Bassano del Grappa, 26 settembre 2025
Commemorazione dell’eccidio del Grappa e dei martiri di Bassano
Signor Sindaco, autorità civili, politiche e militari, rappresentanti delle associazioni combattentistiche e partigiane, cittadine e cittadini, studentesse e studenti la cui presenza qui, oggi è particolarmente preziosa, ricordare e commemorare oggi insieme a voi i drammatici avvenimenti che 81 anni fa colpirono queste terre e la città di Bassano è un impegno che ci coinvolge tutti profondamente. Sento la responsabilità di usare le parole giuste, quelle che pur nel ricordo di eventi tremendi servono a ricucire i fili di una comunità che a volte in passato ha rischiato di lacerarsi, ma si è poi sempre ritrovata, senza omissioni, nel semplice rispetto della verità.
È importante tornare ai momenti che pur nella loro drammaticità sono diventati parte fondamentale del nostro essere comunità, e poiché è grande il peso delle parole, permettetemi di servirmi di quelle di un poeta della nostra terra, Andrea Zanzotto, scritte quando le ferite della guerra e la loro memoria bruciavano ancora:
Che ne è dei morti, degli offesi per sempre?
Restano sulle strade, così, non chiedono nulla, ma nessuna parola, nessun cielo, nessun riposo li toglie dalla nostra mente…
Ora gli anni sono più freddi, le stagioni hanno una luce più diluita e quasi malsicura… e una mite paralisi, una ignava volontà di dimenticare, ci sta intorno.
Era il 1946, e l’ignava volontà di dimenticare di cui parla Zanzotto risulta ancor più colpevole oggi che le immagini di morti sulle strade, tra le macerie, sotto le tende, uccisi dalle bombe o dai soldati, entrano tutti i giorni nelle nostre case.
E a maggior ragione ribadiamo che nonostante ciò che pensano e dicono gli scettici non c’è retorica nella ritualità solenne di queste commemorazioni, che alla memoria del passato uniscono un forte monito rivolto alle coscienze, in particolare di noi europei, per non ricadere come sonnambuli negli errori e negli orrori del passato.
Commemoriamo i morti, ma è delle loro vite che in realtà ci occupiamo, e del significato che a distanza di tanti anni hanno per noi oggi, aiutandoci a rimanere vigili, consci che resistere alla disumanizzazione che appare farsi sempre più strada costituisce un dovere morale per ogni essere umano, ieri come oggi.
In questi ultimi tre anni è cresciuta in noi, nati e cresciuti in un mondo libero, un’inquieta consapevolezza del momento inaspettatamente difficile che stiamo vivendo. Questo ci impone di ricordare con particolare riconoscenza chi ha perso la vita lottando per ottenerlo questo mondo più libero e giusto.
Ottant’anni fa, nella tarda primavera del 1945, dopo la vittoria contro il nazifascismo, si credette di essersi lasciati alle spalle guerre e massacri come quelli perpetrati nel corso dei due conflitti mondiali che avevano insanguinato la prima metà del secolo scorso.
Venti milioni di morti costò il primo, sessanta milioni furono le vittime del secondo. Si era toccato il fondo e questo –si pensava – ci avrebbe reso immuni dal cancro della guerra.
Mai più genocidi si disse allora, dopo aver conosciuto le inenarrabili atrocità dei lager nazisti.
Con la solenne Dichiarazione Universale dei Diritti umani sancita nell’ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE, riunite a Parigi il 10 DICEMBRE DEL 1948, i rappresentanti di popoli ancora segnati dalle ferite della guerra, firmarono un ferreo impegno al mantenimento della PACE.
Nonostante la guerra fredda che subito dopo la fine del conflitto, raggelò i rapporti tra i vincitori, e vide le grandi potenze dividersi in due blocchi, quello occidentale facente riferimento agli Stati Uniti e quello orientale guidato dall’Unione Sovietica, l’Europa ha comunque potuto godere di un ottantennio di pace e prosperità.
Oggi proprio l’estremo indebolimento degli organismi sovranazionali facenti capo all’ONU che ha caratterizzato questi ultimi anni ha ridato voce e spazio alla guerra, in nome di sempre più forti ed egoistici nazionalismi. La parola stessa “Nazione”, ripescata dal lessico novecentesco, è tornata in auge in Italia al posto di Stato, Paese o Repubblica, totalmente dimentichi degli enormi danni inflitti all’Europa dai nazionalismi novecenteschi, e in particolare da quello tedesco e italiano.
Abbiamo subito passivamente la “normalizzazione” – se così si può dire – del concetto stesso di GUERRA, come fosse una calamità naturale da cui non è possibile difendersi, al pari dei terremoti e delle inondazioni.
Non è così: Nati non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. Dante ha indicato molti secoli fa qual è il dover essere dell’uomo, per cui “ogni azione umana è sempre male o bene, verità o menzogna, carità o peccato”. Sono parole di Natalia Ginzburg, ebrea per discendenza e cattolica per scelta. Sta a ciascun uomo o donna scegliere se vivere solo per i propri egoistici interessi o far fiorire le comunità umane grazie alla convivenza pacifica, nel rispetto della dignità di ognuno.
La scelta
Vorrei soffermarmi un po’ sulla parola “scelta”, e sul valore morale che essa assunse nel momento in cui, dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, si dovette decidere da che parte stare: con gli occupanti tedeschi e i fascisti di Salò, postisi immediatamente al loro servizio, o con chi aveva deciso di combatterli “per un muto bisogno di decenza”, come rispose Primo Levi ad un intervistatore che gli aveva chiesto per quale motivo dopo l’8 settembre avesse deciso di salire in montagna.
Ci voleva molto coraggio per salire in montagna, ricordiamolo, a patire fame e disagi, sempre a rischio della vita, mentre sarebbe stato assai comodo farsi vestire, nutrire, armare e difendere dai soldati del più terribile esercito che mai si fosse visto, ma questa fu la scelta di molti italiani, in gran parte giovani cresciuti sotto la dittatura, che li aveva inquadrati fin da bambini sulla base delle nuove tavole della legge imposte dal regime, tra le quali spiccavano, scritte anche sui muri delle case: “Credere, Obbedire, Combattere” e “Mussolini ha sempre ragione”. Può sembrare oggi un po’ ridicolo, ma lo si insegnava a scuola come un non discutibile comandamento.
Il pessimo andamento della guerra risvegliò le coscienze che il regime aveva addormentate. Si capì in fretta come il fascismo della Repubblica Sociale Italina, messa frettolosamente in piedi dai tedeschi dopo l’8 settembre, fosse vergogna e tradimento della Patria, consegnata ai tedeschi occupanti , deportazione dei fratelli italiani, ebrei e antifascisti, nei lager tedeschi.
Dopo l’8 settembre a salvare l’onore dell’Italia furono tra i primi gli IMI. In 650 mila preferirono la prigionia nei campi di lavoro in Germania e Polonia al tradimento della Patria, come ha ricordato recentemente il Presidente Mattarella in occasione della prima giornata nazionale degli Internati Militari Italiani. Pagarono un prezzo personale altissimo e si presume che almeno 50 mila di loro abbiano perso la vita per le durissime condizioni di lavoro, al limite della sopravvivenza, ma come ha detto il Presidente, con quel NO ai fascisti di Salò e alle truppe di occupazione tedesche difese la dignità e il senso autentico dell’amor di Patria, dopo che lo stesso vertice dello Stato si era dissolto”.
La Patria fascista si era mostrata “gonfia di vuoto”, per dirla con la Ginzburg una mera costruzione retorica cui erano stati immolati migliaia di uomini.
Fu forse il primo, importante atto di Resistenza degli italiani contro il nazifascismo, per molti anni misconosciuto e solo recentemente debitamente onorato, e sta lì a dimostrare il valore fondativo della Resistenza stessa, da cui ebbe origine la nostra Repubblica e la nostra Costituzione (1)
(1) Ricordo questo soprattutto per i più giovani, perché capiscano che lo studio della storia rappresenta una forma di autocoscienza insieme personale e collettiva…
Ma veniamo ai tragici fatti che oggi commemoriamo
La terribile vicenda dei martiri di Bassano ha rappresentato il mio primo approccio alla narrazione resistenziale. Ogni anno, all’inizio dell’estate, salendo in montagna con la famiglia per le vacanze, si faceva sosta in questa città che mi appariva bellissima, nel disegno delle case, nei colori, dall’aria così limpida e dolce. Contrastava con tutto ciò il breve cenno che immancabilmente mio padre faceva, camminando lungo il Viale dei Martiri, alla drammatica sorte dei giovani le cui immagini –in alcuni casi- erano state fissate ai tronchi degli alberi.
Quel tratto di strada aveva anche per lui un carattere sacro.
Fu così che Bassano rimase per me indissolubilmente legata al racconto, seppur solo accennato, di storie vive nella sua memoria e nella sua coscienza come in quella di molti italiani.
Il rastrellamento del Grappa di cui l’eccidio di Bassano fu l’ultimo atto, è ormai stato ricostruito dagli storici locali e nazionali (2) minuziosamente, con una precisa identificazione di quasi tutti i partecipanti, tedeschi e italiani, individuati nei loro ruoli: attori principali, comprimari, tragiche comparse.
(2) Opocher, Capovilla, Maistrello, Residori, Gramola…
Ma il senso ultimo di quanto accadde era implicito nel comunicato del colonnello della SS-Polizei Paul Zimmermann del 17 settembre 1944, diretto alle truppe in procinto di entrare in azione: “Uccidete tutti coloro che catturerete, distruggete i loro corpi rendendoli irriconoscibili, agite pensando di avere davanti il peggiore nemico, un assassino senza scrupoli, che vi colpisce nell’ombra, alle spalle, incendiate tutto, ricordate che la popolazione parteggia per i ribelli!” (3)
(3) Testimonianza di Livio Morello dal libro di Opocher…
Ecco, la sintesi veritiera di quanto accaduto si palesa nelle parole stesse di chi ha diretto la carneficina. Ne sono testimonianza visiva le immagini contenute in un libro-documentario uscito a cura del CLN bassanese nel primo anniversario della liberazione, il 25 aprile del 1946, con una intensa introduzione di Alcide De Gasperi, che molto mi colpì.
Alcune foto risultano terribili, perché riprendono da vicino i corpi straziati e ricoperti da grumi di sangue, buttati per terra, appesi alle forche improvvisate. Ma colpiscono ancora di più, se possibile, i volti di alcuni ragazzi impiccati, ancora quasi dei bambini, che smentiscono platealmente le parole del colonnello Zimmermann, che parlava di “assassini senza scrupoli”.
Stiamo parlando del “più drammatico e sanguinoso episodio della Resistenza veneta”, come scrisse Enrico Opocher.
Il Grappa era stato “fin dal principio e poi con un crescendo impressionante, una fastidiosissima spina nel fianco per i nazifascisti” (Opocher). Sempre più fastidiosa via via che le formazioni partigiane si ingrossavano e cominciavano a ricevere armi e rifornimenti dagli alleati attraverso i famosi “lanci”.
Infastidiva soprattutto che i partigiani operassero continue interruzioni e colpi di mano lungo le strade della Valsugana e della Val di Piave, assai importanti per l’esercito tedesco. Quanto ai fascisti, va ricordato che la Repubblica di Salò aveva dislocato numerosi ministeri e uffici importanti tra Cavaso, Possagno, Crespano, Crocetta, Maser, Bassano. Anche per questo le azioni dei partigiani, e la sostanziale connivenza con loro delle popolazioni locali, davano un enorme disturbo ai tedeschi e ai fascisti, che avevano riempito la zona di spie il cui ruolo, anche nel corso delle terribili giornate seguite all’azione militare vera e propria, fu devastante per i partigiani.
Alla fine dell’estate del ’44, dopo aver “bonificato” – per usare il loro linguaggio – le province di Treviso, Vicenza, Belluno con numerosi rastrellamenti contro i “ribelli, i comandi tedeschi organizzarono la cosiddetta operazione “Piave”, allo scopo di rinforzare e consolidare una linea difensiva pedemontana su cui arroccarsi nella previsione dell’avanzata degli alleati, e garantirsi così una via di fuga verso casa.
La fase organizzativa prende avvio il 10 settembre, quella operativa il 20. Il 21 settembre l’operazione militare può dirsi conclusa, con una catastrofe per le organizzazioni partigiane, data la straordinaria superiorità di uomini e di mezzi impiegati dai nazifascisti.
Fin qui siamo nell’ordine delle azioni belliche, in certo modo collocabili entro una logica di guerra. Del tutto fuori da ogni regola, fuori da quell’ ius in bellum che è all’origine della civilizzazione degli umani (4) , e che vediamo oggi incredibilmente straziato nelle guerre in atto, vanno collocati anche gli eccidi, le violenze, le torture, le impiccagioni, i soprusi di ogni genere nei confronti della popolazione civile.
(4) Dal dì che nozze, tribunali ed are, diero all’umane belve essere pietose di se stessi e d’altrui…, Foscolo, Sepolcri.
Scrive ancora Enrico Opocher, riferendosi alla totale dispersione delle forze partigiane: Una simile conclusione non pose certo termine all’orrore e all’angoscia che si erano abbattuti, in quelle brumose giornate, sulle miti popolazioni dei paesi pedemontani e al calvario dei partigiani presi sul Grappa. È ben difficile descrivere lo scempio effettuato dai tedeschi e dalle Brigate nere per le piazze di quei paesi sui corpi, sfigurati per le percosse, dei prigionieri, e il terrore delle popolazioni asserragliate nelle proprie case in preda ad un’angosciosa incertezza sulla sorte di tanti loro cari figli.
Per non parlare delle rovine materiali: i paesi incendiati, gli ostaggi rinchiusi in improvvisati campi di concentramento o inviati in Germania, i sacerdoti minacciati e impediti nello svolgimento del loro magistero nei confronti di chi stava per morire o era morto.
Infine, a suggello di tanta violenza, i “fatti” di Bassano: l’orrore ostentato, la città violentata dalle impiccagioni lungo i viali di tanti, troppi giovani: 31 appesi agli alberi, e di 14 fucilati.
Erano ragazzi dell’”Italia Libera di Campo Croce”, ex prigionieri inglesi, ex militari. Alcuni, rimasti ignoti, non hanno avuto nemmeno il conforto del ricordo e delle lacrime dei loro cari.
Va detto che l’impiccagione, la “forca” come veniva chiamata, era il mezzo più violento e spettacolare, usato dai tedeschi per “giustiziare” i ribelli. Se ne servivano proprio perché il patibolo è una modalità di morte particolarmente odiosa, estranea alla tradizione italiana, umiliante oltre che atroce per chi la subisce.
Se il fine di tutte le efferatezze naziste era diffondere tra la popolazione il terrore, considerato il più forte deterrente all’ingrossarsi delle file dei partigiani, nel rastrellamento del Grappa si mirava in particolare ad eliminare gli uomini ritenuti atti alla guerra. L’obiettivo primario erano i renitenti alla leva, i richiamati dalla Repubblica di Salò.
In questo come nei molti, troppi eccidi che tra l’8 settembre del ’43 e la fine di aprile del ’45 insanguinarono l’Italia, non erano solo le voci dure degli occupanti tedeschi a risuonare, ma anche le minacce e gli insulti lanciati nella familiare lingua dei padri dai collaborazionisti fascisti della RSI, giacché la Resistenza, va detto, è stata anche una guerra civile che ha visto italiani uccidere altri italiani.
Per anni si è faticato ad accettare questa definizione di guerra civile, almeno dalla parte dei vincitori. Si è preferita un’idea della Resistenza come lotta di tutto un popolo in armi contro il nazifascismo. Era più utile al fine di lavarsi la coscienza per il ventennio in cui gli italiani avevano accettato la dittatura almeno apparentemente di buon grado, e i pochi che si erano opposti erano finiti in galera, in esilio, al confino, quando non assassinati come Giacomo Matteotti.
Oggi, dopo la pubblicazione del più importante libro sui venti mesi della lotta di Liberazione, scritto da Claudio Pavone nel 1991e intitolato proprio così: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, dove le parole chiave sono guerra civile e moralità, nessuno storico nega più che lo sia stata. Ma non per questo si possono mettere sullo stesso piano le ragioni degli uni e quelle degli altri. Ad aprire a questa interpretazione, appartenuta fino a quel momento solo ai neofascisti, fu nel 1996 Luciano Violante, quando in un suo discorso alla Camera, di cui era Presidente parlò dei “ragazzi di Salò”. La sua posizione fece tanto più scalpore in quanto proveniva da un ex comunista.
È paradossale che a respingere questa tesi siano stati due Presidenti della Repubblica, Carlo Azelio Ciampi e Sergio Mattarella, entrambi fieramente anticomunisti, il primo era stato azionista e quindi in sostanza un liberalsocialista, il secondo un democristiano convintamente cattolico. Entrambi rifiutarono l’idea di due fazioni in lotta con pari dignità, sulla base di un ragionamento molto semplice: non si poteva mettere sullo stesso piano chi si era schierato dalla parte di Hitler e dei vagoni piombati e chi aveva lottato per la Libertà.
I “nostalgici” che scrivono oggi sulle loro bandiere “Onore e Fedeltà” dimenticano di dire che era fedeltà a Mussolini e a Hitler, non all’Italia, quella di coloro che si schierarono dalla parte della Repubblica Sociale.
Certo, i morti sono tutti uguali, il dolore dei parenti è lo stesso per gli uni e per gli altri, ma gli ideali e le scelte di vita erano stati assai diverse nelle due parti in campo. È nella Resistenza, non va mai dimenticato, che si fondano le radici della nostra Repubblica e della nostra Costituzione.
Riscrivere la storia
Il tentativo di riscrivere la storia nel senso sopra indicato, equiparando fascisti e partigiani, iniziò subito, e continua ancora va detto, ma è moralmente prima ancora che storicamente improponibile. Lo spiega bene Italo Calvino nella prefazione del 1964 al suo libro Il sentiero dei nidi di ragno (il libro era uscito in prima edizione nel ’47) che così scrive:
A poco più di un anno dalla Liberazione, già “la rispettabilità benpensante” era in piena riscossa, e approfittava di ogni aspetto contingente di quell’epoca – gli sbandamenti della gioventù postbellica, la recrudescenza della delinquenza […] per esclamare: “Ecco, noi l’avevamo sempre detto, questi partigiani, tutti così, non ci vengano a parlare di Resistenza, sappiamo bene che razza d’ideali…”
A costoro, dividendo idealmente il campo, Calvino risponde:
“D’accordo, farò come aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene, cosa cambia? Anche in chi si si è gettato nella lotta senza un chiaro perché ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi migliori di voi, che li ha fatti divenire forze storiche attive quali voi (che non avete scelto dico io…) non potrete mai sognarvi di essere!
L’altra obiezione che puntualmente viene fatta dai detrattori della Resistenza riguarda l’indispensabile contributo degli alleati alla vittoria sui nazifascisti, che per ciò stesso renderebbe superflua se non dannosa la lotta di liberazione.
Certo, è del tutto evidente che a vincere la seconda guerra mondiale sono stati gli eserciti alleati, ma furono i partigiani ad imprimere un sigillo di italianità alla Liberazione, salvando la dignità e l’onore del popolo italiano.
Senza la nostra Resistenza, che fu la più importante in Europa per numero e risultati acquisiti a detta degli stessi comandanti alleati che avevano combattuto in Italia, (facendo eccezione per quella jugoslava, che i tedeschi li cacciò da sola) noi italiani non avremmo potuto scegliere liberamente se tenerci i Savoia, cosa che Churchill e gli inglesi auspicavano, o diventare una Repubblica. Lo si fece con il referendum del 2 giugno 1946. In quell’occasione per la prima volta poterono recarsi alle urne anche le donne. Subito dopo venne scritta in piena autonomia e con l’apporto di tutte le forze politiche antifasciste la nostra Costituzione.
Ai tedeschi e ai giapponesi che capitolarono alla fine senza aver trovato la forza ribellarsi, questo non fu concesso, ed essi videro le loro Costituzioni scritte per mano dei vincitori.
Colpisce che un fatto così rilevante sia poco conosciuto e non inorgoglisca debitamente noi italiani.
Oggi il ricordo dei Martiri non va disgiunto dall’idea di Patria che animò la loro lotta e che ritroviamo in ciascuna delle commoventi testimonianze raccolte in un libro straordinario: Le ultime Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, pubblicato nel 1952, anche questo troppo poco conosciuto
Oggi, dopo aver reso omaggio alle centinaia di giovani impiccati, fucilati, seviziati sulle nostre montagne, nelle nostre contrade, non dimentichiamo che è anche per un forte bisogno di Verità, verità storica e verità morale che siamo qui.
È a suggerircelo sono le parole di un giovane delle nostre terre, che ha testimoniato con la vita la propria fede che era religiosa e insieme politica nel senso alto della parola, perché aveva a cuore la polis, la comunità degli uomini. Mi riferisco a Giorgio Mainardi, un giovane vicentino studente di medicina a Padova, che prima di lasciare la famiglia, nel tentativo di passare le linee tedesche nel tentativo di congiungersi con le forze alleate, scrive ai genitori una lunga, bellissima lettera.
Ne riporto un frammento:
“C’è qualcuno, qualcosa in noi – un istinto, una ragione, una vocazione, una grazia – più forte di noi stessi, che ci spinge a vivere religiosamente la vita, non egoisticamente. Nei momenti più gravi ci si orienta dietro richiami, che non si sa di preciso donde vengano, ma che costituiscono la più sicura certezza nel disorientamento generale.
Coscienza, ragione, fede chiamano, io obbedisco.”
Giorgio aveva vent’anni, e gli ideali che aveva scelto di perseguire erano assai diversi da quelli dei giovani fascisti che scorrazzando lungo quello che oggi giustamente si chiama Viale dei martiri, infilavano nelle bocche degli impiccati dei mozziconi di sigarette, sghignazzando e divertendosi assai per queste “prodezze”.
Nel Vangelo troviamo le parole giuste per smascherano l’inganno, parole che valgono per credenti e non credenti, laddove sta scritto che la qualità dell’albero si vede dai suoi frutti: “Guardatevi dai falsi profeti…dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni, e ogni albero cattivo produce frutti cattivi.” (Matteo 7, 15-20).
Non sarà inutile questa cerimonia se al suo termine, quando ciascuno di noi tornerà alla propria casa, avrà maturato un impegno nuovo, vivo, volto a dedicare almeno una piccola parte del proprio vivere quotidiano a rendere migliore questo paese. Viviamo tutti sotto lo stesso cielo, sotto la stessa tenda scriveva Seneca che chiamava gli uomini contubernales.
Avremo reso così un vero omaggio ai giovani strappato così violentemente alla vita il 26 settembre del 1944. Essi rimarranno presenti non solo nel ricordo ma nel nostro quotidiano agire, perché ogni volta che adegueremo i nostri comportamenti ai valori di quella Costituzione che è nata dalla loro lotta e dal loro sacrificio, noi ridaremo un senso alle loro troppo brevi vite.
“…il domani si prepara nel cuore degli uomini: e gli uomini,
che hanno seguito i loro dei al fondo dell’inferno, anelano di tornare alla luce,
e di germogliare come un seme sotterrato.
Dal sommo della paura nasce una speranza,
un lume di consenso dell’uomo e delle cose.”
Carlo Levi
Nella difesa di una Patria che non Discrimina,
della nostra Costituzione,
della PACE,
ora e sempre Resistenza
Carla Poncina
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