Resistenza Oggi n. 5 – America: gli Stati Uniti di una volta e di oggi (settembre 2020)

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Percorsi alternativi “nelle vene” dell’America

A cura di Michele Zanna,
con la collaborazione di Ivan Cenzi per il percorso sulla poesia

L’espressione “nelle vene dell’ America” è utilizzata dal poeta William Carlos Williams in riferimento al suo poema “Paterson”. Abbiamo voluto inserire anche un breve percorso sulla poesia americana del Novecento in questo nostro lungo dossier dedicato solo in parte alle prossime elezioni presidenziali del 3 Novembre 2020 negli Usa. La poesia insieme al cinema: perché “Paterson” è anche il titolo di un film molto ispirato del regista Jim Jarmusch del 2016. Inoltre il nome di questa città dello stato di New York, da considerare come un simbolo, ritorna anche nella letteratura, nella musica e nella fotografia, altri tre linguaggi che abbiamo voluto riprendere nel nostro approfondimento sugli “Stati Uniti di una volta e di oggi”.

E dopo la cultura cosa resta per la politica? Resta in primo luogo l’ancoraggio ai libri, come è nostra abitudine: compito ineludibile di questi nostri dossier resta quello di fornire materiali di qualità con la finalità di suscitare riflessioni personali e confronti collettivi. Il primo capitoletto è dedicato alla saggistica, mentre l’ultimo, forse il più impegnativo, ai libri di storia. Sono articoli lunghi o saggi brevi i testi riportati nella sezione dedicata ai commenti e alle opinioni; infine un piccolo spazio, attraverso il linguaggio dei reportage,

per quella parte della società americana che vive ai margini delle grandi metropoli: l’altra America, impensabile per noi europei.

Sempre abbiamo dovuto procedere a scelte drastiche per motivi di spazio, in tutti i casi abbiamo evitato toni esplicitamente antiamericani, come del resto quelli filoamericani, troppo spesso espressione di quella cultura neoconservatrice tesa a legittimare ogni scelta politica statunitense. Ma per ciò che è avvenuto in questo paese, in passato come anche solo negli ultimi anni, non avrebbe senso pensare ad una neutralità impossibile: basta dare solo uno sguardo ai libri, agli articoli, alle fotografie scelte per rendersene conto. Il tentativo è stato quello di andare alla ricerca di quella America alternativa di cui si parla poco e che abbiamo voluto considerare la vera anima di questo grande e per tanti versi difficile paese.

SUL PRIMA E SUL DOPO TRUMP: LA SAGGISTICA

L’immagine di Donald Trump che pubblicizza fagioli, di seguito riportata (a pag. 21), seduto alla sua scrivania (la scrivania del presidente degli Stati Uniti) ha qualcosa di inquietante. Non a caso negli ultimi mesi ci sono stati almeno tre libri, pubblicati in America ma non ancora tradotti in Italia, che hanno dimostrato, senza ombra di dubbio, la personalità controversa di questo personaggio: in nessun caso è riuscito il tentativo di impedirne la pubblicazione.

Il primo si intitola “Too much and never enough” (“Troppo e mai abbastanza”): si tratta del saggio di una delle nipoti del tycoon newyorkese, Mary L. Trump, che è riuscito ad arrivare al pubblico americano all’inizio di luglio. Una specie di analisi psicanalitica: il 45° presidente degli Stati Uniti è definito senza mezzi termini “narcisista”. Avrebbe sofferto parecchio da piccolo e le sue emozioni sarebbero rimaste quelle di un bambino di tre anni sempre in cerca di conferme, un tempo da parte del padre e oggi da parte di personaggi come Vladimir Putin e Kim Jong-un.

Il secondo lo ha scritto il suo ex Consigliere per la Sicurezza nazionale: John Bolton, considerato un conservatore a tutto tondo dagli esperti americani; è durato in carica solo 453 giorni. Il suo “The room where it happened” (“La stanza in cui accadde tutto”) consiste in una resa dei conti in grande stile: Bolton descrive un presidente impreparato, irascibile, volubile, privo dei requisiti per il suo mandato sotto ogni profilo.

Il terzo libro è di Lawrence Douglas, professore di diritto dell’Amherst College, in Massachusetts, specializzato in risposte legali a crimini di stato. Il suo ultimo libro, appena pubblicato, s’intitola “Will He Go? Trump and the Looming Election Meltdown in 2020” (“Se ne andrà? Trump e l’imminente tracollo elettorale del 2020”). Le manovre di Trump sul voto per posta e non poche dichia- razioni degli ultimi tempi su eventuali risultati sul filo di lana, lasciano più di qualche dubbio sul fatto che l’attuale presidente riconosca il giorno dopo le elezioni la eventuale, per nulla scontata nonostante i sondaggi diano per favorito Joe Biden, sconfitta.

Ma per comprendere le elezioni del 3 Novembre 2020 non è sufficiente soffermarsi sulla figura di una presidenza così anomala come quella di Trump: la sua elezione è il frutto di processi che possono essere compresi solo an- dando più indietro nel tempo, ma soprattutto scavando nel profondo della società americana.

Dei sei saggi da noi prescelti, su una bibliografia veramente imponente, quattro sono di autori italiani, di orientamento politico, ma soprattutto di competenze professionali tra loro diverse. Due invece gli autori stranieri.

Mario Del Pero è uno storico e nel suo saggio (“Era O- bama. Dalla speranza del cambiamento alla elezione di Trump”, 2017) si sofferma a lungo sugli otto anni (2008/2016) della presidenza di Barack Hussein Obama. Racconta la campagna elettorale, le scelte in politica interna e in politica estera, le varie tornate elettorali che ha dovuto affrontare: resta come dato ineludibile uno “scarto tra il lirismo del discorso di Obama e il cauto realismo della sua azione politica”. E’ difficile dire se la sua epoca è già terminata con la elezione di Trump, oppure se alcune delle sue scelte (la risposta alla crisi finanziaria, il salvataggio del mondo bancario, il piano di investimenti pubblici e la riforma del sistema sanitario) potranno essere meglio riprese e sviluppate nei prossimi anni.

Di Trump resteranno memorabili, in senso negativo naturalmente, le conferenze stampa alla Casa Bianca e i tweet presidenziali dedicati praticamente ad ogni argo- mento: dai più faceti ai più seri come quelli relativi alla pandemia. Di certo ha sconvolto i canoni della comunicazione politica, mettendo in atto un uso disinvolto della retorica spesso del tutto scollegata dalla verità. Il tema, solo apparentemente secondario, viene affrontato nel secondo saggio “La lingua di Trump”, (Einaudi, 2019) della traduttrice Bérengère Viennot: il tycoon newyor- kese dà l’impressione di capire tutto, grazie a un vocabolario semplicissimo, anche se in realtà, i suoi discorsi sono spesso incompleti e privi di un senso preciso.

Francesco Costa invece è un giornalista: vicedirettore del quotidiano online “il Post”. Nel suo recente libro (“Questa è l’America”, 2020) da grande esperto racconta in ogni capitolo un aspetto diverso della vita politica e sociale americana, quasi sempre con un taglio anticonformista: dal sistema sanitario al problema dell’uso delle armi, dall’uso sconsiderato di farmaci alle vere e proprie dipendenze, dalla povertà estrema all’ accumulo dei grandi patrimoni.

Sulla attuale fisionomia socioeconomica di un paese diseguale come mai nella sua storia, si sofferma il libro di un altro esperto di storia americana: Bruno Cartosio. Nel recentissimo “Dollari e no. Gli USA dopo la fine del secolo americano” (Derive e Approdi, 2020) approfondisce soprattutto le problematiche relative alle diseguaglianze sociali e il tema del razzismo. “La lettura del libro offre dati, spiegazioni, narrazioni focalizzate sui drammi delle città del disagio e sulle illusioni di quelle “creative”. E connette direttamente, tornando a Trump, la disuguaglianza e la crisi politica”.

Il quinto libro è di Massimo Teodori, storico e saggista: il più moderato tra i nostri esperti e grande estimatore del sistema politico americano. Ciononostante nel suo “Il genio americano” (Rubettino, 2020) è netta la presa di posizione per i democratici. Il suo è più che altro un racconto del “prodigio” delle elezioni presidenziali americane «che si sono ripetute senza alcuna interruzione, né per le guerre, né per le catastrofi naturali, né per le crisi sociali, economiche e politiche»: in altre parole un inno ai valori migliori degli Stati Uniti d’America.

Gli autori dell’ultimo saggio della nostra rassegna sono due giornalisti del «Washington Post» ed entrambi pre- mi Pulitzer: Philip Rucker e Carol Leonnig. Parlano del loro libro, (“Una presidenza come nessun’altra. Come Donald Trump sta mettendo in crisi l’America, 2020”) in una bella intervista al corrispondete del quotidiano “la Repubblica”: Federico Rampini. L’aspetto più interessante non è tanto il racconto dello stile di governo o la dinamica delle sue decisioni, ma forse le numerosissime testimonianze di chi in questi anni ha collaborato con lui. “Collaborazionisti” li definirebbe la storica Anne Applebaum in un durissimo articolo apparso sull’Atlantic (tradotto sul sito di Internazionale il 21 luglio 2020): “il presidente si è circondato di ministri e collaboratori che non si preoccupano degli elettori, ma solo delle necessità psicologiche del presidente, dei suoi amici a Wall Street e nel mondo delle imprese e, naturalmente, della sua famiglia”. In fondo questa presidenza come nessun’altra in questo consiste: nella difesa dei propri interessi o di quelli di una ristretta cerchia di beneficiari, senza un briciolo di empatia verso ceti e figure sociali che vivono ai margini del benessere americano.

L’AMERICA RACCONTATA DALLA LETTERATURA

Solo quattro autori e un pugno di libri a rappresentare la grande letteratura americana. Nessuno dei grandi nomi fra i classici dell’Ottocento: Louisa May Alcott, Henry James, Jack London, Herman Melville, Edgar Allan Poe, Mark Twain, ma nemmeno uno dei grandissimi del No- vecento. Possiamo solo ricordare, come in un gioco, qualche titolo di quelli che probabilmente risveglieranno qualche ricordo scolastico, oppure una certa memoria cinematografica viste le numerosissime trasposizioni. Il richiamo della foresta (1903) di Jack London; Il Grande Gatsby (1925) di Francis Scott Fitzgerald; Chiamalo sonno (1934) di Henry Roth; I 49 racconti (1938) di Ernest Hemingway; Chiedi alla polvere (1939) di John Fante; Furore (1939) di John Steinbeck; Sulla strada (1951) di Jack Kerouac; Il giovane Holden (1951) di Salinger; Lolita (1955) di Vladimir Nabokov; Fahren- heit 451 (1953) di Ray Bradbury; Pasto nudo (1959) di William S. Burroughs; Il buio oltre la siepe (1960) di Harper Lee; Mattatoio n. 5 (1969) di Kurt Vonnegut jr.; Comma 22 (1961) di Joseph Heller; Qualcuno volò sul nido del cuculo (1962) di Ken Kesey; A sangue freddo (1965) di Truman Capote e tanti altri dei decenni della seconda metà del Novecento, anche se meno noti.

I pochi romanzi da noi scelti corrono il rischio di scomparire se messi a confronto con un tale fuoco di fila, ma l’invito è quello di provare comunque a leggere qualcu- na di queste storie molto diverse, ma accomunate dal tentativo di raccontare l’America.

Valeria Luiselli è una scrittrice di origine messicana e scrive un lungo racconto, “Archivio dei bambini perduti”, su una coppia in crisi che compie un lungo viaggio in macchina da New York fino in Arizona, “secondo un classico itinerario di una road movie”. Le due recensioni pubblicate sulla rivista “L’indice dei libri del mese”, sono entrambe di Vittoria Martinetto, insegnante di letteratura latinoamericana all’Università di Torino. Tutti i libri pubblicati dalla Luiselli sono tradotti in italiano, compresi i saggi. Uno di questi, “Dimmi come va a fini- re”, prende in considerazione il tema dei minori centroamericani che ogni anno tentano di entrare illegalmente in USA attraverso la frontiera messicana. Molto interessante anche la recente intervista rilasciata dalla scrittrice al sito di “fanpage.it”.

Molto diversa la biografia e la scrittura di Joan Didion: americana a tutto tondo e vincitrice di molti premi letterari. Nel 1988 segue la campagna presidenziale e pubblica i suoi reportage sulle pagine della New York Review of Books. Il suo “Finzioni politiche”, da poco pubblicato in italiano e recensito da Michela Marzano, viene pubblicato dopo gli attentati dell’11 settembre 2001: “oltre alle elezioni del 1988, sono raccontati alcuni episodi centrali della politica americana degli ultimi vent’anni del Novecento”. La stessa Michela Marzano aveva nel 2019 recensito, sempre sulle pagine culturali del quotidiano “la Repubblica”, l’altro volume: “A Sud e a Ovest. Pagine di un diario” in cui la Didion racconta l’America profonda e le sue contraddizioni. Una scrittrice da scoprire o riscoprire.

Sono romanzi nel senso pieno del termine quelli di Da- vid Leavitt, “Il decoro” e Philipp Meyer, “Il figlio”. Il primo è ambientato tra i “liberal” intellettuali e ricchi, subito dopo la elezione di Trump, il secondo ha tre protagonisti, di generazioni diverse, che si muovono in un Texas che sembra senza tempo. Non sono il grande romanzo americano, ma storie che si lasciano leggere e ci insegnano qualcosa su una America difficile da conoscere in prima persona, ma che si può solo immaginare.

ROBERTO MINERVINI E GLI ALTRI CINEASTI

A Steven Soderbergh, regista 57enne mainstream (da “Sesso, bugie e videotape” del 1989 a “Panama Papers” del 2019, passando per il visionario e preveggente “Contagion” del 2011), la Director’s Guild of America (la corporazione dei registi di cinema e tv Usa) ha affidato la guida della task force incaricata di esplorare una possibile soluzione per la ripresa delle produzioni bloccate dalla pandemia. In una recente intervista concessa alla giornalista Silvia Bizio del quotidiano “la Repubblica” (28 luglio 2020), il nostro affermato autore alla domanda di come cambierà il cinema americano del post Covid risponde in questi termini: «La pandemia ha equilibrato le parti in campo, nel senso che il cinema indipendente e a basso-medio costo non è più in pericolo di estinzione come si temeva fino a quattro mesi fa. Il pericolo che un film indipendente venga soppiantato da un filmone dal budget colossale che debutta su 5 mila sale, che oramai sono otto su dieci film-fumetto, della Marvel-Disney soprattutto, è sventato, perché nessun film potrà uscire in 5 mila sale per un bel pezzo. E forse quando quelle 5 mila sale saranno di nuovo disponibili i criteri di distribuzione e gusti del pubblico saranno cambiati. Stiamo tornando a Robert Altman, Hal Ashby, John Cassavetes, Sidney Pollack, autori indipendenti che venivano sostenuti dagli studios. Così spero».

Nutriamo la stessa speranza naturalmente: per questo motivo abbiamo scelto un regista come Roberto Minervini da mettere sotto la lente di ingrandimento con i suoi due ultimi lungometraggi e dieci film che ci sono particolarmente cari, nell’immensa produzione statunitense, perché in modi diversi entrano “nelle vene” del modo di essere americano.

Roberto Minervini nasce a Fermo nel 1970 e si muove tra Italia e Stati Uniti, senza disdegnare esperienze di insegnamento in diversi paesi. Dopo i primi tre film della cosiddetta “trilogia texana” (“The passage” del 2011; “Bassa marea” del 2012, “Ferma il tuo cuore in affanno” del 2013), Minervini gira i due lungometraggi che lo fanno conoscere e apprezzare fra chi ama il cinema amatoriale: “Louisiana” del 2015 e “Che fare quando il mondo è in fiamme?” del 2018.

Quest’ultimo documentario racconta la vita dal basso di una comunità afroamericana, anticipando il forte conflitto sociale e razziale che negli Stati Uniti è presente da molto prima dell’omicidio di George Floyd (25 maggio 2020). Il regista passa mesi con la comunità con la quale intende interagire e se ne guadagna la fiducia vivendo le stesse poche gioie e gli stessi molti dolori. In questo modo, dopo aver girato moltissime ore di filmato, riesce a montare storie che sconfinano audacemente tra documentario e finzione, con una macchina da presa che di solito sta addosso alle persone “nello sguardo sul reale sempre così diretto e sfrontato, eppure, paradossalmente, empatico, delicato e a volte quasi imbarazzato per l’intimità che gli si offre tanto gratuitamente”. In questo modo a noi spettatori viene concesso di entrare in altre vite e sopratutto in altri luoghi.

Di seguito riportiamo una recente intervista al regista (dal sito “Hotcorn.Com” del 4 giugno 2020) e una recensione di Marina Nadotti tratta dal sito “doppiozero.com”. Completamente diverso il panorama dell’ altro documentario: “Louisiana” parla di quelle comunità bianche che vivono ai margini della società americana. Veterani in disarmo che non hanno perso il vizio delle armi e sono in guerra perenne contro tutto e tutti, adolescenti introversi e isolati, drogati disperati ma non ancora vinti, giovani donne e future mamme, anziani che vivono isolati.

Una umanità spesso dolente che è possibile ritrovare nei dieci film selezionati e che dovrebbero rappresentare le varie anime dell’America. E’ una storia tutta da vedere quella del vecchio e testardo Woody Grant (“Nebraska”, 2014) che a piedi intraprende un viaggio dal Montana al Nebraska; mentre il giovane Paterson vive felicemente la sua appartenenza e il suo radicamento (“Paterson”, 2016): autista di pullman e poeta dilettante scrive i suoi versi nella cittadina di Paterson in New Jersey.

Storie di giovani vite come quella di Charlie (“Charley Thompson”, 2017): un adolescente che non ha mai conosciuto sua madre e che vive con il padre a Portland; sempre a Portland, nei pressi del parco nazionale dell’Oregon, si consuma il rapporto tra un padre veterano di guerra traumatizzato e la sua giovane figlia nell’esperienza di una vita ai margini della società (“Senza lasciare traccia”, 2018).

Storie di madri come la giovane Moonie (“Un sogno chiamato Florida”, 2018), che con i suoi due bambini vive di espedienti e precarietà in Florida, in una zona degradata ma tanto vicina ad uno dei più grandi parchi di divertimento: Disneyland; oppure quella della più matura, ostinata e caparbia Mildred Hayes (“Tre manifesti a Ebbins, Missouri”, 2018) che a tutti i costi vuole scoprire chi ha ucciso sua figlia a costo di sconvolgere la vita della sua piccola comunità.

Ma la forza del cinema d’autore americano si fa sentire con l’interpretazione di attori come Harry Dean Stanton quando recita se stesso (“Lucky”, 2018) nella parte di un novantenne che affronta la vita tra ironia e paura. Oppure con Brady Jandreau giovane attore non professionista e cowboy Lakota, che vive nella riserva di Pine Ridge nel South Dakota (“The rider: il sogno di un cowboy“ 2019), addestrando e montando cavalli nei rodei: per una brutta caduta tutta la sua vita sarà sconvolta.

Agli antipodi invece gli ultimi due film: “Monrovia, Indiana” (2018), il documentario di Frederick Wiseman, esplora la vita quotidiana della cittadina di un Midwest rurale, mentre “Vice: l’uomo nell’ombra” (2019) ricostruisce la vita di Dick Cheney, collaboratore onnipresente di uno dei presidenti degli Usa più controversi: George W. Bush.

POESIE DEL NOVECENTO AMERICANO (di Ivan Cenzi)

Per capire la poesia americana del Novecento bisogna tenere a mente che gli Stati Uniti sono un paese giovane: Baudrillard definiva l’America, con un’ironia non priva di un po’ di spocchia europeista, «l’ultima civiltà primitiva». Di conseguenza anche la tradizione poetica, come la Nazione, va “inventata” a poco a poco; essa assume una personalità davvero definita soltanto nella seconda metà dell’Ottocento, con Walt Whitman e Emily Dickinson. Questi due giganti pongono, ognuno in modo differente, le basi per i caratteri generali della poetica statunitense del XX secolo: il verso libero, la ricerca di una “esplosione” della forma e del senso, l’interesse per la vita concreta della gente, l’elegia urbana, il riguardo e la simpatia per gli ultimi e i dimenticati dal Sogno Americano.

Ognuno degli innumerevoli poeti che verranno dopo di loro declinerà a suo modo, secondo la propria sensibilità e cultura, il tentativo di affresco della nazione iniziato a fine Ottocento.

Semplificando, nella prima metà del secolo ci saranno gli sperimentalismi arditi ed eruditi di Ezra Pound e T. S. Eliot, le correnti moderniste (E. E. Cummings) e “imagiste” (Hilda Doolittle, William Carlos Williams), tutte a loro modo rivoluzionarie nel rifiuto della tradizione vittoriana di metrica e verso; dopo la Seconda Guerra, invece, sono i poeti della Beat Generation a dominare la scena letteraria. È questa seconda fase che, in maniera più o meno cosciente, risulta più marcatamente politica, anti-establishment, tanto che aprirà la strada per le controculture degli anni Sessanta.

L’influenza dei Beat sull’immaginario collettivo, e il cambio di prospettiva che introducono, rimane fondamentale. Contrapponendosi all’epica bellica, e cantando solo di “eroi perdenti”, che fanno della propria sconfitta un vessillo, i Beat divengono essi stessi figure mitologiche. Anime irrequiete e anticonformiste, spesso d’estrazione proletaria, decise a rovistare nel marcio per cercarvi l’illuminazione, cantori delle autostrade infinite, dei letti sfatti e delle caldaie arrugginite nei motel di bassa lega, dei cattivi caffè ingurgitati nelle stazioni di servizio notturne, di una vita sregolata a base di jazz, droghe e trascendenza. Beat come il ritmo della batteria pulsante; beat come “battuto, sconfitto”; beat come ani- ma alla ricerca della “beatitudine”.

È ovviamente impossibile rappresentare tutta la caleidoscopica e multiforme poesia americana del XX secolo in pochi versi; abbiamo selezionato cinque componimenti che riteniamo comunque emblematici per il loro valore storico, o per l’afflato contestatore e rivoluzionario che li pervade, o infine perché aprono uno scorcio su quella “epopea dei dimenticati” che ha avuto un peso notevole nella letteratura statunitense del secolo scorso.

UN PREMIO NOBEL IN MUSICA: BOB DYLAN

«Da quando, il 27 marzo scorso, Bob Dylan lo ha diffuso sul web, si moltiplicano le sapienti interpretazioni di “Murder most foul” (L’omicidio più vile), il recitativo di 17 minuti che Dylan ha dedicato all’assassinio di John Kennedy. Molto diverso dalle canzoni che gli hanno guadagnato il Nobel, questo è il poemone-polpettone di un artista “ormai” Nobel. E infatti da cinque mesi gira sempre meno nelle radio e sempre di più nelle accademie perché è la celebrazione del mito delle origini. Dylan torna agli Anni Sessanta come Garibaldi a Caprera, Wagner a Bayreuth …»

In questi termini, non tanto ironici quanto canzonatori, si esprimono i detrattori di Bob Dylan: noi lo abbiamo scelto, piaccia o no il Nobel, a simbolo della grande storia della musica americana. Forse più del cinema la musica è la forma di espressione artistica che più ha influenzato l’immaginario di noi europei, in particolare di noi italiani: dal Rock and roll al country, dal rhythm and blues al jazz, dal gospel al soul, dal punk al grunge, fino al hip hop e oltre. Impossibile solo farne un accenno: ci limitiamo a ricordare che la musica che ha conquistato il mondo non arriva dai piani alti della cultura americana, ma dagli schiavi, dal mondo del lavoro, dai carcerati, dalle minoranze, dai movimenti di protesta.

Di Bob Dylan riportiamo una rara intervista rilasciata al New York Times subito dopo la pubblicazione del suo trentanovesimo album: “Rough and rowdy ways”. Il disco è recensito da un critico di lunga data: Gino Castaldo sul quotidiano “la Repubblica”. Alessandro Carrera invece è considerato il massimo esperto della musica di Dylan che ci sia in Italia: riportiamo un suo articolo, apparso sul sito “doppiozero.com” (ottobre 2016) in cui lo studioso di cultura americana difende la scelta di conferire al cantautore il premio Nobel.

Di Alessandro Carrera ricordiamo il suo “La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America” (l’ultima edizione da Feltrinelli) e sempre sullo stesso sito i suoi interventi su Charles Bukowski, Lawrence Ferlinghetti, Leonard Cohen, Bruce Springsteen. Sempre sua la traduzione della canzone di Dylan richiamata precedentemente: “Murder most foul” In quel pezzo c’è un riferimento ad un immaginario vastissimo: Walt Whitman, Edgar Allan Poe, Anna Frank, Indiana Jones, i Rolling Stones, William Blake, Beethoven, Chopin, Al Pacino, Marlon Brando, Leon Russell, Liberace, San Giovanni, San Pietro, Freud, Marx, Martin Luther King, il Presidente William McKinley (anche lui assassinato), Ginsberg, Corso, Kerouac, Louis Armstrong e molti altri. Resta la dedica alla morte del Presidente John Kennedy, momento cruciale della storia americana del secondo dopoguerra: forse con questo episodio scendiamo nelle vene profonde di questo paese: «Fu un giorno nero a Dallas, novembre ’63,/ giorno d’infamia per l’eternità/ il Presidente Kennedy era sulla cresta dell’onda,/ un bel giorno per vivere, un bel giorno per morire./ Condotto al macello come un agnello da sacrificio,/ dice un momento ragazzi, voi sapete chi sono?/ Sicuro che lo sappiamo, sappiamo bene chi sei tu./ Era ancora in macchina quando la testa gliela fecero saltare./ Ammazzato come un cane alla luce del sole,/ questione di tempo, e il tempismo era perfetto».

LE FOTOGRAFIE DI PAUL FUSCO

Non molti anni dopo, era sabato 8 giugno del 1968, sia- mo ai funerali di Bob Kennedy, ammazzato due giorni prima alla fine di un comizio elettorale. Il fotoreporter americano, membro della Magnum, Paul Fusco, riesce a salire su quel treno che riporta la salma a Washington. Percorrerà più di trecento chilometri, otto lunghe ore e cinque stati da attraversare; Fusco fotografò gli americani che si avvicinavano al treno, si facevano il segno della croce e pregavano o piangevano: la vera anima dell’America profonda. Il fotogramma della famiglia con padre, madre e cinque figli in ordine di altezza la si può ritrovare su tutti i libri di storia.

Un intenso articolo di Michele Smargiassi (luglio 2020) ricorda Paul Fusco deceduto all’età di 90 anni; mentre Mario Calabresi, in un vecchio articolo del 2008, ricostruisce la rocambolesca storia di quei particolari scatti.

Come per il cinema e la musica, i reportage di Paul Fusco rappresentano una schiera di fotografi americani che hanno fatto scuola per tutto il Novecento: Steve Mccurry, Annie Leibovitz, Elliott Erwitt, Man Ray, per citarne solo alcuni e per non parlare dei tanti naturalizzati statunitensi come Robert Capa e tanti altri.

REPORTAGE TRA PAROLE E IMMAGINI

I giornalisti che scrivono reportage devono necessaria- mente perlomeno visitare, se non vivere, i luoghi che vogliono descrivere; poi hanno due linguaggi a loro disposizione: le parole e le fotografie. Per parlare dell’America profonda abbiamo fatto ricorso ai racconti, molto diversi tra loro, di alcuni bravi inviati.

Stella Levantani ci racconta (“il Manifesto”) dello stretto legame tra razzismo, scelte ambientali e vari tipi di inquinamento: tutto questo naturalmente vale per quelle comunità in cui vivono prevalentemente nativi, neri e ispanici; in due interessanti articoli Elena Molinari (“Avvenire”) ci permette di seguire gli americani che per scelta o per necessità decidono di vivere da nomadi nei camper o addirittura nelle auto.

Alberto Flores D’Arcais (“L’Espresso”) ci descrive alcuni luoghi, lontano dalle metropoli, che vivono una forte decadenza tra povertà e abbandono. Infine la bella rubrica “Portfolio”, presente in ogni numero della rivista “Internazionale”, ci porta nel deserto di Sonora in California grazie al fotografo Matt Stuart. Il tipico ambiente in cui possono convivere eccentriche comunità di americani e migranti messicani che spesso ci perdono la vita.

COMMENTI E OPINIONI A CONFRONTO

Per la sezione dei commenti abbiamo scelto cinque arti- coli fra la miriade usciti negli ultimi mesi: siamo nella sezione più politica del nostro bollettino, senza nessun ancoraggio a libri, dati, ricerche. Le opinioni espresse dai giornalisti da noi prescelti, possono essere condivise o meno, ma sono tutte ben argomentate: questo il criterio principale delle nostre scelte.

Il primo di Elena Zacchetti, opinionista di politica estera del quotidiano online “il Post”, del 1° di agosto 2020 si intitola: “Non ci sono più gli Stati Uniti di una volta”. La giornalista in cinque pagine riesce bene a riassumere non solo l’ultimo decennio di storia americana, citando gli avvenimenti più importanti, ma soprattutto ad evidenziare tutte le contraddizioni delle scelte politiche effettuate da Donald Trump. La sua tesi di fondo si può riassumere in questi termini: l’ultimo presidente Usa “ha accelerato un processo che era già in atto, iniziato diversi anni fa, cioè quello di un costante declino della posizione degli Stati Uniti nel sistema internazionale”.

Di lunghezza e capacità argomentativa simile il secondo articolo, del luglio 2020 pubblicato nel sito “doppiozero.com”, di Alessandro Carrera: “Covid e la fine del sogno americano”. L’autore parla della propria esperienza di professore universitario in America e definisce il proprio intervento uno sfogo. Descrive in primo luogo lo sgomento che prova nei confronti di una certa ingenuità degli americani, pronti a credere con troppa facilità a qualunque cosa e senza sottili distinzioni. In secondo luogo parla della meraviglia per la loro mancanza di furbizia: “Intelligenti, dedicati, tenaci, instancabili, sì. Ma furbi, ecco, quello no”. Queste osservazioni, apparentemente banali e generiche, servono al nostro cronista quando inizia a parlare di Covid per dimostrare che “sta accadendo questo: gli Stati Uniti vengono oggi sconfitti dal più stupido degli organismi, più stupido ancora del loro presidente, e si sono impegnati nel più grande esperimento di rimozione della realtà che si sia mai visto nella storia”. Sulla scia di esempi a metà strada fra antropologia e psicologia sociale le conclusioni sono sconfortanti: “Ma non posso neanche ignorare che, appunto, siamo di fronte a un esperimento epocale di disgregazione del concetto stesso di comunità, e la furberia di sopravvivenza, che è anticomunitaria per eccellenza, è ormai necessaria”.

Anche Francesca Coin si sofferma sul tema del Covid: “I negazionisti usano la pandemia per costruire un mondo più disuguale” (Internazionale). L’accusa, suffragata dall’altissimo numero dei contagiati e dei morti, al presidente americano è chiara: “Per molti versi tutta la sua gestione dell’epidemia è stata uno straordinario esempio di negazionismo, incentrata su due priorità: la necessità di minimizzare la gravità del virus e la volontà di mettere fine al lockdown il prima possibile”. Il tutto con il corollario che è diventato evidente con il passare delle settimane: “sapevano che la decisione di riaprire il paese e le fabbriche avrebbe colpito le persone appartenenti alle minoranze molto più dei bianchi”. Lapidarie le conclusioni: “Il negazionismo di Trump ha messo a nudo l’inconfessabile nostalgia suprematista che anima la decisione politica di ignorare le necessità di cura dei più fragili. Forse dovremmo cominciare a discutere dei negazionismi europei, prima che sia troppo tardi”.

Molto più semplici, e anche più brevi, gli ultimi due articoli. Quello di Martino Mazzonis (sul sito: “Treccani.it”) sui cambiamenti sociali negli Stati Uniti: il dato rilevante riguarda le dinamiche demografiche relative alle minoranze (neri, latinos, asiatici), rispetto alla, ancora per poco, maggioranza bianca. E l’intervento di Daniela Gross (sul sito: “doppiozero.com”) sull’uccisione di George Floyd e la nascita del movimento Black Lives Matter.

L’ALTRA AMERICA NEI LIBRI DI STORIA

Uno degli ultimi libri tradotti in italiano e che tentano di raccontarci la storia degli Stati Uniti è di una storica dell’università di Harvard dal nome indicativo: Jill Le- pore, autrice di “Queste verità. Una storia degli Stati Uniti d’America” (Rizzoli, Milano, 2020). In quasi mille pagine l’autrice ripercorre la lunga storia dai Padri fondatori fino ai giorni nostri mettendo in risalto, per ogni passaggio storico importante le grandi contraddizioni di una storia tante volte già raccontata: la nascita della nazione basata sulle idee di uguaglianza politica, diritti naturali e sovranità del popolo, lo schiavismo, la guerra civile, la segregazione, la nascita del partito Repubblicano e di quello Democratico, la Grande Crisi del 1929, il protagonismo nella seconda guerra mondiale e la conquista della leadership internazionale nel lungo secondo dopoguerra, ecc … Questo studio monumentale viene pubblicizzato come la prima grande storia degli Stati Uniti d’America per il XXI secolo.

In realtà negli otto anni di presidenza di Obama (2008/2016) la storiografia americana aveva già registrato un grande slancio: partita dalle università era di conseguenza approdata sulle pagine del giornalismo più colto. Una ricerca più che altro mirata su pochi temi della storia di quel paese: la nascita della nazione, la guerra civile con il suo lascito di schiavismo e segregazionismo, il decisivo contributo del New Deal di Roosevelt alla vittoria nella Seconda guerra mondiale. Una storiografia criticamente e scientificamente fondata, ma con una tendenza ad evidenziare un certo orgoglio, che non riesce a nascondere una sua vena di “nazionalismo”. Tutto questo a fronte di una ricerca europea piuttosto debole.

I cinque libri da noi selezionati vanno in una direzione del tutto diversa: tendono ad evidenziare le contraddizioni, le criticità, le incongruenze della storia americana, magari sottolineando aspetti ed episodi poco conosciuti.

Il primo libro è un vecchio classico del 1980: Howard Zinn, “Storia del popolo americano dal 1492 ad oggi”; nella sua bella recensione, apparsa recentemente sulla rivista Micromega, Alessandro Portelli lo definisce in questi termini: “Il libro di Howard Zinn è un imprescindibile controcanto contestativo alla storiografia del consenso e dell’eccezionalismo americano che ha dominato a lungo l’autonarrazione del paese”. Molti degli episodi raccontati dal nostro autore non è possibile leggerli in nessun altro libro.

Completamente diversa anche una delle ultime traduzioni della casa editrice Einaudi: “L’impero nascosto. Breve storia dei Grandi Stati Uniti”, di Daniel Immerwahr. Anche in questo caso ci viene in aiuto la recensione, apparsa sul sito doppiozero.com, di un altro specialista della materia: Bruno Cartosio. Gli americani non hanno mai amato dipingersi come un impero, ma l’intento dell’autore invece è proprio questo: raccontare “la storia degli Stati Uniti al di fuori degli Stati Uniti”, evidenziando le contraddizioni intrinseche a quello che definisce l’empire state of mind, l’ideologia imperiale del suo paese.

Anche con il libro di Eric Foner, “Storia degli Stati Uniti d’America. La libertà americana dalle origini ad oggi”, siamo di fronte a una riedizione di un libro edito per la prima volta diciotto anni fa, ma con una nuova introduzione. L’idea guida che l’autore insegue, sempre secondo Bruno Cartosio questa volta in una recensione apparsa sul quotidiano “il Manifesto”, è quella di libertà: “Non la libertà in astratto, dunque, ma il succedersi di «circostanze storiche specifiche» ognuna delle quali è stata attraversata da concezioni diverse di che cosa dovesse intendersi per «libertà», a chi e a quale componente sociale essa dovesse applicarsi in concreto”.

La storia degli Stati Uniti non è mai stata in Italia un tema di ricerca neutrale: “frutto dell’incontro tra ricerca e forti orientamenti valoriali, lo studio accademico della storia americana in Italia è stato particolarmente toccato e vivacizzato da quello che viene definito «uso pubblico della storia»” (Maurizio Vaudagna). Dopo tre generazioni di storici che si sono susseguite con il passare dei decenni, oggi la situazione sembra aver superato le for- che caudine del filo americanismo e dell’antiamericanismo: prevale un certo specialismo e la tendenza a privilegiare tematiche quali ad esempio i rapporti euro-americani e la storia delle donne.

Con il libro dell’americanista, ma anche specialista della questione razziale, Stefano Luconi (“La nazione indispensabile”, 2020) siamo nei dintorni di un buon manuale universitario, ma “scritto molto bene, accuratamente documentato, con una bibliografia ricca e aggiornata, e che risulterà di sicuro interesse anche per chi voglia approfondire la conoscenza degli Stati Uniti nell’anno delle elezioni presidenziali ” . L’autore considera il “particolarismo” la cifra più autentica della lezione americana: “un particolarismo che si traduce alternativamente – ma mai in maniera esclusiva o definitiva – ora in isolazionismo ora in interventismo nelle altrui vicende”.

L’autore dell’altro libro di uno studioso italiano (“La Rivoluzione americana”, 2018) si chiama Tiziano Bonazzi ed è più indicato per chi ama approfondire. A lungo si è discusso tra gli storici se la nascita degli Stati Uniti sia da considerare una vera rivoluzione come quella francese.

L’autore non condivide il cosiddetto “eccezionalismo americano”: quelle letture che vedono nell’ America un caso unico e inimitabile; piuttosto “ritiene necessario de-ideologizzare la storia della rivoluzione, abbandonando dunque lo storicismo progressista che vedeva nell’avvento degli Stati Uniti la realizzazione di un disegno teleologico di realizzazione della libertà”: è quindi necessaria un’opera di “demitizzazione”.

Per concludere meritano una citazione altri due storici italiani che spesso intervengono nel dibattito pubblico su quotidiani e riviste. Mario Del Pero, tra i principali americanisti italiani ed attualmente docente di Storia internazionale e Storia della politica estera degli Stati Uniti all’Institut d’études politiques SciencesPo a Parigi. Il suo libro più importante “Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il Mondo, 1776-2016” (Laterza, 2017) viene periodicamente ristampato con gli opportuni aggiornamenti. Molti suoi interventi sulla politica americana si possono leggere, anche in rete, sulla rivista “Italianieuropei”. Arnaldo Testi invece insegna presso il Dipartimento di Storia moderna e contemporanea Università degli Studi di Pisa ed è autore del “Il secolo degli Stati Uniti” (il Mulino, 2017). Anche questo volume viene costantemente aggiornato e l’autore anima un vivace blog con interessanti interventi (shortcutsamerica.com).

FINALINO IN TRE PASSAGGI

In questo nostro lungo percorso non hanno potuto trovare posto alcune importanti problematiche: il confronto sempre più serrato con la Cina e la nuova stagione della cosiddetta “Guerra fredda”; il ruolo dell’America come grande potenza militare, con le armi convenzionali e non sparse nelle basi di tutto il mondo, ma soprattutto con un controllo che non ha uguali dei mari; il ruolo ancora predominante del dollaro con la sua influenza ancora incontrastata sugli scenari della finanza internazionale; una presenza invadente di quella economia digitale, rappresentata dalle aziende della Silicon Valley, in grado di condizionare la vita di interi Stati come quella di milioni di individui. Nei primi sette mesi del 2020, le persone uccise dalla polizia sono 558; non meno di 113 sono gli uccisi a giugno e luglio, dopo l’assassinio di George Floyd. A fine agosto i casi di coronavirus hanno superato i 5 milioni e gli Stati Uniti guidano la classifica mondiale anche per numero di morti: oltre 180 mila. L’elenco potrebbe essere molto lungo.

In questi mesi abbiamo seguito con molta attenzione l’evoluzione delle vicende americane: lo abbiamo fatto utilizzando quotidiani, settimanali, ma anche l’informazione che ci proviene dalla rete. Siamo testardamente convinti che il giornalismo di qualità sia in grado davvero di informare, di raccontare piccole e grandi storie, di aiutarci a capire la complessità del mondo: merita dunque attenzione e supporto. Ci sembra giusto, elencando qualche nome, essere riconoscenti verso questa variegata e insostituibile galassia. Ricordiamo alcuni corrispondenti dagli USA: Federico Rampini per “la Repubblica”, Paolo Mastrorilli per “la Stampa”, Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera”, Giorgio Ferrari per “Avvenire”, Marina Catucci per “il Manifesto”.

Per la rete Daniela Gross del sito “doppiozero.com”, Maria Laura Rodotà per “Linkiesta.it”, Elena Zacchetti per “ilpost.it”, Gianluca Di Tommaso fondatore di “Night Review”, newsletter da cui è nata la casa “editrice NR” specializzata in saggistica americana.

La rivista settimanale e l’insostituibile sito di “Internazionale”, la sezione “Atlante” del sito “treccani.it”, con molti e qualificati articoli dedicati alle presidenziali USA 2020. Tutto il materiale dell’ ”Istituto di Politica Estera Internazionale” (ispionline.it), oppure di “Affari Internazionali” (affariinternazionali.it).

Come più volte in questi anni ha sostenuto Lucio Caracciolo, direttore della rivista “Limes”, per il momento solo l’America può uccidere se stessa: “Nell’America geograficamente, culturalmente e politicamente polarizzata come forse mai dopo la guerra civile, si disputa intorno a quale rotta intraprendere per conservare primato e way of life.” Speriamo che sia chiaro anche agli elettori americani quando il 3 novembre sceglieranno per la 59esima volta il loro presidente.

Quattro anni fa Trump si presentò all’elettorato con un messaggio,“Make America great again”, che conteneva la xenofobia, il nativismo e la volontà di punire le proteste delle minoranze, ma anche un approccio economico e sociale che rientrava nella tradizione del Partito repubblicano: meno tasse, meno regolamentazioni, meno ingerenze del governo federale, libertà totale nell’uso delle armi. Oggi, con l’economia nazionale in ginocchio, il presidente ha archiviato il suo vecchio armamentario: è rimasto il conflitto permanente con chi non sta dalla sua parte. Prevale lo slogan “legge e ordine”.

Alexandria Ocasio-Cortez è una senatrice che fa parte dell’ala ultra-liberal del partito democratico: 30 anni, del Bronx, origini portoricane; tre anni fa, prima di entrare in politica, lavorava come barista a New York e aveva alle spalle una storia familiare a dir poco complessa. Alla convention dei democratici le hanno concesso poco più di sessanta secondi per fare il suo intervento. Per quanto ci riguarda le sue parole sono le nostre conclusioni: “Good evening, bienvenidos, e grazie a tutti quelli che oggi si adoperano per un futuro migliore e più giusto per il nostro paese e per il nostro mondo, nella fedeltà e gratitudine a un movimento di massa che lavora per stabilire i diritti sociali, economici e umani del XXI secolo, compresa l’assistenza sanitaria garantita, l’istruzione superiore, i salari reali e i diritti dei lavoratori, per tutte le persone negli Stati Uniti.

Un movimento che si sforza di riconoscere e di riparare le ferite dell’ingiustizia razziale, della colonizzazione, della misoginia e dell’omofobia. Di proporre e costruire un sistema dell’immigrazione e una linea di politica estera che prenda le distanze dalla violenza e dalla xenofobia del passato. Un movimento che si rende conto della brutalità insostenibile di un’economia che premia le disuguaglianze esplosive della ricchezza per pochi, a scapito della stabilità a lungo termine per molti. E che ha organizzato una campagna storica, di base, per rivendicare la nostra democrazia”.