L’orazione di Carla Poncina a Malga Zonta

Riportiamo il testo dell’Orazione Ufficiale pronunciata dalla Prof.ssa Carla Poncina, direttrice dell’ISTREVI, sabato 15 agosto 2015 a Malga Zonta. E’ un intervento molto denso di spunti e riflessioni, che merita di essere riletto ed approfondito.

Carla Poncina a Malga Zonta 2015

15 agosto 2015
Commemorazione dell’eccidio di Malga Zonta, del 12 agosto 1944

 

[su_quote cite=” Daniel Pennac”]Nella lotta contro l’invasore mi è sempre sembrato che la Resistenza, per quanto composita, formasse un corpo unico. Tornata la pace, il grande corpo ha restituito ciascuno di noi al suo mucchietto di cellule personali, e quindi alle sue contraddizioni.[/su_quote]

Ringrazio chi ha voluto invitarmi a questa commemorazione: le amministrazioni comunali, i sindaci, il comitato organizzatore, le associazioni dei partigiani, poiché credo fermamente al valore e alla forza della memoria senza la quale, come individui e come popoli, non potremmo che agitarci in un presente privo di radici quanto di orizzonti, senza passato e senza futuro, che è un po’ la condizione in cui temo molti giovani, e non per loro colpa, si trovano oggi a condurre le proprie esistenze.

Mi è stato chiesto recentemente: ha senso ricordare quanto accaduto settant’anni fa? La domanda testimonia della totale perdita di senso della storia che caratterizza questi ultimi decenni e che si è accentuata nel difficile avvio del nuovo millennio. Per oltre duemila anni ci si è commossi e si è succhiato il senso della vita, del suo valore, della sua bellezza, dalle antiche storie narrate nell’Iliade – per fare l’esempio più antico – e ora si pensa di poter fare a meno di quell’educazione morale, civile e perché no, estetica, che possiamo tutti trarre dall’esempio a noi vicino di vicende e uomini in molti casi eccezionali, che hanno osato contrastare a mani nude, verrebbe da dire, il più potente esercito che mai si fosse visto, posto al servizio della più mortifera delle ideologie, quella nazifascista. Tra costoro le diciassette vittime di Malga Zonta, che qui onoriamo e sulla cui vicenda, gloriosa quanto tragica, mi soffermerò più avanti.
Può sembrare fuori posto fare riferimento all’estetica oltre che all’etica, ma osservando la volgarità oggi imperante in chi viene proposto dai media come classe dirigente nei vari ambiti, dalla politica allo spettacolo, e su cui inevitabilmente si modellano le masse, non posso non pensare a quei giovani, che pur nati sotto il fascismo, prima di scegliere la lotta politica si sono costruiti “un antifascismo di stile, di gusti, culturale, prepolitico: nutrito da un costante disgusto per la retorica esorbitante, le troppe parole, le “strombazzature del regime.”1
Non furono solo gli intellettuali borghesi2 a scegliere di lottare “contro”, dopo l’8 settembre del ’43. La fuga del re, l’ignavia dei generali, la protervia dei nazisti, il rifiuto di continuare la guerra di Mussolini, e ancor più di Hitler, che si intuiva avviata alla sconfitta, fece rispuntare “la grazia della sovranità individuale, vale a dire della responsabilità personale, vale a dire partecipazione e autonomia.”

“Si partiva per la montagna a volte per un moto dell’anima, altre volte per sottrarsi ai bandi di reclutamento fascisti o alle razzie tedesche. Ci si andava spontaneamente” (Antonio Giolitti), e fu questo il vero “fiore del partigiano”: una libertà interiore ritrovata, che consentì di fare una scelta quasi impensabile dopo vent’anni di dittatura, vera premessa alla libertà politica che seppero donare a tutti noi.

Non intendo qui soffermarmi sulle obiezioni ossessivamene riproposte dai nostalgici del ventennio ogni volta che si affronta il tema della Resistenza: è ovvio che furono gli alleati, compresi i russi con i loro venti milioni di morti, spesso dimenticati da noi occidentali, a sconfiggere la Germania nazista. Ma i quarantacinquemila morti sulle montagne o a difesa delle nostre città, a cui vanno aggiunti almeno duecentomila partigiani combattenti, i seicentomila soldati italiani internati in Germania per non aver accettato di continuare la guerra al fianco di Hitler, gli uomini e le donne che a rischio della vita nascosero nelle loro case partigiani, prigionieri alleati sfuggiti ai tedeschi, ebrei, dividendo con loro il poco cibo a disposizione, tutti costoro e solo costoro riscattarono l’onore d’Italia, restituendo al nostro Paese quella dignità che il ventennale, passivo asservimento al Duce sembrava aver cancellato.

Mi chiedo dove sia finita quella povera e generosa Italia, quando vedo certi politici ben pasciuti aizzare la gente contro uomini, donne, bambini disperati, in fuga dalla guerra o dalla miseria e osservo stupefatta italiani che si professano cristiani dar fuoco a materassi e suppellettili e buttare il cibo portato per sfamarli. E sono proprio le regioni più ricche a mostrare una rabbia che rasenta l’odio per quelli che Nuto Revelli chiamerebbe “gli ultimi”.

Ancora una volta ci si accorge che è venuta a mancare quell’educazione civile che già Mazzini riteneva indispensabile alla formazione di cittadini responsabili, in un Paese –il nostro – che tuttavia, nei momenti più difficili: le lotte risorgimentali, la prima guerra mondiale, la Resistenza, ha saputo esprimere straordinarie minoranze che, sono certa, da qualche parte sopravvivano anche oggi.

Le ragioni della scelta resistenziale –come si è detto- furono molteplici. In alcuni casi la decisione di salire in montagna fu motivata dallo sconcerto e dalla vergogna per l’abbandono in cui erano stati lasciati dai loro superiori migliaia di soldati italiani di ritorno dai vari fronti di guerra. Così fu per Nuto Revelli, partito per la campagna di Russia da convinto fascista e tra i pochi che in seguito alla ritirata riuscirono a tornare a casa, egli si trovò in mezzo al caos in cui era piombata l’Italia dopo l’annuncio dell’armistizio l’8 settembre del ‘43. Il disordine e il disorientamento nelle caserme, con i soldati lasciati soli, e la repentina e da tempo programmata occupazione tedesca lo spinsero sui monti del cuneese. Lì incontrò buoni maestri, come Dante Livio Bianco, da cui ricevette quell’educazione politica e civile che il regime gli aveva negato.
Fu così per molti altri, che trovarono nella rischiosa quotidianità della vita da “ribelli” una straordinaria scuola3 di vita, e di morte, che è quasi lo stesso, come testimoniano le bellissime Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, che risuonano nell’animo di chi le legge come Requiem e insieme Gloria ai caduti della lotta di Liberazione, legate da uno stesso leitmotif: l’orgogliosa rivendicazione della scelta fatta per amore della libertà e dell’Italia, unita alla serenità nell’affrontare la morte, compimento alto della loro spesso breve esistenza..

Ogni generazione ha motivi suoi per ricordare, e ogni anno che passa aggiunge profondità e consapevolezza al ricordo.
Vorrei soffermarmi sull’evidente valore simbolico di questo luogo, tra Veneto e Trentino, costituito in Parco della Memoria al fine di rendere feconde le idee di pace, di democrazia e di Europa-patria-comune sorte dalle macerie di due guerre tremende, e di cui pochi grandi antifascisti italiani possono vantare la primogenitura. L’idea di Europa appare oggi appannata, in crisi, ma necessaria come non mai proprio per superare il momento difficile ed estremamente rischioso che stiamo vivendo. Qualcuno, stoltamente o cinicamente, vorrebbe distruggere quanto già fatto per tornare ai miopi, insensati nazionalismi del passato, ma il luogo stesso in cui ci troviamo testimonia di come confini che ci hanno diviso per secoli possono diventare segni di unificazione. Tutto dipende dal nostro sguardo.

Tornando alla ragione per cui ci ritroviamo oggi tra queste montagne e alla domanda se abbia senso ricordare eventi tanto lontani: il fatto stesso di porla, specchio di tempi grigi, non fa che testimoniare il grado di confusione in cui si vive quando si rinuncia alla propria storia.
A tale domanda spesso si associa un altro luogo comune di successo, secondo il quale le categorie di fascismo ed antifascismo non avrebbero più senso.
In realtà la negazione del paradigma antifascista è in sé qualcosa di assai pericoloso sia quando viene proposta in buona fede, perché testimonia della totale perdita di senso della storia in particolare tra le nuove generazioni, sia quando è maliziosamente finalizzata a cancellare il valore della Resistenza, restituendo per contro al fascismo una dignità morale di cui fu totalmente privo, concludendo la propria nefasta parabola al servizio dei nazisti.

Piero Gobetti definendo il fascismo: autobiografia della nazione, aveva in mente alcuni caratteri negativi della nostra gente, già indicati dal Leopardi nel famoso Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, che giustificavano a suo dire la fascinazione per Mussolini e il largo e duraturo consenso al regime.
Per contro, vent’anni dopo, gli antifascisti più lucidi e combattivi, in particolare gli azionisti, avevano intensamente sperato che la tragica guerra voluta dal duce e i venti mesi di lotta contro il nazifascismo – il roveto ardente come lo chiamò Carlo Arturo Jemolo – potessero finalmente dotare la nuova Italia di quelle virtù civili da secoli forza viva delle grandi nazioni europee.

Ma già nel 1947 Raffaele Ramat scriveva4:

Oggi, finito il partito fascista, resta il fascismo come costume: abitudine al compromesso, volontà di essere comandati, retorica, discredito della maestà della legge, sfiducia nello Stato.

Ad osservazioni altrettanto amare nello stesso anno si lascia andare Arrigo Benedetti, scrivendo della pigrizia morale e politica di molti italiani:

“dopo il paternalismo mussoliniano abbiamo vagheggiato il paternalismo alleato, ed ora annaspiamo nel vuoto per camminare senza aiuti, col pericolo […] dello scoraggiamento che potrebbe condurci a vagheggiare un nuovo padre che ci protegga.”5

La debolezza civile del nostro paese, evocata dal Leopardi nel saggio già citato, fu aggravata dal fascismo, che aveva aumentato ipocrisia e scetticismo, e favorito il disinteresse per la politica (Crainz), e fu questo uno dei meno considerati ma più insidiosi lasciti del regime.
E’ persino imbarazzante la conformità di questi giudizi all’Italia d’oggi.

Eppure all’uscita della raccolta di saggi intitolata Dopo il diluvio, da cui sono tratte le prime due citazioni, eravamo all’indomani di una prova di coraggio e dignità entusiasmanti. Nei venti mesi della lotta resistenziale giovani cresciuti sotto il fascismo, privi di chiari punti di riferimento, erano stati capaci di scelte radicali, costretti a maturare in fretta, anche in senso politico e militare. Erano intellettuali e borghesi come i “piccoli maestri” raccontati da Meneghello, ma anche operai e contadini, come i martiri che oggi onoriamo, in alcuni casi semianalfabeti. Furono la guerra, o meglio il rifiuto di una guerra folle, e la Resistenza le levatrici delle loro anime e insieme delle loro menti.

Oggi siamo chiamati ad una nuova battaglia contro lo stravolgimento dei valori su cui si basa la civile convivenza. Come accettare che la televisione e i media in generale diano uno spazio enorme e totalmente acritico a individui rozzi, cinici al limite della disumanità, per i quali la definizione di “politici” risulta eufemistica, che invitano, suscitando consenso invece che indignazione, a sparare a intere comunità, bambini compresi e osano definirsi “cristiani”, e mentre accendono l’odio negli animi di gente che la lunga crisi ha inasprito, insultano il Papa, e si definiscono cattolici senza mai aver letto il Vangelo presumo, sennò chiamerebbero comunista anche Cristo, come hanno già fatto col portavoce del pontefice.
E tuttavia proprio i momenti di crisi collettiva e individuale offrono opportunità di crescita a chi sa interrogarsi e guardare dalla parte giusta. Questo è sicuramente uno di quei momenti, e allora mi chiedo se non ci indichino in qualche modo la direzione alcuni saggi usciti in occasione del 70° della Liberazione, che ripropongono, dopo lungo tempo, alcune figure di intellettuali e combattenti che Bobbio a suo tempo avrebbe chiamato “Maestri e Compagni” e indicato come i suoi “Maggiori.
Da tutte queste riletture, fatte a settant’anni di distanza, emerge uno straordinario carattere dell’esperienza resistenziale, espresso come meglio non si potrebbe dalle parole di quella che allora era una giovane aristocratica dalla spiritualità ardente, che dopo la guerra si fece monaca. Si chiamava Leletta d’Isola, su di lei oggi si è aperta una causa di beatificazione. Scrive Leletta a quello che era stato il suo comandante partigiano, il comunista Pompeo Colajanni, “Barbato”.

“Quel periodo tragico di guerra fu per noi, ancora nell’incoscienza della prima gioventù, una gloriosa epopea. La lotta per la libertà, per quella libertà che sotto il fascismo non avevamo conosciuto, l’incontro con personalità di adulti maturati nella persecuzione, le discussioni ideologiche sincere e vivaci….furono davvero irripetibili scuole di vita….Ho pensato ai giorni antichi, fra i 13 e i 19 anni, e li ho visti “veri”, liberi dall’eterodirezione dei massmedia.”

Di fronte alla morte – continua Leletta – gli ideali politici, l’antifascismo che affratellava persone così diverse, l’amicizia, la ricerca, la stessa povertà, acquistavano un rilievo tutto speciale.
Fu questo uno degli aspetti più esaltanti dell’epopea partigiana, fu proprio questa alleanza tra persone diverse per classe sociale e scelte di vita, tra intellettuali e popolo, che per la prima volta nella sia pur breve storia d’Italia si manifestava in modo così ampio, con reciproco arricchimento.

C’è un famoso episodio dei Piccoli Maestri in cui Meneghello parla della sua ammirazione per la naturale capacità di muoversi nelle situazioni più difficile dei “ragazzi di Roana”, i giovani montanari aggregati al loro piccolo nucleo di studenti vicentini, tutti di estrazione borghese, che a loro volta avevano trovato in Giuriolo un vero maestro, capace socraticamente di educarli nel senso originario della parola: tirare fuori il meglio dalle loro anime senza imporre alcunché, senza salire in cattedra. Perché è questo che fanno i veri maestri, aiutano gli individui ad essere se stessi. Esattamente il contrario dell’indottrinamento fascista che si sovrapponeva, soffocandole, alle singole individualità. Tolto il tappo asfissiante della “cultura” fascista, ecco una sensazione leggera e preziosa di libertà che fa dire a molti partigiani, a guerra finita, che quello è stato il tempo migliore della loro vita.

Penso ai nostri giovani: ma in una vita che non esige veramente da nessuno il compito di resistere, quale può essere “il tempo migliore”? E’ forse questa assenza di valori alti per cui lottare che non dà pace alle nostre coscienze di “figli di un avvenire facile e lieto” che tante morti e sacrifici è costato a coloro che lo hanno reso possibile?

“Esistono uomini le cui qualità modellano la storia, e altri di cui la storia crea le qualità e le virtù.” (Borgna, 2015). Molti di coloro che animarono con le loro idee e le loro azione la lotta partigiana, in particolare gli azionisti, non erano politici, ma uomini che venivano dalle professioni e dalla società civile, come Agosti, Bobbio, Livio Bianco, o qui da noi Gallo, Licisco Magagnato, Meneghello, Caneva, Ghiotto, e alle loro professioni o al loro lavoro tornarono dopo la guerra. In alcuni casi ne vennero ricacciati, perché il Partito d’Azione che avevano fondato o cui avevano aderito, ebbe vita assai breve, e si sciolse nel 1947.

Mi sono chiesta molte volte se l’aver messo da parte forze di tale valore non abbia impoverito intellettualmente e moralmente il nostro Paese assai gravemente ma si sa, la storia non si può fare con i se.

Certo a guerra finita, uomini di tale fatta poterono avviare la ricostruzione di un Paese allo sbando mostrando, dopo il coraggio nella lotta e il contributo dato a scrivere la Costituzione Repubblicana, “il coraggio dei giorni grigi”.
Oggi si sta ponendo mano alla Costituzione nata dalla Resistenza. Probabilmente è necessario, ma inquieta che lo faccia una classe politica che evidentemente presume molto di sé, e a cui converrebbe aver studiato molto di più e con più umiltà.

Tornando all’eccidio di Malga Zonta, le polemiche pretestuose, i sofismi sui nomi e sui numeri, la pretesa di interpretare il perché di alcune scelte del “Marinaio” che –ricordiamolo – era un giovane di 19 anni, le trovo inutili, in alcuni casi stupide e – temo – in malafede.
Il saggio di Simini e le ricerche condotte dagli storici del Museo Storico del Trentino ci dicono quanto è a noi dato sapere. Solo il “Marinaio” e gli uomini che stavano con lui potrebbero chiarire il perché delle scelte fatte in momenti terribili, ma sono tutti morti. E di certo l’eco degli spari della loro battaglia permise ai compagni rifugiati nelle malghe vicine di mettersi in salvo.
Ciò che è certo, senza possibilità di dubbio, è che i rapporti di forza tra il piccolo gruppo di partigiani, dotati di non più di quattro fucili, e la potenza di fuoco e di uomini tedesca erano enormemente sfavorevoli ai primi e nelle condizioni date il piccolo nucleo partigiano dette prova di straordinario coraggio, al limite della temerarietà. Il “Marinaio” e i suoi compagni, quasi tutti giovanissimi, si mossero con ardimento e intelligenza, tenendo in scacco i tedeschi per ore, e riuscendo a far prigionieri due ufficiali, cui peraltro concessero salva la vita.
Bruno Viola non usò la vita di questi due uomini per barattarli quasi fossero merci, concesse loro la salvezza. Quando la situazione si fece insostenibile, fece uscire i suoi compagni a mani alzate, illudendosi di trovare dall’altra parte la sua stessa generosità.
Il comandante tedesco certo non si mostrò all’altezza del giovanissimo capo partigiano il cui motto era: “guerra alla guerra”!
Uno sguardo attento meritano le poche immagini scattate prima dell’esecuzione. Ci mostrano volti tranquilli, serenamente consapevoli del proprio destino di morte. Ancora una lezione di dignità da Malga Zonta, preziosa per tutti noi, che anche gli irriducibili polemisti dovrebbero imparare a rispettare in silenzio.

 

C’è chi ha voluto considerare meritorio per i tedeschi il fatto di aver scelto di uccidere “solo” diciassette uomini, lasciandone andare liberi due o tre pure presenti all’interno. Come se non fosse proprio questo spaventoso diritto di alcuni uomini di ergersi ad arbitri della vita e della morte di altri uomini il fatto disumano, tremendo, che caratterizza le ideologie totalitarie.

Ecco perché è impossibile equiparare, come si è ripetutamente tentato di fare in questi ultimi confusi decenni, violenza fascista e violenza partigiana.
Per ignoranza o malafede non si è tenuto minimamente conto delle riflessioni di uomini6 come Aldo Capitini, che hanno saputo distinguere tra terrore e orrore: il primo consente di impadronirsi della vita degli altri, condizionandone la libertà, ed è tipico del fascismo, del
nazismo, di tutti i totalitarismi. I nazisti, dei quali qui si tratta, avevano ipotizzato fin dal 1942 la necessità di terrorizzare con ogni mezzo le popolazioni dei territori occupati, al fine di impedire loro di dare qualsivoglia aiuto alle forze partigiane che iniziavano ad organizzarsi. Questo sperimentarono con particolare efferatezza nell’Europa orientale, e non è un caso che molti dei comandanti che ordinarono le stragi più feroci, nell’Italia centrale come nelle nostre terre, si fossero per così dire “fatte le ossa” negli spaventosi eccidi che cancellarono intere comunità nell’Est europeo.

L’orrore che nasce alla vista delle violenze disumane di questi ultimi, ha generato tra i civili, ma anche nei partigiani, come testimoniato in moltissimi scritti, il rifiuto della violenza fine a se stessa e la ferrea volontà di combattere per un mondo di pace.
Dopo la fucilazione di Willy Jervis, un ingegnere di 42 anni di fede valdese, sposato e con due figli, fu rinvenuta nella tasca della sua giacca un piccola Bibbia; sulla contro copertina della stessa aveva inciso in stampatello, con uno spillo, nei lunghi mesi della detenzione e delle torture, queste parole rivolte alla moglie:

“Mio amore caro, dato come si sono svolte le cose temo non ci sia oggi più speranza. Sia fatta la volontà di Dio. Avrò fede fino all’ultimo. Sono sereno, Dio mi conforta. Sono certo tu pure troverai in Dio le consolazioni. Penserò sempre a voi.”

Si può essere soddisfatti della propria vita anche quando questa presenta i caratteri della tragedia, se questa tragedia ha un senso, e proietta la sua luce sul futuro. Ci sono delle morti che non estinguono, ma compiono un destino. Così fu per Willy, e credo per moltissimi altri di cui purtroppo non sono conservati nemmeno i nomi. Così fu per i diciassette morti di Malga Zonta, tant’è che siamo qui a ricordarli, ricordando insieme il sacrificio degli sconosciuti.

Tutto questo ha a che fare con quella “moralità” su cui tanto insistevano gli azionisti e che oggi sembra diventata un retaggio linguistico d’altri tempi.
Torniamo infine al prezioso monito di Ettore Gallo: “Tutti legati a un patto…” lanciato in occasione del 40° anniversario dell’eccidio, ricordando alle giovani generazioni quell’alleanza tra antifascisti che nel rispetto delle reciproche posizioni di uomini e donne combattenti, civili, cattolici, comunisti, azionisti, operai, studenti ha consentito a tutti noi di vivere liberi.

C’è una Resistenza a cui siamo chiamati anche oggi, ed è la resistenza al torpore morale, all’insensibilità, ai piccoli egoismi di bottega o di famiglia.
RESTIAMO UMANI! Questo l’invito con cui il giovane cooperante Vittorio Arrigoni concludeva ogni suo intervento, e che probabilmente rivolse anche ai terroristi che lo uccisero.
RESTIAMO UMANI, questo l’invito che faccio oggi a tutti noi.

Viva la Resistenza, viva la Costituzione Italiana, l’Europa unita e solidale, la pace.

 

Carla Poncina

 

1 Paolo Borgna, Il coraggio dei giorni grigi, 2015, p. 81.

2 Nell’ambito vicentino penso a Toni Giuriolo, Ettore Gallo, Neri Pozza, Gigi Meneghello, per non citare che i più noti, tutti appartenenti al Partito d’Azione.

3 Cfr. Meneghello, I piccoli maestri: “Da Giuriolo s’impara quello che si dovrebbe imparare a scuola.”; “E così fu adunata la bella scuola di Toni Giuriolo in Altipiano, la nostra bella scuola”. (Si fa riferimento all’ed. Rizzoli del 1976, p. 45 e p. 113). La più grande pensatrice politica del secolo scorso, Hannah Arendt, parla di selbst-denken, quel pensare da sé in cui solo consiste la libertà e che non significa isolarsi, ma muoversi in un mondo libero: legame segreto tra azione e pensiero, pensiero per sua natura non dogmatico, ma dialogico.

4 La recensione di Ramat, del 1947, è contenuta nell’opera: Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, 1947, riedita con lo stesso titolo da Sellerio, 2014, p. 333.

5 Ivi.

6 Il riferimento è a Claudio Pavone e Norberto Bobbio, e al saggio Sulla Guerra Civile, 2015, che contiene queste riflessioni.