FINALE

Nel 1977 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 29 novembre “Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese” (Risoluzione 32/40 B). La data era stata scelta per il suo valore simbolico: il 29 novembre del 1947 l’Assemblea aveva approvato la Risoluzione 181 che prevedeva il Piano di partizione della Palestina; la creazione cioè di due stati indipendenti, uno arabo e uno ebraico e l’istituzione di un regime internazionale speciale per la città di Gerusalemme. Sempre l’ONU il 29 novembre del 2012 ha riconosciuto la Palestina come “Stato membro osservatore dell’Assemblea” delle Nazioni Unite. La risoluzione è stata approvata con 138 voti favorevoli su 193. Solo 9 i paesi contrari, 41 gli astenuti: l’Italia ha votato a favore e tra i paesi che hanno votato no alla risoluzione ci sono gli Stati Uniti.

Non a caso abbiamo scelto la data del 29 novembre 2020 per presentare le nostre iniziative. Nonostante le molte incognite e le poche certezze, di sicuro la “causa palestinese” esisterà comunque, perché esiste il popolo palestinese e il suo diritto all’autodeterminazione non potrà essere soffocato all’infinito. Il compito di una associazione come l’Anpi è quello di mantenere viva la memoria delle vicende passate e denunciare i gravissimi processi in atto; la sezione di Vicenza inoltre fa parte del Comitato cittadino di solidarietà verso i prigionieri politici palestinesi e da alcuni mesi ha provveduto ad una adozione di un bambino di Gaza.

Purtroppo il popolo palestinese non è il solo a vivere la condizione in cui i diritti umani elementari vengono quotidianamente messi in discussione: basti pensare ad esempio alle vicende legate alla popolazione curda. Oppure alle tante minoranze che vivono sulla propria pelle repressioni e discriminazioni che spesso rasentano la pulizia etnica e talvolta situazioni genocidarie: dai “Rohingya” in Birmania agli “Uiguri” dello Xinjiang nella Cina occidentale, dagli “Yazidi” sparsi tra Siria, Iran e Iraq, alla minoranza musulmana in India o quella Rom in Ucraina e Romania, dalla popolazione saharawi nel Sahara Occidentale a quella tibetana, senza dimenticare nativi, indigeni e aborigeni di tutte le latitudini.

Per questo concludiamo con una poesia di Mahmoud Darwish (1941-2008): “massima espressione della cultura e della identità dei palestinesi”. Non solo le poesie, ma tutta la sua vita e le scelte politiche hanno fatto dello schivo Darwish, il poeta della «resistenza», ma soprattutto un poeta dell’«esistenza» di un intero popolo. Amato da tutta la popolazione dall’intellettuale al più semplice dei lavoratori, nei Territori occupati e in esilio, da uomini e donne, da anziani e ragazzi. Nato a Birwah (Galilea) nel 1941, Darwish all’età di sette anni, nel 1948, visse la tragedia della dispersione del suo popolo e finì in Libano. Ha vissuto come profugo in Unione Sovietica, in Egitto, Giordania, Cipro e, infine, in Francia; negli ultimi 14 anni a Ramallah. “Profugo” si intitola la poesia che nella durezza del lessico, lascia un flebile filo di speranza.

Hanno incatenato la sua bocca
e legato le sue mani alla pietra dei morti.
Hanno detto: “Assassino!”,
gli hanno tolto il cibo, le vesti, le bandiere
e lo hanno gettato nella cella dei morti.

Hanno detto: “Ladro!”,
lo hanno rifiutato in tutti i porti,
hanno portato via il suo piccolo amore,
poi hanno detto: “Profugo!”.
Tu che hai piedi e mani insanguinati,
la notte è effi- mera,
né gli anelli delle catene sono indistruttibili,
perché i chicchi della mia spiga che va seccando.