PICCOLA STORIA A MIO GUSTO DEL NOSTRO 25 APRILE

In questa primavera, flagellata da una terribile pandemia planetaria, riuscirebbe davvero difficile anche a chi, come me, non possieda una pagina Facebook, non accogliere la proposta fatta dall’ANPI di Vicenza per ricordare il 25 aprile in modo alternativo (e creativo), cioè senza bisogno di scendere come ogni anno in piazza bensì utilizzando diversi tramiti di riflessione su vicende locali e nazionali che lo hanno connotato, come “festa”, nel corso del tempo.
E’ una proposta che riecheggia, in forzosa concomitanza col dilagare dopo i primi di marzo del 2020 dell’epidemia di corona virus, quella anche più esplicita presente in altri inviti – rivolti ad esempio dall’Istituto Ferruccio Parri di Milano (https://www.facebook.com/RaccontiamolaResistenza/?) di cui sotto dirò – estendendo la portata di molte iniziative maturate nell’ambito d’uno stesso sforzo comune di salvaguardia della memoria resistenziale già fatto o tentato, a dir la verità, in precedenza in varie occasioni e in diverse parti d’Italia. Raccogliendo dalla loro viva voce i ricordi degli ultimi testimoni diretti degli avvenimenti culminati settantacinque anni fa nel giorno della Liberazione Gad Lerner e Laura Gnocchi hanno appena pubblicato presso Feltrinelli un’antologia di 420 interviste intitolata Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza italiana che di sicuro godrà di una visibilità maggiore di quella ottenuta a suo tempo, per restare in zona nostra, dalle Testimonianze di donne e uomini che furono giovani durante il periodo bellico (1940-1945) contenute nell’aureo volume – Una giovinezza difficile – curato a Vicenza per l’Istrevi “Ettore Gallo” da Giuseppe Pupillo nel 2008 o dal ciclo di nuovo d’interviste a protagonisti delle Resistenza veronese realizzate dal compianto Gigi Miele fra il 2008 e il 2014 (e ora messe parzialmente a disposizione nella pagina Facebook dell’Istituto scaligero (https://www.facebook.com/Istituto-veronese-per-la-storia-della-Resistenza-e-delletà-contemporanea-824014600987760/).
Quanto alla odierna “piazza virtuale” in cui è auspicabile che si possa invece far confluire un tipo diverso di contributi, come questo mio di adesso, sulla giornata fatidica che nel 1945 segnò, per convenzione, la fine del Secondo conflitto mondiale e della guerra civile, ma soprattutto la riconquista della libertà per tutti gli italiani e le precondizioni di un nuovo patto costituzionale per l’Italia intera, posso solo lamentare la colpevole incuria con cui non ho provveduto, nel corso degli ultimi decenni, a conservare le registrazioni audiovisive delle molte conferenze spettacolo e delle non poche lezioni di storia cantata appunto sulla Resistenza e sulla Costituzione che pure a più riprese avevo fatto a Vicenza ma più spesso anche fuori e/o assai lontano da Vicenza. E’ un segno, se si vuole, della particolare condizione che sperimento personalmente e che da sempre mi trovo a vivere avendo cercato di far coesistere funzioni e vocazioni formalmente differenti e tra loro, in effetti, abbastanza divaricate e distanti. Del 25 aprile, infatti, pur pensandola, terra terra, alla stessa maniera (positiva cioè) di tante altre persone di fede politica magari diversa dalla mia, ma tutte animate dal medesimo spirito democratico, mi sento di poter e anzi di dover fare valutazioni e soprattutto ricostruzioni coerenti in veste sia di cittadino che di studioso e di divulgatore.
Come cittadino considero il 25 aprile una data periodizzante la cui celebrazione è, nel modo più assoluto, irrinunciabile, come studioso so bene quanti e quanto complessi problemi implichi la scelta di occuparsene attraverso ricerche d’archivio e di storia orale messe a confronto con ricostruzioni altrui (persino divergenti ma non preconcette), come divulgatore o meglio come artigianale cultore di un genere oggi chiamato public history non mi nascondo, per averli spesso misurati di persona, gli effetti distorsivi delle polemiche che sin dalla sua nascita ne hanno accompagnato e tuttora ne segnano l’esistenza, il destino e le funzioni. Il dettaglio non secondario che concerne il tipo di studi storici a cui mi applico da cinquant’anni in qua rende se possibile ancora più complicata ogni riflessione che mi venga fatto di svolgere sui punti chiave i quali sintetizzano oggi il senso di quella esistenza, la natura di quel destino e l’importanza di quelle funzioni. Più che ad altri soggetti, infatti, allo storico è richiesto un equilibrio di giudizio e una capacità di documentazione e di corretto approfondimento degli argomenti su cui esso si fonda che risultano, per dir così, alquanto fuori del normale e non sempre facili da raggiungere: da qui vorrei dunque partire pur andando a memoria e mescolando quindi anch’io, inevitabilmente, autobiografia, cronaca e storia.
Del 25 aprile come cittadino posso intanto dire che serbo un primo ricordo liceale – nient’affatto sbiadito – di come nei fogli studenteschi, su cui mi arrabattavo in forme a volte ingenue ma per lo più confuse, mi era capitato, da ragazzo, di misurare gli echi d’una inchiesta promossa nel 1965 sui giovani “nati dopo” (ossia vent’anni dopo la conclusione della guerra) dal “Ponte”, la rivista fondata a Firenze da Piero Calamandrei. Mi avevano colpito, in particolare, le modalità con cui nel rimbalzo vicentino di tale inchiesta si era fatta strada, più in “Tempi Nostri” che nell’”Arca di Noè” – i due giornali della florida stampa giovanile più diffusi a quel tempo in città – una rilettura della Resistenza schiettamente desiderosa di emanciparla dagli orpelli retorici che (da non molti anni a dire il vero) ne appesantivano il ricordo ufficiale e le ritualità ad esso collegate (discorsi e messe, fanfare e gonfaloni, retoriche del sacrificio come avrebbe detto più tardi Alan R. Perry nel suo lavoro sul “santo partigiano martire” ecc. ecc.).
Qui era già abbastanza evidente, per altri versi e per impulso di molti dei promotori di allora, l’intento di disinnescare la potenziale o temuta carica “sovversiva” della ricorrenza con il recupero dei tranquillizzanti “valori” nazionalistici (più che non patriottici) di una guerra precedente, quella mondiale del ‘15-‘18 (il commento musicale e sonoro di piazza non contemplava, ad esempio, nessuna canzone partigiana – nè la sovietizzante Fischia il vento nè tanto meno la spuria Bella Ciao – e semmai faceva spazio, com’è del resto poi continuato ad essere ad oltranza, a inni militari pari a quello del Grappa scritto dal quadrumviro Emilio De Bono o alla pur suggestiva Canzone del Piave dello chansonnier napoletano E.A. Mario). Il fatto poi che da molte parti si tendesse a far coincidere la Resistenza e la sua parabola con il frutto di un impegno esclusivo dei comunisti (e tutt’al più dei loro “servi sciocchi” liberalsocialisti del Partito d’Azione) non era all’epoca solo la conseguenza del perdurante clima da “guerra fredda” instauratosi dopo il 1947 nel mondo o, più prosaicamente, l’esito dell’ ideologia “benpensante” italiana pregna di un anticomunismo viscerale dalle molte sfaccettature, ma anche e piuttosto la spia d’una piatta interpretazione del passato resistenziale che soprattutto alla destra neofascista e nostalgica di allora (non meno che a quella di oggigiorno d’altronde) riusciva gradita e congeniale.
Nel 1965, tuttavia, si era giusto a metà strada tra i fatti di Genova e di Reggio Emilia, che nel 1960 avevano inteso reagire al primo tentativo, scongiurato poi in extremis, di far tornare al governo i (neo)fascisti (ad opera del democristiano “di sinistra” Fernando Tambroni) e l’erompere della protesta giovanile e studentesca la quale già nel ‘68, prima di regredire via via incartandosi nei movimenti estremistici degli anni di piombo, avrebbe fatta propria di buon grado la taccia di filocomunismo sovente rinfacciata appunto ai nuovi sostenitori della causa resistenziale. In termini di colonna sonora si andava ancora, insomma, ma non senza buone ragioni, dai Morti di Reggio Emilia, l’epicedio canoro che incorporava nel proprio refrain l’incipit già famoso della più amata canzone partigiana composto nel 1960 da Fausto Amodei, uno dei fondatori del gruppo torinese dei “Cantacronache” (“Compagno cittadino, fratello partigiano/teniamoci per mano in questi giorni tristi/ Di nuovo a Reggio Emilia di nuovo là in Sicilia/Son morti dei compagni per mano dei fascisti/ Di nuovo come un tempo/ sopra l’Italia intera Fischia il vento e infuria la bufera”) al 9 maggio 1965 scritto da Ivan della Mea sull’onda dell’emozione procuratagli in quel giorno dall’imprevista “rottura della sacralità”, a Milano, delle solenni commemorazioni di chiusura del ventennale della Liberazione in una Piazza Duomo stracolma di partigiani accorsi da tutta Italia, la maggior parte dei quali invece di ascoltare il discorso ufficiale del Presidente Saragat si era mossa in corteo con le bandiere rosse al vento verso l’Ambasciata americana per protestatre contro la guerra in Vietnam (“E nei giorni della lotta rosso era il mio colore/ ma nell’ora del ricordo oggi porto il tricolore/ Tricolore è la piazza, tricolori i partigiani siamo tutti italiani/Viva viva la nuova unità/ E che festa e che canti e che urla e che botti/ E c’è Longo e c’è Parri e c’è pure Andreotti/ E c’è il mio principale quello che mi ha licenziato/ Quello sporco liberale anche lui tricolorato/ E mi son tolto il fazzoletto, quello bianco verde e rosso/Ed al collo mi sono messo quello ch’è soltanto rosso/E mi hanno dato del cinese, mi hanno detto disfattista/ Ho risposto secco secco ero e sono comunista….”).
Se dovessi ora comportarmi da storico – non più solo della canzone – dovrei mettere in fila tutte le “stagioni” del 25 aprile o almeno quelle trascorse, passando per gli anni ‘60, dal 1946 al 1994 col rischio di dovermi sobbarcare ad uno sforzo descrittivo troppo oneroso perchè i riti commemorativi della Resistenza e lo stesso processo che ne provocò a un certo punto la pericolosa “monumentalizzazione” andarono tutti di conserva ovvero sempre quasi di pari passo con i principali snodi della lotta politica in Italia per l’intera durata della prima Repubblica. E ciò, volendo essere precisi e per rimarcare un paradosso, sin dall’inizio specie se si consideri il fatto, di cui si è poi persa la memoria, che l’idea di dichiarare “festa nazionale” quel giorno in cui il CLNAI (il CLN dell’Alta Italia) aveva proclamato da Milano l’insurrezione generale risaliva agli sgoccioli ormai della monarchia e a un decreto luogotenenziale di Umberto di Savoia, il “re di maggio”, del 22 aprile 1946, espressamente volto a celebrare la “totale liberazione”, un anno prima, del territorio nazionale italiano.
A sollecitarlo pare che fosse stato, nella sua veste di Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi il quale comunque controfirmò, tre anni più tardi, tra le varie “Disposizioni in materia di ricorrenze festive”, anche una legge, stavolta appunto repubblicana – la numero 260 del 27 maggio 1949 – con la quale si sanciva in via definitiva l’istituzionalizzazione della nuova festa anniversaria. Anniversaria però di che cosa? In prima battuta senz’altro, nomen omen, della Liberazione e non è un caso che nello stesso 1949 nascesse a Milano l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia (in sigla INSMLI) su impulso di Ferruccio Parri e di Mario Dal Pra (nato, questi, nel 1914 a Montecchio Maggiore e giovane insegnante al Liceo Pigafetta durante la guerra assieme a Giuseppe Faggin, entrato nel 1943 in clandestinità e poi partigiano, grande storico della filosofia e docente di tale disciplina nell’Università Statale del capoluogo lombardo).
Creato col fine di raccogliere e conservare il patrimonio documentario delle organizzazioni e dei protagonisti dell’opposizione prestata, non solo in armi, al nazifascismo, questo organismo associativo (che dal 2017 ha cambiato nome e che intitolandosi al suo fondatore si chiama oggi, come si è già visto, Istituto Nazionale Ferruccio Parri) coordina le attività didattiche e di studio di una vasta rete di istituti provinciali i quali ne condividono le finalità essendo sorti man mano, dopo il 1949, in tutta la penisola (ma a Vicenza, solo dopo mezzo secolo, appena nel 2002). Nelle sue numerose pubblicazioni, chi volesse, potrebbe trovare descritte e interpretate a più riprese le ragioni della imprescindibilità, per quanti abbiano a cuore le sorti della democrazia nel nostro Paese e nel mondo, del 25 aprile, ma poi anche la precisa scansione delle fasi attraverso cui passò questo ricordo pubblico della Resistenza in Italia o se si preferisce quella successione di fatti che per altri versi Roberto Chiarini, uno storico non certo prodigo di simpatie o di concessioni al punto di vista filoresistenziale, si sarebbe sforzato di collegare, in un suo libro, alla “competizione politica sulla memoria” che da noi condizionò fin dalle origini il punto simbolico d’avvio di una vertenza dunque assai lunga e imgarbugliata.
Per debito di chiarezza a questo punto devo giocare a carte scoperte (anche con me stesso) e segnalare che nella fattispecie della quale ora si tratta le mie interpretazioni non possono certo prescindere dal fatto che dal 1965 in avanti mi è capitato spesso d’interrogarmi sull’andamento nient’affatto lineare delle celebrazioni d’impronta antifascista osservandole sì, sempre di più, dal punto di vista professionale dello storico ma, al tempo stesso e per oltre vent’anni, anche dall’interno di quell’universo associativo e di studi del quale poco fa dicevo accennando alla vita e alle funzioni dell’ INSMLI. Del suo comitato scientifico nazionale e del suo organo ufficiale “Italia contemporanea”, infatti, sono stato membro attivo dal 1990 al 2006 mentre, insegnando storia all’Università di Verona, presiedevo anche (dal 1987) il locale Istituto per la storia della Resistenza di cui sono infine diventato nel 2007 (e tuttora rimango) presidente onorario. Quasi inutile aggiungere che oggi, passati da un bel po’ i settant’anni, sono pure iscritto all’ANPI sia a Verona che a Vicenza (e ad Asiago).
Questo mio percorso personale serve però a chiarire solo una parte dei presupposti del ragionamento che avevo inaugurato introducendo qui sopra un interrogativo bisognoso, evidentemente, di ulteriori e ben più dettagliati riscontri.
La Festa d’aprile di cui forniva una illustrazione musicale tutto sommato appropriata – benchè già postuma all’atto della sua composizione nel 1948 – la canzone omonima di Sergio Liberovici e Franco Antonicelli (“E’ già da qualche tempo che i nostri fascisti si fan vedere poco e sempre più tristi, hanno capito forse, se non son proprio tonti, che sta arrivare la resa dei conti. Forza che è giunta l’ora, infuria la battaglia per conquistare la pace, per liberare l’Italia; scendiamo giù dai monti a colpi di fucile; evviva i partigiani! è festa d’Aprile”) metteva già in scena, ad esempio, la gioia prorompente per una libertà non tanto ritrovata quanto conquistata dagli oppositori del nazifascismo attraverso ventuno mesi di lotta. Si festeggiavano, insomma, il conseguimento della pace e la liberazione dell’Italia da una ventennale dittatura ma anche, assieme a ciò, la fine della guerra e soprattutto l’epilogo della guerra civile con quanto di drammatico ne sarebbe potuto derivare ossia la “resa dei conti” della canzone che da noi non prese putroppo i contorni di una epurazione efficace e che nel Centro Nord tragicamente vi fu invece con grande spargimento di sangue, superando ciò che di analogo era comunque successo anche in tanti altri paesi europei (a cominciare dalla Francia come hanno spiegato assai bene Patrizia Dogliani e soprattutto Keith Lowe nel suo dossier su Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale): in compenso dopo il 25 aprile 1945, quale sua principale e benefica conseguenza, si rendevano possibili a breve andare il passaggio, per via referendaria, dalla monarchia alla repubblica e, quel che più conta, il varo di una costituzione democratica che infatti da allora in molti festeggiamo assieme appunto a quella data (assai più, mi pare, di quanto non accada il 2 giugno).
La radicalizzazione dello scontro ideologico in chiave anticomunista tra il 1948 e il 1956, ad ogni modo, impedì subito che alle prime celebrazioni corrispondesse un riconoscimento condiviso dei meriti accumulati dal fronte ciellenistico il quale pur comprendeva oltre ai comunisti e agli azionisti, l’intero arco delle forze politiche laiche o cattoliche rappresentate ora in Parlamento (ad eccezione, s’intende, dei qualunquisti, dei monarchici e dei neofascisti, questi ultimi riunitisi assai per tempo, fra il 1946 e il 1947, sotto le insegne del Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante e Pino Romualdi e molto attivi anche da noi in città e provincia). Per declinare alla vicentina il fenomeno della mancata epurazione di tanti seguaci del Duce vecchi o nuovi come questi va inoltre detto che neppure nel capoluogo berico vennero penalizzati più di tanto quelli di loro che poi avrebbero preferito lasciare la città per trasferirsi altrove (alcuni anche di gran nome come l’ex podestà Antonio Franceschini e l’ex ministro di Mussolii Antonio Mosconi o come il suo segretario particolare a Gargnano dall’ottobre 1943 al marzo 1944 Giovanni “Nino” Dolfin per non parlare di gerarchi di secondo piano quali il pittore Pierangelo Stefani o di figure screditate come il rodigino Angelo Berenzi, direttore del quotidiano di Salò “Il Popolo Vicentino”) mentre anche più significativo fu, a fronte di episodi tragici come il tristemente celebre eccidio di Schio del luglio 1945, l’indubbio perdonismo che consentì a un discreto numero di fascisti repubblicani di riprendere indisturbati e pressoché da subito le proprie attività comprese quelle più “esposte” come avvenne nella stampa locale col ritorno in servizio al “Giornale di Vicenza”, pegno di future e assidue riconferme di ruolo, di quasi tutti i vecchi redattori di “Vedetta Fascista” (Parise, Tadiello, Mutterle ecc.) e col riposizionamento, al “Gazzettino” o in accoglienti riviste di nicchia, di pubblicisti minori quali il cantore dei rastrellatori e brigatisti neri Pino Zanchi e l’ex SS italiana Giuseppe Mugnone.
Questa che sembra allontanarsi dal tema proposto per un inquadramento personale del 25 aprile non è una mia bizzarra divagazione ma solo un modo molto appropriato a mio avviso per far risaltare la circostanza, sopra evocata di sfuggita, delle difficoltà a cui andarono incontro fra il 1948 e il 1956 le prime ricorrenze della memoria pubblica della Resistenza. Mentre “dietro le quinte”, com’è stato documentato prima da Claudio Pavone e poi da altri (oggi, egregiamente, da Davide Conti), prendevano corpo fenomeni se possibile non meno significativi come la reintegrazione negli apparati strategici dello Stato di parecchi alti funzionari fascisti e di non pochi criminali di guerra, una offensiva in sostanza anti operaia da parte di ampi settori della magistratura condusse all’avvio di svariati procedimenti giudiziari a carico di ex “ribelli della montagna” meglio se “garibaldini” (“Siamo i ribelli della montagna/viviam di stenti e di patimenti/ma quella fede che ci accompagna/sarà la legge dell’avvenir” recitava una loro canzone) per fatti di guerra accaduti tra il 1943 e il 1945, influendo pour cause sulle celebrazioni del 25 aprile in modo piuttosto negativo e consolidando le basi di una sua interpretazione a senso unico come data cruciale di un calendario non già resistenziale, quanto tout court – ossia solamente – comunista. Il che spiega anche il successivo accanimento abnorme, nelle pratiche revisioniste del giornalismo antiantifascista su cui dovrò tornare più in là, contro gli esponenti del Partito d’Azione rei di rappresentare, con la propria semplice esistenza, assai più che non i cattolici o altri oppositori liberali e persino monarchici o badogliani del nazifascismo, una smentita fattuale al paradigma della assoluta egemonia “rossa” sul movimento partigiano (anche quando la si fosse voluta misurare col metro autgoironico adoperato ne I piccoli maestri e altrove dal nostro Gigi Meneghello attraverso una aneddotica strepitosa, modello “piacere, Giuriolo”).
Assai prima che se ne interessasse la storiografia italiana sul nostro incandescente dopoguerra grazie a pochi contributi, che presero ad uscire appena passata la metà degli anni ‘80 del secolo scorso con l’avallo di Guido Neppi Modona e su iniziativa di autori spesso all’oscuro di ogni precedente ricerca (Politi, Alessandrini, Crainz o, più tardi, Del Prete, Fedele, Ponzani ecc.), era toccato proprio a me, ad ogni modo, d’inaugurare nel 1976 un atipico filone di studi resistenziali con una indagine iperdocumentata e presentata a Treviso a un discusso convegno dell’Istituto Gramsci su Movimento cattolico e Democrazia Cristiana nel Veneto dal 1945 al 1948. Senza speciali remore lo avevo intitolato, come poi rimase nella versione a stampa Marsilio a cura di Isnenghi e Lanaro di un anno più tardi, L’azione politica e giudiziaria contro la Resistenza (1945-1950) perchè esso ruotava appunto attorno ai processi quasi sempre pretestuosamente imbastiti – nel clima acceso dell’anticomunismo clericale e dei Comitati Civici di Gedda dopo l’exploit elettorale della DC nel 1948 (“Vi ricordate quel 18 aprile d’aver votato democristiani?….) – nei confronti di molti ex partigiani con particolare riferimento a quelli veneti e vicentini. Data da allora l’attenzione con la quale per più di quarant’anni ho poi continuato a guardare, prendendovi sempre parte, alle manifestazioni e ai modi in cui il 25 aprile veniva ricordato a Vicenza e in Italia fra alti e bassi di adesione popolare ma dovendosi misurare sempre più spesso con gli esiti di un revisionismo storico in progressiva ascesa perchè alimentato poderosamente dalla grande stampa e non più solo dai nipotini di Longanesi o dal circoscritto giornalismo reazionario postbellico (“L’Italia”, “La Notte”,“Il Meridiano d’Italia”, “La Patria” ecc.).
Di mezzo c’erano stati i primi volumi della biografia di Mussolini e il pamphlet del 1969 su Le interpretazioni del fascismo di Renzo De Felice la cui opera, per altri versi solida e importante, lungo tutti gli anni ‘70 aveva fatto breccia più che fra i contemporaneisti italiani appunto in vasti settori dell’informazione nazionale portando già nel corso del decennio successivo a quella “lunga e ininterrotta mitizzazione giornalistica” dello storico reatino di cui fece più di una volta le spese la ricorrenza del 25 aprile e della quale si avantaggiò viceversa un variegato schieramento politico conservatore e, di nuovo, profondamente fascista almeno nel senso puntualizzato più tardi da Umberto Eco. Nel frattempo, trascorsi altri dieci anni, sembrò che stessero per essere infine mandate in archivio le vecchie interpretazioni contrapposte della Resistenza elaborate negli anni ‘50 in base alla logica delle diverse appartenenze partitiche (una sostenuta dai socialcomunisti come “guerra di popolo” e l’altra perorata dai cattolici moderati e dai liberali come “secondo Risorgimento”) lasciando sempre più spazio, dopo il 1965, all’antifascismo istituzionale, da CLN ritrovato, ma anche prestando il fianco ai primi segni di stanchezza nei confronti di una memoria pubblica in evidente affanno come accadeva da molte parti e pure, anno dopo anno, anche a Vicenza dove qualcuno anzi registrava con rammarico sulla stampa cittadina, ormai nel 1982, “l’affievolirsi del mito resistenziale nell’opinione pubblica e nella consuetudine politica” tanto che lo si sarebbe potuto toccar con mano, si notava, in un incontro specifico di studi sulla Resistenza promosso dall’Accademia Olimpica. Ad esso, introdotti da Mariano Rumor, avevano preso parte storici di diverso orientamento e molti capi partigiani o membri del CLN in carica fra il 1943 e il 1945 alla presenza sì di altri protagonisti delle battaglie di allora, “ma con assai poco pubblico a conferma – si scriveva – della crescente estraneità all’argomento soprattutto delle leve giovanili”.
Questo rilievo sul venir meno di una curiosità politica e intellettuale per le cose della Resistenza tra i nati (molto) dopo la guerra di liberazione, sia detto en passant, sarebbe diventato a sua volta, col trascorrere del tempo, un leit motiv qualunquista e un vero e proprio luogo comune dell’anti antifascismo pronto a rispuntar fuori persino quando, come mi capitò di constatare di persona a Vicenza nel 2016, l’afflusso di giovani nelle file dell’ANPI, in forza di nuove e crescenti iscrizioni, avrebbe dovuto provare invece l’esatto contrario inducendo cautela e comunque sconsigliando di derubricare come «contrapposizione con uno sguardo [rivolto solo] al passato», in senso cioè negativo,l’esigenza di mantenere immutata una visione positiva del 25 aprile che viceversa «così rappresentata, non [sarebbe stata di alcuno interesse per] la maggior parte dei giovani e ancora una volta non [sarebbe servita] a migliorare il futuro».
Va da sè che al simbolo più potente della Resistenza simili circostanze, anche trent’anni fa, non avrebbero potuto che nuocere e arrecarono anzi danni tanto più consistenti quanto più incrementati, come ebbe a notare in tempo reale un allievo di Ernesto Ragionieri della bravura di Gianpasquale Santomassimo, dall’instaurazione d’un nuovo senso comune sul fascismo. Stravolgendo completamente la storia del nostro Paese, d’altronde, esso sarebbe presto riuscito nell’intento di far percepire l’impegno di chi ne aveva oppugnato le incarnazioni (lo squadrismo dei primi anni ‘20, il regime nell’entre-deux-guerres, il razzismo, le guerre, la RSI ecc.) e cioè, in una parola, l’antifascismo «come sinonimo di faziosità, pregiudizio ideologico e sterile moralismo» in vistoso contrasto con una raffigurazione «benevola e giustificativa del fascismo sinonimo invece di anticonformismo, apertura mentale e spregiudicatezza».
Nella congiuntura della guerra civile, ovviamente, il fascismo di Salò, in particolare, avrebbe inoltre funzionato, secondo tale vulgata, da antemurale di una sedicente lotta di liberazione, combattuta in realtà soltanto da volgari “banditi” nonché denazionalizzata e ridotta, annotava Francesco Germinario, a pura pratica criminale da parte di efferati killers comunisti. E questo anche per la complicità della pavida borghesia europea colpevole d’aver accettato senza batter ciglio il mito a livello continentale della Resistenza contro il nazifascismo costruito ad arte da tali “assassini”, fingendo sempre di dimenticare, come recriminava da tempo immemorabile Giorgio Pisanò e come aveva scritto anche Romualdi junior (edito da Marcello Veneziani nel 1984), quanto la guerra partigiana fosse stata ideologicamente predeterminata solo dai “rossi” risultando cioè «per tre quarti guerra comunista, con metodi e finalità staliniane». Non mancarono peraltro e per converso, quantunque minoritarie o più isolate, nemmeno alcune conferme non richieste ancorchè speculari di tali posizioni nell’interpretazione classista ed estremistica della lotta di liberazione suggerita da qualche attivista forgiato dalla contestazione post-sessantottesca e passato armi e bagagli (ideologici) alle Brigate Rosse come Renato Curcio che ne era stato tra i fondatori e che in una intervista a Mario Scialoia avrebbe ricordato ad esempio, nel 1993, il tentativo fatto da lui e dai suoi compagni in alcuni quartieri popolari di Milano inbandierati con 200 vessilli rossi (e con stella gialla nel cerchio) il 25 aprile del 1971 per realizzare «un significativo spostamento della festa proletaria dal 1° Maggio alla ricorrenza dell’insurrezione partigiana».
Che fosse tutta acqua portata al mulino dei denigratori della Resistenza avrebbe dovuto essere evidente sin da allora ma va anche detto che nei primi anni ‘70 non era ancora diffusa nè metabolizzata, in Italia, l’aurorale vulgata antiantifascista messa in circolo dalle prime riprese giornalistiche di alcune idee (le più discutibili fra l’altro) di Renzo De Felice.
Alfieri del diffondersi di simili concezioni che riproducevano in ultima analisi soprattutto le tesi da quasi mezzo secolo invariate dei fascisti di Salò, più che i militanti missini (o gli stessi teorici evoliani del radicalismo di estrema destra studiati anbcora da Francesco Germinario) furono ad ogni modo, in processo di tempo e appena poco più tardi, alcuni opinionisti “moderati” accolti di buon grado dopo il 1996 nelle pagine a forma di lenzuolo del “Foglio” di Giuliano Ferrara o accasatisi più spesso nel confortevole partito storiografico del “Corriere della Sera”, diretto tra il 1992 e il 1997 da Paolo Mieli, e tutti persuasi, in polemica più accesa con le posture del defunto Partito d’Azione che non con il PCI e con i suoi sbiaditi succedanei post 1989, della bontà di un revisionismo storico assai caro infatti a Ernesto Galli della Loggia, a Pierluigi Battista, a Sergio Romano o ad Angelo Panebianco (futuro sostenitore, questi, nel 2006 e in barba alle anticaglie di Cesare Beccaria, persino della liceità di un ricorso alla tortura in casi acclarati di terrorismo contro le ingenue vedute di «tante brave persone che credono che cose come la legalità, i diritti umani e quello che esse chiamano, in genere senza sapere bene cosa sia, lo “stato di diritto”, debbano sempre avere la precedenza su tutto»).

Declinato in questa maniera nel corso degli anni ‘90 allorchè il problema, come avrebbe notato Mario Isnenghi, non erano più i libri di Renzo De Felice quanto «il disarmante defelicismo dei media» e tutte le sue ripercussioni messe in evidenza anche negli scritti paralleli di Del Noce, Cofrancesco e sodali sul cosiddetto gramsciazionismo e sulla “sterile” intransigenza degli azionisti,(i “maledetti azionisti”, specie torinesi, di Antonio Carioti), anche altri esiti ne furono presto visibili sul piano simbolico dove in buona sostanza si puntò dritto, da parte dei suoi avversari, alla neutralizzazione del 25 aprile e al ricorrente tentativo di metterlo in mora: con la crisi finale della Repubblica dei partiti alle viste e poi con l’avvento al potere di Silvio Berlusconi un obiettivo, questo, che pareva ormai a portata di mano e che non avrebbe tardato a materializzarsi nel più drastico dei cambiamenti di contesto in atto da quando il Cavaliere di Arcore fosse riuscito là dove, tanti anni prima, aveva fallito Tambroni mercè il definitivo “sdoganamento” politico dei fascisti, stavolta quelli governativi di ultima generazione. Entrati a far parte per la prima volta a Roma dell’esecutivo berlusconiano, i successori del MSI (e della RSI) ora congregati in Alleanza Nazionale – un nuovo partito, non più “polo escluso” ma organizzato in fretta e furia nel 1994 a scopi elettorali dal delfino di Giorgio Almirante Gianfranco Fini – avrebbero impresso di lì a poco una ulteriore spinta o svolta significativa all’intera querelle come si capì quasi subito nel memorabile giorno di pioggia battente del 25 aprile di quell’anno a un mese esatto di distanza dalla vittoria nelle consultazioni politiche della coalizione berlusconiana di Centrodestra. La grande manifestazione promossa allora a Milano dal “Manifesto”, comunque la si voglia ricordare, fu anche il banco di prova, però, dei sostenitori di una “nuova Resistenza” che mirava a convalidare, in attesa di tempi migliori ma assolutamente all’insegna del “non mollare”, i valori espressi mezzo secolo prima dalla guerra partigiana di liberazione e dall’antifascismo militante (in scontata polemica, è ovvio, con i suoi ringalluzziti detrattori, magari anche sull’aria “antica” dei bombacé già in voga durante il Primo conflitto mondiale e intonati in corteo sotto il diluvio a Milano: “Piduisti e riciclati/fascisti e lazzaroni/han fatto su il governo/di Silvio Berlusconi/Bim,bam bom con la television”).
Prese il via anche di qui l’ultimo ciclo, non ancora concluso direi, di gestione della memoria partigiana a ridosso del 25 aprile da parte di coloro che, per banali motivi anagrafici, in larghissima parte non potevano che esserne gli eredi – ormai, più che figli, nipoti – e, per così dire o comunque per scelta, gli ostinati custodi nel nuovo millennio dei valori demcratici della Resistenza contro le incessanti campagne, quasi sempre sguaiate e grossolane, di delegittimazione promosse dall’antiantifascismo militante. A partire grosso modo dal 1998 cominciarono infatti a generalizzarsi, moltiplicandosi e trovando il conforto istituzionale di molte autorità di governo sia centrali che periferiche, gli attacchi all’immagine della guerra di liberazione veicolati di norma dalla stampa reazionaria di tutto il Paese e da un discreto numero di emittenti radiotelevisive provinciali o regionali. Le tribune giornalistiche della carta strampata più attive in tale opera diffamatoria e, nelle intenzioni, distruttiva furono quelle offerte da testate apocalittiche e forcaiole come, ne cito per gli ultimi vent’anni solo alcune piuttosto alla rinfusa e senza rispettare un preciso ordine cronologico, “Il Giornale”, “L’Indipendente”, “Libero”, “La Verità” ecc.
Un primo assaggio di questa casistica inquietante (o rivoltante?) e comunque un posto di rilievo nella mia ricostruzione lo merita senz’altro, fra le prime, la sortita marinettiana di Giordano Bruno Guerri comparsa nel “Giornale” del 25 aprile 1998 sotto un titolo che già da solo costituiva tutto un programma: «Per farla finita col 25 aprile. Proposta: celebriamo il 9 novembre festa della liberazione dal comunismo». Secondo il suo autore che si appoggiava in parte persino alle recenti definizioni di Eco sull’”Ur-Fascismo” quello che meglio ne rappresentava i caratteri come “sensibilità” sarebbe stato appunto alla Eco “eterno” mentre quello politico, rimasto a lungo in vita anche dopo il 1945, ormai a suo giudizio non esisteva più perchè Alleanza Nazionale, che sembrava averne preso il posto, era diventato «un normale partito di destra». Di conseguenza, per Guerri, il vero problema sociale sarebbero stati solo «i fanatici del 25 aprile, che ogni anno organizzano enfatizzazioni di una grottesca battaglia contro i fantasmi».
Definendo “buffo” ossia ridicolo chiunque avesse preteso di continuar a scendere in piazza il 25 aprile l’articolo accusava poi di «distogliere l’attenzione dai problemi reali quanti ancora organizza[vano] le celebrazioni» resistenziali al cui posto Guerri suggeriva di festeggiare semmai, in ricordo della caduta del Muro di Berlino, la data del 9 novembre. Forse a questo precedente si sarà ispirata molti anni dopo Elena Donazzan, assessore regionale all’Istruzione ed estimatrice dichiarata del nazifascismo, per affidare in Veneto a un giovane neocamerata ventenne poco acculturato e “maldestro”, ma ovviamente sempre a carico di un ente provinciale come quello di Vicenza, per la modica cifra di 15 mila euro, la stesura, sul ventennale della caduta del Muro, di un libercolo di poche pagine prontamente plagiato dal suo “autore” e fatto poi oggetto d’una inchiesta giudiziaria conclusa con sentenza di condanna patteggiata e passata in giudicato. Anche a questo proposito, va da sè, si cita un episodio del 2009, ossia abbastanza vicino a noi nel tempo, non già per divagare bensì per sottolineare come dalla fine del secolo scorso in avanti l’antiantifascismo imperniato sulla demonizzazione e sulla ridicolizzazione del 25 aprile avesse fatto passi da gigante insinuandosi ai più vari livelli nei gangli delle amministrazioni pubbliche e di governo di città e regioni mentre le intemerate giornalistiche contro il 25 aprile aumentavano a loro volta di numero e d’intensità.

Nel 2002, ad esempio, era Gianni Baget Bozzo a proporre provocatoriamente, in una intervista concessa a “La Repubblica”, di abolire la festa del 25 aprile sostituendola con quella del 4 Novembre dal momento che, secondo lui, quello partigiano non sarebbe stato un movimento popolare in quanto avreva solo «diviso la coscienza degli italiani non [essendo] universalmente accettato nemmeno da chi vi aveva partecipato»: più che probabile allusione, questa, alla cospicua presenza in Gladio, l’organizzazione militare segreta dell’apparato atlantico anticomunista, di combattenti “bianchi” già della Osoppo come, sin dall’autunno del 1945 in accordo con gli alleati e poi ricordato in rilievo in un libro einaudiano di Giacomo Pacini, il colonnello Prospero Del Din, organizzatore della prima struttura segreta di tipo Stay behind sorta in Friuli e denominata “Fratelli d’Italia” nonché padre di due medaglie d’oro della Resistenza friulana (Paola e Renato, morto questi eroicamente in combattimento contro i fascisti a Tolmezzo proprio il 25 aprile 1944 e scelto, anche per assonanza onomastica, quale intestatario del nome affibbiato nel 2013 in Vicenza alla seconda Caserma concessa in uso agli americani sull’area di un preesistente aeroporto militare italiano intitolato invece all’aviatore di Altissimo Tommaso Dal Molin).

Di nuovo Giordano Bruno Guerri, memore anche dell’impatto appena avuto nel 2003 dall’uscita allo scoperto in assetto obiettivamente antiresistenziale del più venduto dei libri di Pansa su Il sangue dei vinti, si ripeteva sul tema poco più in là e cioè nel 2004, un anno del resto cruciale per l’evoluzione del processo di radicamento nelle istituzioni repubblicane di elementi corposi (e di sostenitori in carne ed ossa “democraticamente eletti”) dell’ideologia neofascista che sempre all’ombra del nazionalismo e dell’anticomunismo riuscivano a far diventare, con un voto del Parlamento, la data del 10 febbraio, in evidente e ricercata competizione con quella europea del 27 gennaio dedicata alla memoria dello sterminio di milioni di ebrei e non solo di ebrei da parte dei nazisti, “giorno del ricordo”. Il fine dichiarato era quello «di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» offuscando però e contestando così anche (o soprattutto) l’anniversario del Trattato di Pace firmato nel 1947 a Parigi da De Gasperi per pagare il prezzo salatissimo della sconfitta subita dall’Italia in una guerra ch’era stata voluta da Mussolini. Assumendo dunque la direzione di un quotidiano nuovo di trinca il 25 aprile appunto del 2004 Guerri firmava ne “L’Indipendente” un editoriale tutto incentrato sulla constatazione, dimostratasi fallace se non altro nel 2011, che l’Italia non avrebbe mai avuto alcuna «autentica festa riconosciuta da tutti» perchè Paese privo di un forte sentimento di identita’ nazionale’. «Per quasi sessant’anni – scriveva Guerri- si e’ tentato di accreditare la data del 25 aprile come la più simbolica della nostra storia, mentre si riponeva pian piano in soffitta quella del 4 novembre, giorno della vittoria della Prima guerra mondiale. Ma questa scelta non ha retto l’impatto del tempo, vero arbitro della storia. Piaccia o meno, il 25 aprile era e resta una ricorrenza di parte, una data che segna la liberazione dal nazifascismo e la fine della Seconda guerra mondiale, ma soprattutto la conclusione di una guerra civile. E’ una data escludente, non certo unificante della coscienza del Paese. Col tempo si é dipinta di rosso esprimendo a pieno il riuscito tentativo del Pci di monopolizzare la memoria della lotta partigiana [perché] il 25 aprile ha fatto presto a diventare la festa dell’antiberlusconismo nazionale, dove a Mussolini viene sostituito il nuovo Duce-Cavaliere da spedire a piazzale Loreto».

Sul tema della divisività, effettiva per quanto concerne la natura inconciliabile delle divergenti scelte compiute fra il 1943 e il 1945 da buona parte dei nostri connazionali di allora (anche se non sarebbe poi inutile precisarne un po’ meglio il “dosaggio” come mi son sforzato di argomentare per mio conto ne La parentesi, un libriccino di dieci anni or sono), credo che vi sia paradossalmente più accordo di quanto non sembri mentre tutta da dimostrare resta la pretesa inutilizzabilità del 25 aprile come solennità civile aggregante per ciò che riguarda invece il suo rapporto innegabile con il nuovo patto strettosi fra gli italiani attraverso la carta costituzionale repubblicana entrata in vigore il primo gennaio del 1948, una carta, dettaglio di non poco conto e mai da trascurare, che non avremmo avuto senza la Resistenza specie se a vincere fossero stati i soci europei dell’Asse Hitler e Mussolini.

Da tale punto di vista e in linea con quanto sopra si notava sulle conseguenze pratiche dell’assunzione di ruoli di potere da parte dei neofascisti dopo il 1994 alcuni accadimenti del 2005 e non solo più i contraccolpi nel senso comune della vulgata antiantifascista resero concretamente l’idea di cosa fosse frattanto successo in virtù del cosiddetto sdoganamento berlusconiano. Nel 60° anniversario della Liberazione, ad esempio, celebrato alla presenza del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e dello stesso Berlusconi presidente del Consiglio in carica, davano forfait a Milano, con diverse motivazioni, sia Alleanza Nazionale che la Lega (Ignazio La Russa contestando per AN la matrice comunista della festa e Matteo Salvini dichiarando per la Lega di ritenere preferibile recarsi in Valcamonica perchè «la presenza di Ciampi strumentalizza[va] e ammanta[va] tutto di retorica»). Forse però il più significativo di quegli accadimenti ebbe luogo proprio nel capoluogo berico in occasione della stessa cerimonia per il sessantennale che avrebbe dovuto essere introdotta dal Sindaco della città e illustrata da un’orazione ufficiale di Silvio Lanaro, scledense di nascita e fra i maggiori storici italiani della Repubblica. Enrico Hullweck, primo cittadino di Vicenza ma anche figlio di un ex sottufficiale della Wehrmacht e uomo di non nascoste simpatie fasciste sin dagli anni della propria adolescenza, adducendo come scusa un impegno precedentemente assunto, evitò di presenziare all’evento disertato anche dal suo vice Valerio Sorrentino, più giovane di lui ma altrettanto convinto, come lui, che il 25 aprile rappresentasse una “data che divide e alimenta l’odio”.

E così dopo aver autorizzato un manifesto di convocazione della giornata con l’icona della Basilica palladiana bombardata dagli alleati “liberatori” egli si defilò e delegò a rappresentarlo, per portare il saluto dell’Amministrazione, il Presidente del Consiglio Comunale Sante Sarracco, un colonnello in pensione noto esponente di AN abituato a partecipare con altri suoi camerati, ogni 28 ottobre, in una trattoria sui colli (da Zemin a Monteviale) a una cena commemorativa della Marcia su Roma. Il discorso di Sarracco bersagliato dall’inizio alla fine in modo prevedibile da un gruppo di contestatori con “urlacci, fischi e fischietti” che la stampa locale si premurò prontamente di bollare come esempio deprecabile d’indegna “gazzarra” non fu tuttavia il solo momento di tensione rivelatore d’una maniera per così dire inusitata di ricordare la Liberazione perchè misteriosamente, pur essendo in attesa di parlare sul palco delle autorità, a Silvio Lanaro, che “nel marasma del momento” pare non fosse stato riconosciuto dagli organizzatori e dal capo del cerimoniale, non venne data la parola sicché il discorso venne tenuto in sua vece da Onorio Cengarle, un ex senatore democristiano della corrente di Donat Cattin ed ex sindacalista cislino (nonchè ex internato militare in Germania rifiutatosi di aderire ala RSI).

Nel giro di pochi giorni, per quanto riguarda Lanaro, la parola gli venne poi “restituita” all’interno di una iniziativa presa dalla CGIL vicentina su proposta del suo segretario provinciale Oscar Mancini per introdurre anche una delle mie conferenze spettacolo sulla Resistenza tenuta il 3 maggio al Teatro Astra in collaborazione con la Piccola Bottega Baltazar. Cantandone da vivi. Scherzi della memoria e abusi nella storia della guerra civile in Italia era in effetti una di quelle lezioni di storia cantata di cui, come dicevo all’inizio, ho poi malauguratamente smarrito il dvd originale e conteneva purtroppo, fra le altre cose, anche brani di una lunga e illuminante conversazione/intervista che avevo fatto poco tempo prima ad Asiago con Mario Rigoni Stern. A parte questo, io ero abbastanza vaccinato perchè reso edotto dalle molte prove accumulate in materia, con grande anticipo, a Verona,“la città in fondo a destra” dove già prima della fine del secolo scorso avevo assistito passabilmente costernato alla nomina da parte del Comune quale suo rappresentante in seno al direttivo del locale Istituto di storia della Resistenza del generale Adimaro Moretti degli Adimari, uomo di spicco prima del MSI e poi di AN, in attesa di vederci arrivare, nel luglio del 2007, mandato stavolta dalla Giunta Tosi, un consigliere del MSI Fiamma Tricolore, il naziskin Andrea Miglioranzi a lungo leader degli skinhead scaligeri e membro dei “Gesta Bellica”, un gruppo musicalehe aveva come pezzi forti e di culto delle sintomatiche canzoni dedicate a Erik Priebke (“Il Capitano”) e a Rudolf Hess (“Vittima della democrazia”), nonchè primo condannato in Italia con la legge Mancino per istigazione all’odio razziale.

In questo scenario musicale da estrema destra dei nostri tempi non sarebbero potute mancare le postille di un estimatore del futurismo di Russolo e Pratella nonchè dell’immaginifico D’Annunzio come Giordano Bruno Guerri il quale, cambiando sede ma non casacca e manifestando una perseveranza degna di miglior causa che gli va comunque riconosciuta, tornava a manifestare le proprie vedute antiantifasciste sul “Giornale” scegliendo stavolta, il 22 aprile del 2008, la via d’un sondaggio appositamente commissionato per documentare la fragilità commemorativa della ricorrenza in arrivo e intitolando il proprio pezzo con scarsa originalità: Il 25 aprile che divide gli italiani. L’esito della misurazione aveva dimostrato infatti che «oltre un quinto dei nostri connazionali [in realtà un quinto di quelli intervistati dal “Giornale”] non sa cosa si festeggi quel giorno».

Infinitamente peggio di Guerri faceva peraltro, il 25 aprile sempre del 2008, la prima pagina di “Libero” ora diretto da Vittorio Feltri che sfruttando una notizia proveniente da Padova dove, per “termini scaduti” (ovvero lasciati scadere dalla magistratura competente ma “cialtrona e irresponsabile”) una banda di “delinquenti romeni” era appena stata scarcerata, riusciva ad annunciare ai propri lettori ammiccando con caratteri cubitali Criminali impuniti. LA FESTA DEI BANDITI.

Nella mesta contabilità degli opinabili paradossi frutto di un revisionismo esagitato e teso a irridere anche con questi mezzucci i più essenziali principi di democrazia e di libertà insiti nella lotta antifascista molte altre tappe di degrado di questo stesso genere si potrebbero facilmente rinvenire anche dopo il 2009 quando ad Onna, al centro del drammatico terremoto che aveva devastato l’Aquilano, Silvio Berlusconi meravigliando un po’ tutti rivolse al Paese il 25 aprile un appello inaspettato (e molto provvisorio) all’unità nazionale non disdegnando nemmeno di mettersi al collo, assieme ai partigiani abruzzesi, un fazzoletto tricolore. Ma si trattava di un gioco di prestigio che non poteva durare e che infatti non durò consegnando agli anni successivi un copione risaputo e appena ritoccato qua e là nel percorso carsico delle prese di posizione avverse all’antifascismo ancora in circolo nel Paese e tuttavia sempre più nervose perchè costrette a constatare il venir meno della propria presa, nonostante i magheggi dei revisionisti in spe, presso un numero sempre più consistente di giovani e di giovanissimi disposti ad iscriversi all’ANPI e a sostenere le sue battaglie mentre gli ultimi partigiani andavano avanti lasciando loro il posto. Soprattutto questo, io credo, faceva e fa tuttora imbestialire la maggior parte di coloro che non contenti dello spazio spropositato ottenuto in una miriade di televisioni e di talk show non riescono più a capacitarsi, di fronte alla resistenza opposta alle loro irricevibili vedute sulla Resistenza, del fatto che esistano anche nel nuovo millennio donne ed uomini di opinione diversa e amanti della democrazia e dei diritti che 75 anni fa la lotta e il sacrificio dei partigiani ci hanno assicurato. Ed è per questo che sempre più spesso essi sbroccano come dimostra in modo esemplare il florilegio scomposto d’invettive, non ragionamenti ma veri e propri miserabili insulti, scagliato da gentiluomini come l’attuale direttore de “Il Giornale”Alessandro Sallusti di cui vale la pena leggere, turandosi il naso, alcuni passaggi dell’articolo di benvenuto da lui dedicato il 5 aprile scorso all’intramontabile “festa dei banditi”:
L’Associazione partigiani d’Italia ha già annunciato che per il 25 Aprile ci si dovrà affacciare alle finestre e cantare Bella Ciao. Cari partigiani e antifascisti, fatevene una ragione: il virus non è fascista, non è antifascista e, secondo me, ride alla grande della vostra stupidità. Ma ci ha fatto pure il regalo uno dei pochi – di liberarci, per la prima volta nel Dopoguerra, della retorica del 25 Aprile, quantomeno della sua rappresentazione fisica nella quale, peraltro, non c’è più un partigiano a pagarlo oro…..Non ci vuole molto a capire che i resistenti oggi non sono quelli che cantano Bella Ciao, ma gli infermieri e i medici che combattono negli ospedali, gli uomini delle forze dell’ordine che pattugliano le città deserte, gli imprenditori e i commercianti che lottano per sopravvivere, molti dei quali peraltro votano convintamente i partiti del centrodestra. Per cui, cari finti partigiani, giù le mani dal Coronavirus. Questa volta «l’invasore» che una mattina ha sorpreso Bella Ciao è il nemico di tutti, Salvini compreso. Ma, più in generale, direi: adesso basta con questa farsa del fascismo e dell’antifascismo che ha avvelenato l’aria dal Dopoguerra a oggi. Non c’è nessuna minaccia in corso, nessuna pace da sottoscrivere, lasciamo ai trascurabili e opposti estremismi la convinzione di essere ancora in guerra, che il codice penale basta e avanza per tenerli sotto controllo.
Certo, sempre meglio il sarcasmo da quattro soldi di Sallusti che non i diktat pericolosi di Orban anche se il CoVid 19, come primo regalo, ha poi già fatto più di ventimila vittime e noi non siamo ancora in grado di stabilire se davvero “andrà tutto bene” , ma visto che le canzoni stavolta le ha tirate in ballo lui (scelga il lettore chi fra i due sia peggiore: Sallusti o il virus) mi pare inevitabile cocludere questa lunga scorribanda spiegando perchè nelle sue prime battute mi ero permesso di definire “spuria” Bella Ciao.
Il fatto a molti forse non è ignoto: Bella Ciao, canzone simbolo della Resistenza italiana non fu quasi mai cantata in corso d’opera tra il 1943 e il 1945 e spartì anzi il singolare destino ch’era già toccato, appunto in sorte, alla Leggenda del Piave del geniale compositore partenopeo Giovanni Ermete Gaeta: felice “canzonetta” , peraltro, assurta in qualche circostanza persino al rango di inno nazionale ma che quasi nessuno probabilmente cantò in trincea sino all’ottobre del 1918. Entrambe le canzoni, nondimeno, godettero in periodo postbellico e tuttora godono in Italia di un immenso successo che per la prima delle due (o cronologicamente, va da sè, la seconda) si è poi dilatato nel volgere di questi ultimi anni davvero a dismisura decretandone una sorta di trionfo planetario visto che in ogni angolo della terra la cantano con trasporto tutti coloro che, forse più ottimisti di altri, amano senza riserve la libertà e la democrazia. Non c’è lingua che manchi all’appello e le traduzioni si susseguono al ritmo imposto dal battimani dell’antico motivo italico e popolaresco.
Ah, quasi dimenticavo, ma, come più d’uno di chi legge già saprà, Bella Ciao, oltre ad aver fatto mille volte il giro del mondo, è finita sul web (https://www.youtube.com/watch?v=9zULp0wdijc) proprio nel momento di massima espansione del contagio in Italia il 17 marzo del 2020 data anniversaria della nostra unificazione nazionale.
Un monito o un auspicio?
Comunque tricolori ai balconi e alle finestre. Gente in strada davanti ai condomìni con il tamburello e la chitarra. Nel giorno della festa di marzo risuona, dall’altra parte delle Alpi, un coro di libertà, intonato da alcuni abitanti di Bamberg, la bella città medievale della Baviera, in segno di solidarietà verso gli italiani: Bella ciao. Così la introduce in Germania e ce la trasmette con parole commoventi il capo coro tedesco “Carissimi amici italiani in questo momento difficile per tutti noi ma soprattutto per voi – è la sua dedica – e ci teniamo a farvi sapere che vi siamo molto vicini. Siamo stati molto colpiti e ci siamo particolarmente emozionati nel vedere le vostre reazioni all’isolamento mentre cantate dai balconi di casa. Abbiamo deciso di unirci al vostro coro e di cantare per voi la canzone di libertà per eccellenza. Ci auguriamo tutti che questa canzone possa costituire l’inno di liberazione dal virus. Un abbraccio. I vostri amici tedeschi”.
Che dire? Non sarà mica retorica questa e in ogni caso che ce lo ricordino con gesto affettuoso anche dalla Germania i tedeschi di oggigiorno fa molto bene all’anima e invoglia a una chiusa speranzosa e floreale ricordando tutte le genti che passerano e diranno che bel fior.
E questo è il fiore del partigiano morto per la libertà

Emilio Franzina