13 agosto 2023, nel 78° del sacrificio del maggiore britannico J.P.Wilkinson “Freccia”: le foto e l’Orazione di Camilla Ghiotto

Orazione di Camilla Ghiotto (*)

Quando mi è stato proposto di intervenire oggi, la prima cosa che mi sono chiesta, pensando a che cosa avrei potuto dire, è stato che cosa significhi per noi oggi ricordare, quale sia il senso di ricorrenze come queste, del ritrovarci proprio qui.

A questo proposito ci sono alcuni aspetti su cui vorrei concentrarmi brevemente. 

Il primo riguarda i luoghi e il motivo per cui è fondamentale conoscere questi boschi, che sono stati teatro della Storia, della Resistenza.

Il secondo riguarda il valore della memoria, del nostro ricordare. 

Infine, l’aspetto generazionale e il modo in cui la Resistenza può parlare a noi, coetanei di quei ragazzi, oggi. 

I luoghi per la Resistenza sono fondamentali. Per questo credo che la memoria della Resistenza debba essere profondamente legata alla loro memoria, e che conoscere i luoghi ci dia una via d’accesso privilegiata a questa parte di storia. 

Il carattere “tellurico” – legato cioè al territorio – dell’esperienza partigiana è evidente: questa lotta e le sue modalità variano a seconda della conformazione delle zone in cui si svolge. Basti pensare a quanto è stata diversa la Resistenza in pianura: nei rastrellamenti in pianura Padana i partigiani scavavano buche della profondità della loro altezza dove infilarsi, in piedi, aspettando che finissero. Oppure sul Piave, dove una delle principali azioni di sabotaggio consisteva nel danneggiare le imbarcazioni fasciste nella notte. 

E infine qui, sull’altopiano, con la Resistenza dura della montagna, i crepacci dove nascondersi, la resina delle pigne da usare per dare sapore alla polenta. 

I luoghi determinavano profondamente la loro vita in quei mesi. Quello che succedeva era legato a doppio filo alla conformazione della zona: il modo di combattere, di difendersi, l’alimentazione e così via. 

Meneghello scrive ne I Piccoli Maestri che il loro andare in montagna è stato un modo per combattere il mondo che conoscevano, ma anche un modo per nascondersene. La montagna è stata per loro campo di battaglia, certo, ma anche casa, nascondiglio, scuola – perché quei ragazzi qui sono diventati adulti, si sono formati, hanno dato radici alle loro idee –, insomma: questa montagna è stata per loro il mondo intero. 

Perciò tornare qui, in occasioni come questa, è estremamente importante. 

Ed è proprio qui che è nata la nostra democrazia, il nostro paese.  

Calamandrei insegna che la Costituzione è un testamento. E del testamento porta con sé il carattere sacro, la tensione verso il futuro. “Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati” dice. 

Frequentare i luoghi della Storia, conoscerli, ci consente di entrare ancora, in punta di piedi, in quelle vicende, di scorgerne l’inizio, il principio luminoso e di sentirne ancora l’importanza profonda. 

Per loro questi luoghi sono stati la salvezza e la morte. Sono stati teatro di ogni cosa. Ed è come se anche noi, cittadini dell’Italia di oggi, dell’Europa di oggi, fossimo in una certa misura nati proprio qui, in questi boschi che li hanno protetti, nascosti, li hanno tenuti in vita pur minacciandoli in ogni istante. Qui dove quella notte, non molti anni fa, sono arrivati i membri della missione Ruina. 

Possiamo conoscere le date del loro arrivo, le finalità della missione, possiamo conoscere i loro nomi, ma il bagliore di quell’inizio, la paura che devono aver provato all’arrivo in una terra sconosciuta, i maldestri momenti iniziali, di cui ho sentito raccontare da mio padre, che scrive che “erano a pochi chilometri dalle caserme tedesche, raggiungibili coi camion”, che lui “doveva portare via quella gente ancora sospesa dal lancio, stranita”. Scrive che non è stato facile far “scendere quello che si era appeso all’albero, un uomo senza parole”, che “costò ore di lavoro e poi lo tirarono giù finalmente, gli altri erano già stati portati via, uno in barella con una gamba che si era spezzata contro una roccia sulla quale aveva capitombolato nel toccare terra”. 

Questi momenti di tensione, il dolore fisico nell’atterraggio, i tentativi di capirsi, questi non si possono studiare. Ma basta, da qui, guardarsi intorno, osservare la conformazione di questa zona per immaginare quella notte: atterrare addosso a un albero, con il bacino rotto, provare un dolore lancinante e non poter fare rumore, restare in silenzio, balbettare in italiano ai partigiani accorsi che si è dalla stessa parte, di non sparare. 

Tutto in una manciata di secondi. 

Subito essere esposti alla facilità del morire, che a quel tempo non era più un rischio, quanto una possibilità costante. 

Tutto questo rientra in un insieme di sensazioni che non si possono imparare, ma che si può quantomeno intuire frequentando i luoghi in cui ciò è accaduto, sentendo il freddo anche in agosto, osservando questi boschi così frastagliati, le centinaia di sentieri di cui avevano paura, perché facilitavano il nemico nel raggiungerli. O durante le passeggiate, basta vedere la quantità di feritoie, crepacci, e immaginare di accovacciarsi e nascondersi. Quando sono qui, ogni volta che comincia a piovere guardo verso i boschi di Forte Interrotto e non posso non pensare a come doveva essere viverci nel bel mezzo, con la neve, la pioggia. E poi il buio, il buio pesto.

 La magia dell’altopiano è questa e si percepisce non appena ci si mette piede: la densità del passato che si concentra in queste valli, il dolore silenzioso che quei ragazzi hanno provato, la paura senza parole, l’assurdità di una guerra, il coraggio di chi l’ha combattuta dalla parte giusta. Questo è il senso di tornare dove questi fatti hanno avuto luogo, per sentirne ancora il significato vivo. Qui è dove, come cittadini liberi, siamo nati anche noi. 

Il secondo aspetto di cui vorrei dire qualche parola è la memoria, il motivo per cui siamo qui oggi, nel giorno della ricorrenza dell’arrivo in altopiano della missione britannica, di quella italiana e di Freccia.

La memoria è un sentimento del presente, un atto politico e rivoluzionario. Ricordare significa tenere vivo qualcosa che rischia di perdersi, di finire. È come continuare ad alimentare un fuoco nel buio. Per questo siamo qui, per ricordare l’inizio di qualcosa, di quella missione, della loro lotta partigiana. Ricordare significa fare in modo che la notte del loro arrivo qui non finisca mai, che il loro atto di coraggio, di partecipazione, non svanisca, che continui a essere cruciale. Liliana Segre ha detto che le ricorrenze, come quella di oggi, sono importanti perché rappresentano un patto che rinnoviamo continuamente con le generazioni passate. Un patto di memoria che permette a certi valori e certe lotte di rimanere eterne, permette al loro sacrificio di liberarsi del dolore che quei ragazzi hanno provato, arrivando a noi nella forma pura e luminosa dei valori che li hanno mossi e di quelli che hanno costruito con le loro azioni. Noi non conosciamo più il freddo, la fame, la paura, che hanno provato loro, ma possiamo conoscere la libertà, il senso giustizia, l’idea di uguaglianza che da quella paura sono scaturite. Questo è il privilegio della memoria: del passato ricevere i traguardi, liberati dalle difficoltà che sono occorse per ottenerli. 

I partigiani e le partigiane che hanno combattuto sull’altopiano provenivano da paesi diversi, a volte parlavano lingue diverse, dialetti diversi, avevano idee politiche diverse, eppure qualcosa li rendeva simili. Qualcosa di difficile da definire, un istinto, una legge morale, così la chiamava mio padre. 

Forse proprio la scelta di essere ribelli, a prescindere dalle ragioni che l’avevano provocata, li accomunava, il fatto di trovarsi qui, di combattere dalla stessa parte, di combattere la paura e la violenza del fascismo. E la possibilità di trovarsi dalla stessa parte, di unirsi nonostante le provenienze più disparate, è, credo, uno degli insegnamenti più grandi della Resistenza. 

La presenza di Freccia sull’altopiano ce lo ricorda: l’obiettivo della missione era dare unità all’azione di partigiani italiani e Alleati. L’obiettivo era comune ed era più importante di ogni differenza. Ce lo testimonia poi la Brigata Pino, che operava proprio in queste zone e di cui mio padre faceva parte, composta da comunisti, azionisti, cattolici. E infine ce lo raccontala Costituzione, specchio di questa possibilità di incontro tra idee simili, a prescindere dalla differenza di vedute politiche. C’era un terreno etico comune, che veniva prima di ogni cosa. Era il fatto stesso di essere dalla stessa parte a renderli simili, e tanto bastava. 

Oggi ricordiamo, nel giorno dell’arrivo di Freccia, il momento in cui è iniziata la sua permanenza qui. Ricordiamo la notte in cui qualcosa, per lui, è iniziato. 

Zweig scrive che la Storia si compone di “ore stellari”, cioè momenti fulgidi e immutabili come le stelle, che risplendono sopra la notte dell’umana caducità. Sono momenti necessari, nonostante si verifichino magari per caso, e possano sembrare insignificanti. Le ore stellari nella Storia sono i momenti fatali, quelli che poi si riveleranno determinanti, che rimarranno nella memoria, immobili e luminosi. 

Credo che la scelta di ognuno di loro, delle centinaia di migliaia di partigiani e partigiane  che hanno partecipato alla lotta di Liberazione, il momento preciso in cui in un modo o nell’altro questa lotta per ciascuno di loro è iniziata – quando sono partiti da casa, quando sono arrivati sull’altopiano, o anche solo quando hanno pensato di farlo –, sono state le ore stellari del nostro paese e delle loro vite. Delle loro vite perché il diventare partigiani, ribelli, li avrebbe cambiati per sempre. Del nostro paese, perché ha cambiato per sempre anche noi, che allora non c’eravamo nemmeno. 

Avere ricorrenze come questa significa allora celebrare le ore stellari in cui ognuno di loro ha deciso da che parte stare, e ha scelto di stare dalla parte giusta. 

Ricordiamo quei bagliori nella notte dei tempi bui. Lo dice bene Pasolini in una bellissima poesia, “La Resistenza e la sua luce”:

“Così giunsi ai giorni della Resistenza senza saperne nulla se non lo stile: fu stile tutta luce, memorabile coscienza di sole. Non poté mai sfiorire, neanche per un istante, neanche quando l’Europa tremò nella più morta vigilia”.

Fu tutta luce, dice, e le ricorrenze sono per noi occasioni di ricordare quella luce. Una luce etica, storica. 

Infine, vorrei soffermarmi brevemente sull’aspetto generazionale, sull’importanza del questionarci sul valore che ha quel periodo per noi oggi. 

Sembra lontanissimo, soprattutto per noi giovani. Io ho ventiquattro anni e mi chiedo spesso come fossero loro, per riuscire a resistere. 

In realtà, però, non credo fossero così diversi da noi. 

Avere vent’anni significa avere paura. Di crescere, di scegliere, di sbagliare. Significa cercare i nostri simili, avere un coraggio enorme, sentirsi vibrare un fuoco sotto la pelle, vivere brevi istanti in cui ci sentiamo immortali; immaginare costantemente un mondo che non esiste ma che vorremmo esistesse, il mondo che desideriamo. Significa essere certi di ciò che riteniamo sia giusto o sbagliato, convinti che ci sia un confine netto tra il bene e il male. Impegnarsi a farsi le proprie idee sulle cose, le proprie opinioni, fino a raggiungere una specie di nocciolo duro che diventa il nostro centro, la nostra bussola. Significa vivere continui inizi, prime volte, desiderare solo cose che durino per sempre, che non finiscano mai. 

Allora mi chiedo: erano davvero tanto diversi da noi? 

Loro erano tutto questo, proprio come noi, ma, oltre agli inizi conoscevano anche la fine. Hanno imparato in fretta che tutto poteva finire da un momento all’altro: la propria vita, quella di un amico, il mondo. Tutto poteva essere spazzato via in un attimo, con un boato. 

Mio padre mi ha raccontato che Freccia, durante una lunga camminata, gli ha dato due caramelle dicendogli che si trattava di cianuro, che sarebbe bastato ingoiarne una, in caso di pericolo, se fosse stato preso dai tedeschi, per morire senza dolore, velocemente. 

Una di quelle caramelle mio padre l’ha data, anni dopo la fine della guerra, al suo cane malato, perché non soffrisse. Con la morte ci avevano a che fare sempre, non era nemmeno più quello il nemico, il loro nemico marciava in uniforme. 

Ma tutto questo a vent’anni non si dovrebbe conoscere: la guerra, la morte, il freddo, la fame. La precarietà di ogni cosa, di ogni persona incontrata, di ogni luogo, di ogni valle che il combattimento poteva dilaniare, di cui le bombe potevano cambiare la fisionomia fino a renderla irriconoscibile. L’essere paracadutati in un paese a centinaia di chilometri di distanza dalla propria casa, la fatica del farsi capire in fretta, per non essere uccisi, poi il dolore schiantandosi a terra, ma doversene andare per allontanarsi dalla zona a rischio. Poi il senso di colpa, nel trovare famiglie giustiziate solo perché tu hai usato la loro casa, la loro radio per intercettare Radio Londra, per sapere se arriverà quel lancio che aspetti, che ti salverà la vita perché senza munizioni, senza cibo, gli ideali e i sogni non valgono più niente. Così è accaduto a loro. 

Tutto questo, a vent’anni, non dovrebbe esistere. Non dovrebbe esistere mai. 

Eppure ogni giorno era così. 

Per questo credo che quello che possiamo fare oggi sia ricordare come, nonostante questo, nonostante la paura, in loro sia rimasta intatta anche quella luce che li ha guidati nel buio, che costringe a continuare a sperare anche quando non resta più niente. 

Come Gramsci che, quando Pertini va a trovarlo in carcere, gli indica un fiore tra quelli che lui coltivava vicino alla sua cella, facendogli notare come sia cresciuto nonostante tutto, dal cemento, in un carcere, nell’ora più buia della storia del mondo. Accanto a un fiore appassito ce n’è uno sbocciato, gli indica, “è la vita, dalle delusioni alla speranza” dice. 

Questa storia, all’apparenza lontana da noi, ci racconta di una generazione che ha saputo creare qualcosa di nuovo, una società, un vocabolario – parole come libertà, democrazia –, un destino. Racconta che l’uomo in rivolta, come dice Camus, dice di no e di sì al tempo stesso. Dice no alla realtà così come la conosce, ma dice di sì a qualcos’altro, qualcosa che esiste ancora solo come possibilità, come ideale, come sogno. Così hanno fatto.

Loro erano proprio come noi, e noi possiamo essere come loro. Possiamo resistere ancora, contro il male, contro la paura, contro ciò che sentiamo ingiusto. Possiamo coltivare ancora la pace, la parola, la memoria. E dobbiamo tornare in questi luoghi dove la Storia si è svolta, percorrere ancora questi sentieri dove loro hanno corso, o marciato in silenzio. Dobbiamo ricordare e raccontare, celebrare momenti come quello che celebriamo oggi, ricordando la luce ma anche la difficoltà estrema, il dolore, perché solo così, utilizzando la memoria come strumento attivo, faremo in modo che niente vada perduto e che quelle parole che loro ci hanno consegnato piene di significato, dense di realtà, restino attuali, restino importanti. 

(*) Camilla Ghiotto autrice del romanzo “Tempesta” edito nel 2023 da Salani “Le Stanze”