Commemorazione di Vallortigara – Domenica 12 giugno 2022

Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione,
andate nelle montagne dove caddero i Partigiani,
nelle carceri dove furono imprigionati, nei lager dove furono sterminati.
Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità,
andate lì, o giovani, con il pensiero, perchè lì, è nata la nostra Costituzione
Pietro Calamandrei
Luigi Poletto – Anpi Vicenza

L’EPISODIO DI VALLORTIGARA

La vicenda che ricordiamo oggi è nota: la pattuglia partigiana che ne è protagonista secondo la magistrale ricostruzione dello storico Ugo de Grandis è formata da un gruppo di giovani di Sant’Antonio al comando di Bruno Brandellero “Ciccio”: Domenico Chiumenti “Lince”, Silvio Cortiana “Fiamma”, Luciano dalle Mole “Lancia”, Enrico Penzo “Crinto”, Mario Piazza “Nostrano”, Paolino Piazza “Pedro”, Alcide Roso “Gallo”, Antonio Trentin “Battaglia”, Enrico Zambon “Scimmia”, Rino Valmorbida “Spiridione”.

A seguito di una decisione assunta dai massimi livelli militari della Brigata “Garemi” (Nello Boscagli, Clemente Lampioni, Luigi Pierobon, Igino Piva, Attilio Andreetto) la pattuglia viene ridislocata dal fianco destro della Val Leogra al bacino del Tretto e il 16 giugno 1944 si trasferisce da Sant’Antonio a Vallortigara. La pattuglia però è coinvolta in un enorme rastrellamento precedentemente deciso, ma poi attuato rapidamente quale risposta ai sabotaggi contro gli stabilimenti industriali scledensi requisiti dai tedeschi a scopo bellico.

Nel cruento scontro a fuoco Enrico Penzo e Luciano Dalle Mole vengono feriti e poi recuperati, Mario Piazza viene ucciso, Enrico Zambon si arrende e poi è barbaramente eliminato con un colpo di pistola alla nuca. Gli altri partigiani riescono a sganciarsi. Benchè in inferiorità numerica e con un armamento meno moderno, i partigiani provocano la morte di alcuni militari rastrellatori.

I 17 abitanti della contrada vengono radunati per essere soppressi per rappresaglia. In quel momento Bruno Brandellero – rimasto isolato e con l’arma inceppata – esce allo scoperto, si identifica come il capo dei partigiani e afferma vibratamente di avere costretto lui i civili ad ospitare il nucleo partigiano.

Due altri partigiani – Renzo Ghisi “Scapaccino” e Guido Vigoni “Mantovan” originari di Ostiglia nel mantovano – vengono intercettati nell’area di Santa Caterina di Tretto. Il primo è percosso brutalmente, ferito ai piedi e trascinato da un carro per undici chilometri e poi finito con una raffica di mitra, il secondo è condotto via e scompare nel nulla.

Due altri giovani Mario Cichellero – partigiano – e Angelo Lovato – ritenuto partigiano per i suoi abiti nonostante possa esibire dei documenti che lo esonerano dal servizio militare – vengono fucilati e una lapide oggi li ricorda. Altre vittime del rastrellamento sono Giovanni Cervo e Guido Cortiana.

Bruno Brandellero è condotto a Valli e poi alla caserma “Cella” di via Rovereto a Schio e successivamente al carcere di San Biagio a Vicenza e infine a Marano dove vi è il comando del 263° Battaglione Orientale. Sottoposto a feroci torture, Bruno non fa alcuna rivelazione ed è ucciso a colpi di mitra nella notte tra il 25 e il 26 giugno 1944. Insignito della medaglia d’oro al valor militare, lo ricordiamo con affetto perché quest’anno ricorre il centenario della nascita.

Il ricordo di questa vicenda dovrebbe rafforzare il tessuto connettivo morale della nostra comunità, ma la famosa frase di Bertolt Brecht nella “Vita di Galileo” “Sventurata la terra che ha bisogno d’eroi” mal si adatta ad un Paese desertificato di valori e propenso all’oblio della storia per cui è forse necessario capovolgere il concetto e dire “Maledetto il Paese che non riconosce i propri eroi”.

LA RISCRITTURA DELLA STORIA E L’URGENZA DI UNA NUOVA NARRAZIONE
E’ in atto una potente offensiva relativamente alla storia del nostro Paese. Storia che si vuole riscrivere contrapponendo al paradigma antifascista una nuova narrazione anti- antifascista.

L’offensiva culturale si esercita su 4 direttrici:

  1. La prima operazione tende a riabilitare il fascismo. Il fascismo storico viene considerato una forma di autoritarismo benevolo e dolce; vengono sottolineate le innovazioni modernizzatrici in materia di Welfare. La connotazione criminogena del fascismo è invece acclarata: Emilio Gentile ha parlato di “esperimento totalitario”.
  2. La seconda operazione si impernia sulla retorica della pacificazione e della memoria condivisa. E’ una operazione melmosa e strumentale: la pacificazione sottende la parificazione. Non si può annegare la storia del Novecento nel mare dell’indistinzione: la frattura morale che ha dato origine alla Repubblica va preservata e ribadita.
  3. La terza operazione utilizza artatamente il concetto di totalitarismo per delegittimare la Resistenza in quanto inquinata dalla componente comunista; in realtà non si può non ricordare il ruolo fondamentale esercitato dal PCI nella partecipazione alla Resistenza, nella stesura della Carta Costituzionale, nella difesa dei diritti dei lavoratori dal dopoguerra in poi e nella lotta al terrorismo.
  4. In quarto luogo la tragedia delle foibe viene agitata strumentalmente. Non si negano gli eccidi – seguendo le tesi di Raoul Pupo – animati da intenti epurativi, punitivi e intimidatori. Tuttavia è sacrilega l’equiparazione tra foibe e Shoah e vanno sottolineate le decisive responsabilità italiane per la politica assimilazionista nei confronti degli sloveni e per l’occupazione della Iugoslavia.

IL SIGNIFICATO DELLA RESISTENZA

La via maestra per contrastare questa operazione pianificata di riscrivere la storia del nostro Paese è sottolineare il ruolo della Resistenza nella storia. Io lo faccio attraverso il contributo di tre tra i maggiori storici della vicenda resistenziale.

Per Claudio Pavone la Resistenza vede l’intreccio di tre guerre:

    •   una “guerra patriottica” attivata per la liberazione dell’Italia dall’invasore tedesco,
    • una “guerra civile” combattuta tra le formazioni partigiane e il fascismo della Repubblica Sociale Italiana
    • una “guerra di classe” quale istanza di radicale rinnovamento e di trasformazione sociale del Paese.
 
 

In secondo luogo la Resistenza esprime una sua “moralità”: con la Resistenza l’Italia riscatta se stessa e il Paese recupera la dignità perduta. Alla base della Resistenza vi è la” scelta”: gli uomini e le donne che la praticano sia in forme armate sia in forme civili ad un certo punto compiono una scelta. Decidono di schierarsi dalla parte della libertà e di contrastare i nazifascisti

Santo Peli rifiuta esplicitamente il modello di una Resistenza autoreferenziale e viene quindi letta come il faticoso tentativo di individuare uno spazio autonomo tra le forze già operanti nello scenario bellico italiano. Inoltre la Resistenza viene depurata dai suoi aspetti agiografici e retorici e dalle narrazioni monumentalizzanti per assumere i connotati di un fenomeno complesso e multiforme. Infine in assenza di una Resistenza armata con ogni probabilità l’Italia sarebbe stata monarchica e la Costituzione non avrebbe contenuto alcun carattere innovativo in tema di giustizia sociale.

Molte delle ambizioni che i partiti di allora coltivarono (dalla “democrazia progressiva” dei comunisti alla “rivoluzione democratica” degli azionisti) non è rimasto nulla ma oggi secondo Giovanni de Luna occorre “ripartire dalla Resistenza degli uomini” e il testimone della Resistenza è oggi raccolto da chi rifiuta il conformismo e si batte per una società migliore

LA VIOLENZA NELLA RESISTENZA

L’impiego della violenza da parte dei partigiani è uno dei temi più frequentemente utilizzati per delegittimare la Resistenza. Sono a mio giudizio quattro le caratteristiche della violenza dei partigiani:

  1. Innanzitutto è una “VIOLENZA SELETTIVA”. E’ una violenza che tende a sottrarsi all’arbitrio del singolo e non è mai indiscriminata e stragista. Luigi Meneghello ne “I piccoli maestri” ricorda il timore e il tormento con cui si dosa la violenza e si da un senso alla violenza (“Dovevamo giustificarci ogni più modesta esplosione, ogni più piccola morte… Non spaventare senza bisogno, non assassinare senza spiegazioni”).
  2. In secondo luogo poi è una “VIOLENZA FINALIZZATA” a eliminare anomia e terrore, realizzare un nuovo ordine fondato sui diritti e sulle libertà.
  3. In terzo luogo ci troviamo di fronte ad una “VIOLENZA DIFENSIVA”. Quella dei partigiani è una violenza interpretata – dice Claudio Pavone – come “dura necessità” e una violenza usata in modo contingente “per renderla in futuro impossibile”, contrapposta alla “violenza come seduzione e come valore” dei fascisti.
  4. Infine – ed è questa la quarta caratteristica – la violenza dei partigiani è una “VIOLENZA OBBLIGATA”: astenersi dall’azione militare avrebbe significato privare l’Italia di ogni possibilità di riscatto e di esercizio di un ruolo autonomo delegando agli Alleati ogni scelta.

DALLA RESISTENZA ALLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA. NO ALLA GUERRA

Il principale esito della Resistenza è stata la Costituzione repubblicana che realizzò un efficace compromesso tra le diverse forze e culture politiche che componevano in modo policromo e pluralista il Comitato di Liberazione Nazionale. Tale compromesso produsse i principi fondamentali ispiratori della Costituzione italiana: il principio democratico, il principio personalista, il principio pluralista, il principio lavorista. Oggi la vera sfida si gioca in materia di attuazione della Costituzione soprattutto relativamente alle c.d. “norme programmatiche” (pensiamo all’art.3 secondo comma relativo alla c.d. “uguaglianza sostanziale”). In definitiva è possibile distillare dalla Carta Costituzionale un progetto egualitario in un Paese in cui il 20% più ricco possiede oltre il 70% della ricchezza.

Ha ragione Gustavo Zagrebelsky quando dice che la nostra Costituzione è una Costituzione “contro lo status quo”, una Costituzione d’opposizione e lo spirito costituzionale è spirito resistenziale nei confronti dei poteri politici, economici e culturali dominanti.

La Carta Costituzionale contiene anche un inderogabile “principio pacifista” contenuta nell’art. 11. Ecco perché nel quadro di una convinta solidarietà verso la popolazione ucraina aggredita l’Italia deve evitare qualsiasi escalation e azioni tali da metterla in una posizione di co-belligeranza, ma deve adoperarsi insieme agli altri partner europei con una forte iniziativa autonoma perché si arrivi con il negoziato ad una soluzione diplomatica fondata sul disarmo e sulla coesistenza pacifica.

IL CONTRASTO AL NEOFASCISMO

L’ultima questione riguarda il neofascismo. Il neofascismo sta dilagando e la destra radicale rappresenta una vera e propria emergenza democratica. Certo ci troviamo di fronte ad un neofascismo liquido e proteiforme, ma la reazione di gran parte del mondo politico e delle istituzioni è una sorta di “silenzio assordante”.

I movimenti neofascisti si fanno imprenditori della paura per il flusso degli immigrati e le loro idee razziste e xenofobe trovano fertile terreno di diffusione in una società infragilita dalle disuguaglianze sociali, dalla pandemia e dalla crisi economica. I principali gruppi di estrema destra si dotano di un network associativo di carattere sociale e che si maschera e si mimetizza.

Lo storico Claudio Vercelli parla di “destre fascistizzanti”: il fascismo non è mai stato definitivamente sradicato dal continente europeo, nemmeno con la cesura epocale del 1945 e ha saputo “rigenerarsi” assumendo nuove forme e adattandosi alle trasformazioni sociali e ai cambiamenti della politica. Il fascismo ha lasciato nella società italiana un “lungo calco”, una cicatrice su cui i suoi eredi di oggi fanno leva per riproporre un nucleo di valori tradizionali: identità gerarchia, ordine.

Per battere il neofascismo occorre una risposta multidimensionale, politica, istituzionale, culturale e sociale. Prima di tutto bisogna dare piena attuazione alla XII disposizione transitoria della Costituzione e utilizzare le armi fornite dalle leggi Scelba e Mancino per sciogliere i partiti e i movimenti neofascisti.

Oggi come ieri la via maestra per sconfiggere neofascismi e postfascismi è quella dell’unità antifascista. Non dissipare l’eredità dei partigiani, battersi per un’Italia migliore in un’Europa unita e solidale, impegnarsi per dare attuazione ai contenuti di giustizia, emancipazione, tutela dei diritti che la Costituzione ci indica è dovere di tutti noi oggi. Che il loro sangue non sia stato versato invano.

Franco Balzi – Sindaco di Santorso

Quattro passi con Bruno e con Gino, sui sentieri di Vallortigara.


Mi sono immaginato di camminare con loro, per qualche minuto, e di provare a conversare, alla ricerca di risposte.

Mi trovo qui, per la seconda volta nel giro di pochi anni, con il compito di trovare le parole giuste per questa importante cerimonia. Come nella prima occasione ci ho riflettuto un pò, dedicandoci il tempo dovuto per non dire cose banali o retoriche, e per cercare di offrirvi il mio contributo personale, che spero possa essere occasione per un approfondimento reciproco. O anche semplicemente individuale.

Vi anticipo subito che rispetto alle questioni su cui in questo luogo ogni anno torniamo a riflettere non ho da mettervi a disposizione risposte illuminanti, che indicano con certezza una strada, quanto piuttosto domande aperte e irrisolte.
Da un intervento di un sindaco si vorrebbe qualcosa di chiaro e rassicurante: stavolta vi dovrete accontentare di qualcosa di diverso, perché non sono certo in grado di proporvi soluzioni, quanto piuttosto alcune delle mie inquietudini e una riflessione onesta su domande a cui da sempre l’uomo comune, dal filosofo al contadino, si interroga e fatica a trovare risposta.

Qui ci troviamo ogni anno a parlare di quanto di più sacro abbiamo, come comunità: parliamo di PACE.
Con convinzione ne sottolineiamo l’importanza, il valore fondamentale.
Farlo in questo luogo assume un significato particolare, lo sappiamo bene: questi alberi, questi sentieri hanno visto quello che di cui cerchiamo di fare memoria, considerato che qui qualcuno ha incarnato con il proprio sacrificio i valori in cui crediamo.

Parliamo ogni volta di GUERRA, e aggiungiamo che quanto accaduto non deve più ripetersi, perché non solo è l’espressione più terribile della nostra potenziale disumanità, di quel pezzo di MALE che ci portiamo tutti dentro, ma è anche, alla luce di quello che la tecnologia ci ha portato a possedere nel tempo, l’inizio della nostra potenziale fine, come esseri umani.

Parliamo di Pace, di guerra, e parliamo anche e soprattutto di RESISTENZA, per sottolineare l’importanza di un impegno quotidiano che cerca di tenerne vivi i valori.
E ricordiamo quella generazione che si oppose con coraggio al nazifascismo che aveva reso il nostro Paese schiavo di una tirannia. Parliamo di ragazzi che lasciarono le loro case e vennero a combattere qui in montagna, imbracciando quei fucili che in qualche modo erano riusciti a recuperare, per combattere e liberare una nazione oppressa e umiliata.

Non posso evitare di partire da quello che ci accade intorno, ed in particolare da ciò che da ormai quasi 4 mesi caratterizza la vita di questa nostra Europa, a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e del terribile conflitto che ne è scaturito.
Anche lì ci sono persone che combattono per la difesa del loro Paese invaso, per liberarlo da un oppressore che uccide, violenta, tortura, saccheggia e deporta.

Anche lì si parla nuovamente di Resistenza, di diritto alla difesa armata, e si chiede aiuto per non essere travolti e salvaguardare la propria libertà.
E tutto questo, lo sappiamo bene, ci vede direttamente coinvolti, con scelte che vanno nella direzione di una accresciuta spesa militare, e che ci interrogano sulla coerenza con cui ci richiamiamo a quello che fu scritto all’art.11 della nostra Costituzione, proprio con il sangue dei martiri ricordati qui alle mie spalle.

Mi sono immaginato di camminare a fianco di Bruno Brandellero (e con Gino Strada) , e di conversare con loro lungo questo sentiero, da pacifista convinto come ritengo di essere, e di provare a chiedergli cosa è giusto fare, di fronte a una situazione così tragica e dolorosa per il popolo ucraino, ma anche così drammaticamente pericolosa per l’umanità.
Guardando il suo zaino, e soprattutto il suo mitra e la riserva di pallottole a tracolla, la risposta non mi sembra difficile da trovare: lui e i suoi amici la scelta la fecero, sapendo bene che difendersi voleva dire anche combattere per uccidere il nemico. E che non c’erano grandi alternative a questa prospettiva.

Di fronte ad una nuova aggressione così feroce come quella che si ripete ancora una volta, tutti i miei bei ragionamenti sull’importanza della Pace e sul rifiuto della guerra vanno in crisi. E’ un argomento difficile da affrontare, per chiunque, in particolare per chi come il sottoscritto ha abbracciato e fatto proprio sin da giovane i principi del pacifismo e della non violenza, del rifiuto dell’uso delle armi, del servizio militare e non si sottrae alla riflessione che tutti dovremmo avere sul rischio distruttivo per l’intera umanità di un conflitto nucleare, che è ad un passo dal poter esplodere.

Vi confesso la fragilità e l’impotenza a trovare una risposta chiara alle mie domande: questo, prima di ogni altra cosa, posso oggi condividere con voi.
Siamo in un luogo che ci ricorda di giovani che lasciarono le loro case per difendere e affrancare con le armi il proprio paese, per accompagnarlo ad un futuro libero e democratico. Armi che furono senz’altro indispensabili per contrapporsi ad un nemico – costituito da un esercito straniero che rappresentava una forza prevaricatrice, ma anche da una feroce milizia italiana che aveva sposato quel folle disegno – che per lunghi anni ha infierito sulla popolazione cercando di imporre con la violenza la propria alienata visione del mondo.

E’ indubbio che quelle armi, che in buona parte venivano fornite dalle forze alleate, permisero di rendere incisiva una Resistenza che sfiancò le forze occupanti, e rese onore ad un popolo che non attese una Liberazione fatta da altri, ma la costruì anche con le proprie mani.
Questo dice la Storia, e nessuno la può contestare e modificare a proprio piacimento: le armi servirono, per difendersi e liberarsi di un nemico che opprimeva e uccideva chi non si piegava.

Punto.
Nemmeno chi, come il sottoscritto, resta comunque consapevole della terribile portata distruttiva dell’uso della violenza, nelle sue molteplici forme, e che cerca con fatica di proporre percorsi diversi, può negarlo.
Persino una persona come Dietrich Boenhoffer (che credo possa essere considerato come una delle più profonde e illuminate sul piano etico mai esistite al mondo) arrivò da pastore protestante a cercare in prima persona di eliminare il dittatore tedesco con un attentato, che purtroppo fallì.

Di fronte ad una catastrofe come quella ucraina (senza dimenticare le tante altre guerre che sono oggi presenti nel pianeta: se ne contano ben 170 sparse un po’ ovunque, anche se di molte non sappiamo praticamente nulla, così come poco sapevamo dei 3000 giorni di guerra di bassa intensità che in realtà avevano preceduto questa invasione, forse perché non toccavano troppo direttamente i nostri interessi, ma che comunque avevano già causato migliaia di vittime), potete ben comprendere il senso di inadeguatezza nel sostenere una visione del mondo e delle relazioni umane che sappia rinunciare all’uso delle armi e che ripudi la guerra.

Non si può semplicemente dichiararlo sulla pelle di chi subisce una violenza inaudita, fatta da aggressioni, stupri, morti, deportazioni, volontà di sopraffazione, se non addirittura di sterminio.
I ragionamenti sul valore della Pace e del rifiuto dello scontro militare risultano fragili rispetto ad un popolo che ci ha chiesto aiuto per potersi difendere, a partire da una forte richiesta di invio di armi, per poter contrastare un’aggressione che altrimenti li avrebbe sopraffatti nel giro di pochi giorni. Per opporre Resistenza ad un esercito aggressore, ai suoi capi militari e politici che hanno voluto e determinato questo scempio di uomini, donne, vecchi e bambini.

Anche a me, di primo acchito sembra ineludibile la necessità di reagire, di difendersi, di contrastare il nemico e di proteggere i propri cari, le proprie case, il proprio futuro di libertà.
Come non essere dalla parte di chi è aggredito, di chi subisce una violenza così distruttiva?
La risposta alla domanda fatta a Bruno potrebbe fermarsi qui: quasi sicuramente mi risponderebbe “è giusto farlo”, e credo sia il pensiero di molti di voi: “è giusto difendersi, combattere, cacciare l’invasore e difendere la propria vita e la libertà del proprio Paese. Con tutte le armi necessarie per farlo”.

Vi confesso che non riesco però a fermarmi qui, perché sento comunque dentro di me che questo non è un punto di arrivo, e anzi può essere un punto di non ritorno.

Desidero proporvi un altro pensiero, da aggiungere. E se ci riusciamo, da sostituire all’altro.
Non possiamo rinunciare a farlo, adattando il nostro pensiero ad una visione unica che appare ineludibile, abituandoci in modo passivo. Viviamo in una società schiacciata dall’economia, dalla politica, dai media, e rischiamo di perdere i valori a cui fare riferimento. Manipolati quotidianamente da questo pensiero unico, rischiamo di abituarci, (come tante rane lentamente bollite, che alla fine risultano inconsapevoli e incapaci di reagire alla propria stessa autodistruzione) deresponsabilizzando le nostre coscienze, senza opporci e reagire a questo processo che è certamente distruttivo.

Anche questa può e deve essere Resistenza: analizzare la situazione e cercare soluzioni “altre”, prima che sia troppo tardi.
Proviamo ad allargare per un attimo la riflessione, e ad essere lungimiranti, oltre che coerenti con noi stessi.
Situazioni che ci avrebbero fatto orrore 20, 30 o 40 anni fa sono diventate banali e ci lasciano ormai indifferenti: attentati alla dignità umana, alle libertà individuali, all’integrità della natura, alla bellezza e alla felicità di vivere.
Ora rischiamo di assuefarci alla guerra, soprattutto se è abbastanza distante e non tocca i nostri interessi quotidiani.
Anche questa, che ci ha colpiti più da vicino, comincia ormai ad essere rimossa.
Se all’inizio ci siamo tutti sentiti emotivamente coinvolti, e qualcuno si è attivato per una adeguata accoglienza delle persone in fuga, ora, a distanza di pochi mesi, siamo più preoccupati delle ferie da fare, o dell’aumento dei costi del carburante che la guerra sta determinando, dell’inflazione che aumenta, dell’economia che nuovamente traballa.
E’ normale, siamo fatti così, siamo esseri umani – mi dice qualcuno – dobbiamo guardare avanti.
Si: dobbiamo guardare avanti: ma per farlo dobbiamo cambiare il nostro modo di essere, di pensare, di coltivare le relazioni tra gli uomini.

In luoghi come questi abbiamo ripetuto per anni “mai più la guerra!”, consci non solo che la Storia ci ha insegnato da sempre cosa comporti quella scelta, ma anche consapevoli che la portata odierna del potenziale scontro nucleare sarebbe una via senza ritorno. Eppure “Giù le armi” sembra una frase senza alcun significato, di fronte a quello che accade. Usarle, queste armi, con un’escalation che sembra incontrollabile, appare come l’unica soluzione possibile per non essere sopraffatti dalla volontà aggressiva dell’altro.

Oggi parlare di Pace diventa addirittura divisivo: come minimo si viene accusati di connivenza e di giustificazionismo dell’aggressore. Non possiamo certo non assumere come problema ciò che questo tempo ci sbatte in faccia: la forza prevaricatrice dell’ingiustizia. E la nostra incapacità a farvi fronte in modo efficace.
Ma nemmeno dobbiamo rinunciare a trovare le parole giuste e vere, ad esempio ricordando che “nessuna guerra è inevitabile”.

Ognuno ha i suoi punti di riferimento, dal punto di vista dei valori. E in questo buio così profondo trovo un po’ di luce nelle parole di Papa Francesco, che pur viene così abilmente oscurato, da chi invece soffia in tutt’altra direzione. E non è certo il solo, ad essere rimosso.
“Ogni arma in più va nella direzione della prosecuzione della guerra, non della sua fine. Non avvicina la conclusione delle sofferenze, ma le moltiplica”.

Non lo dico io, che posso sembrarvi un ingenuo idealista, da questo palco che non mi espone ad alcun rischio materiale: lo dicono persone che si sono messe in gioco mettendo rischio la propria vita nei luoghi di guerra (e cito Gino Strada, di Emergency, che già rischiamo di dimenticare), con una prossimità fisica con le vittime di cui si occupavano, per lenirne le ferite.
E come lui tante persone, molte di più di quello che ci viene narrato.

Non dobbiamo soccombere all’idea della guerra necessaria, ma spenderci per l’idea di soccorrere le persone, costruendo le premesse per poter tornare a parlare di pace.
“Stando innanzitutto dalla parte delle vittime, di chi è aggredito, che è l’unica parte giusta” questo me lo dice Gino, e Bruno ascolta attento, sapendo che arrivano da uno che non si è riempito la bocca di parole comode, ma le ha tradotte in gesti concreti.

E a fianco anche di chi si trova coinvolto senza volerlo, obbligato e mandato a combattere dagli uomini di potere che hanno imposto questa folle idea della guerra necessaria, attraverso manipolazioni così profonde da farle apparire come legittime e indispensabili.

Voglio essere a fianco del vecchio ucraino, rimasto solo nel suo paese devastato, con un aiuto concreto.
A fianco della mamma e del suo bambino accolti nelle nostre comunità.
A fianco dell’ucraino costretto a prendere le armi per difendere il proprio paese, ma anche a fianco del ragazzo russo mandato lì da qualcuno a combatterlo.
Vittime entrambe.

A tutti mi sento di dire che è la Pace ad essere necessaria.
Stare vicino a queste persone, con una presenza fisica pacifica che testimonia nei fatti da che parte ci si schiera, può essere il primo passo per costruire la Pace.
Resto convinto che la guerra non potrà mai essere uno strumento per costruire la pace, e faccio fatica ad accettare che sia davvero capace di fermare il nemico e costringerlo a sedersi al tavolo delle trattative.
Penso piuttosto che ogni giorno di guerra in più sia un ulteriore seme di violenza che piantiamo nell’Europa, oltre che nei nostri cuori. Credere che la Resistenza armata sia l’unica o la migliore risposta è un tragico errore: l’unico vero modo per fermare la guerra è quello di sovvertire tenacemente e radicalmente questa logica.

Fermare l’aggressore uccidendolo per difendersi, o addirittura aggredendolo a sua volta, non produce Pace.
So che può sembrarvi ridicolo, ingenuo, impossibile: ma noi dobbiamo trovare il modo per costringerlo a ragionare, questo aggressore, sapendo bene che lui ci sta puntando l’arma contro per eliminarci.
Ma sapendo anche altrettanto bene che noi non possiamo fare altrettanto.

Esiste un’altra via, che si basa sulla risposta non violenta, della disobbedienza civile, della mobilitazione delle forze democratiche di ogni paese.
Ci sono uomini come Papa Francesco – oggi così derisi – che la Pace la possono e la vogliono costruire: diamo a loro il nostro appoggio morale, e sosteniamoli pubblicamente nella loro azione così contro corrente.

Noi dobbiamo occuparci dei feriti, di tutti i feriti e le vittime di questa violenza: e farlo con entrambe le parti. Cercare il dialogo, e non l’aggressione.
Abbracciare il violento è un modo per fermarlo, ed è la dimostrazione che c’è un’altra logica possibile e necessaria. Forse, paradossalmente, l’unica possibile.

Qui oggi ricordiamo la Resistenza.
Resistenza significa certamente non rassegnarsi alla condizione di invasione e oppressione.
Ci sono molti buoni motivi per dubitare che farlo con le armi sia la strada giusta.
Non solo per la morte e il dolore che arreca.
Non tanto perché di fronte ad un nemico così potente può essere una battaglia giusta, ma perdente.
Non solo perché, con il livello di potenzialità distruttiva a cui siamo pervenuti, ci avviciniamo a grandi passi ad un esito catastrofico che non è più circoscritto ai diretti protagonisti, ma all’intera sopravvivenza dell’umanità.
Non solo perché genera una serie di conseguenze incontrollabili, come la crisi economica nell’occidente, e la fame e la carestia nei Paesi già poveri dell’Africa.
E da lì nuovi esodi, nuovi drammi, nuove drammatiche contrapposizioni.

Non ho soluzioni alternative facilmente praticabili, né tanto meno la certezza che siano incisive.
Però so che quella strada – così osannata come inevitabile – è sbagliata.
E so che dobbiamo invece seguirne un’altra.
Perché credo in una diversa umanità. Perché abbiamo ancora questo obiettivo la Pace – da raggiungere.

Si dice: “il pacifismo non ha alcuna possibilità ragionevole di risultare efficace contro un nemico totalitario”.
Vi confesso ancora una volta, con onestà intellettuale, che questa affermazione non può che apparire anche a me come molto vicina alla realtà.
Seguire la strada della non violenza può addirittura apparire ridicolo: è difficilissimo farlo, e può sembrare sterile.
Ma con forza mi sento di affermare l’evidenza di una altrettanto inefficace strada fondata sullo scontro armato, che appare foriero piuttosto di una escalation incontrollata.

Opporsi a questa logica, ed incamminarci su strade diverse, è oggi il modo per poter incarnare i valori della Resistenza.
Lo si può fare, e lo fanno già molte persone.
Non solo da parte di quel popolo che subisce questa situazione, ma lo è ancora di più per chi nel paese aggressore non si piega a questa logica e trova il coraggio, nonostante le forti repressioni e la censura del regime, di non allinearsi al potere del dittatore.
Dobbiamo guardare con ammirazione a chi trova gesti semplici, parole diverse, apparentemente inutili, per opporsi al pensiero di chi vuole imporre la sua logica di violenza e potere.
Non possiamo non parlare qui, se vogliamo parlare di Resistenza, di quei semplici cittadini che portano il proprio dissenso con un cartello nelle piazze dove si ostenta il potere militare; o davanti alle sedi del potere, legandosi tra loro con nastri verdi, sapendo bene che nel farlo saranno arrestati, processati, lasciati senza lavoro, senza reddito. Magari condannati all’esilio, all’oblio, alla morte.
Noi che abbiamo conosciuto il ventennio fascista dovremmo ricordare bene cosa vuol dire.
Però sappiamo che sono stati loro i precursori della nostra rinascita, come paese libero.
Intellettuali firmano oggi coraggiosi documenti di denuncia; artisti e sportivi si rifiutano di prestare la propria immagine e attività alla propaganda del regime; sempre più persone si rendono conto di doversi sottrarre a questa distruttiva deriva autoritaria, e lo fanno con scelte che destano ammirazione.
Sono un modo per dare dignità al proprio paese, alla propria cultura e per gettare un seme di futuro.
Questa è vera Resistenza, e noi dobbiamo sostenere e non lasciare soli questi uomini e donne coraggiosi, che in situazioni estreme sanno andare in direzione ostinata e contraria.

La logica della guerra può e deve essere sovvertita, provvisti delle parole di chi non si rassegna agli slogan del soccorso militare inevitabile, dello scontro militare inesorabile, ma sa sostituirle con le parole del dialogo.
Stare accanto agli ucraini in modo attivo significa essere a fianco a quella parte del popolo russo che nonostante tutta la censura del regime riesce a capire e dissentire.

“Guerra + guerra non fa pace”.
Così mi saluta Gino, con quel suo sguardo che incarna tutte le sofferenze che ha incrociato.
Gli eroi veri sono quelli che si mettono in gioco in prima persona per farsi carico di tutti, secondo un principio di fraternità che non va solo ricordato a parole nelle cerimonie, ma va tradotto nelle pratiche proprio nei momenti più difficili.
Guardo lui, e guardo anche Bruno, che la sua vita l’ha sacrificata per salvare quella di donne e bambini innocenti, in questo luogo.

L’Europa troverà proprio senso tornando ad essere un laboratorio pacifico, di integrazione delle differenze e di costruttore di logiche aperte, e non dalla indipendenza dall’altro, come con tanta enfasi si insiste oggi.
I popoli sono in Pace quando sono legati tra loro, quando rafforzano e moltiplicano le strade che intrecciano le loro esistenze.

Dobbiamo tutti essere tessitori di una trama diversa, fondata sulla vicinanza e sulla radicale opposizione alla guerra. Grazie a tutti per avere ascoltato con pazienza queste mie parole.
Spero possano aiutare ad aprire una riflessione, nella comunità, nelle vostre famiglie, nei vostri cuori.

Buona Resistenza a tutti.