I sette Martiri di Valdagno (3 luglio 1944)

L’uccisione dei 7 martiri di Valdagno fu un avvenimento particolare, perché non fu solo una rappresaglia tedesca per l’uccisione di un ufficiale della Wehrmacht, ma fu un’azione programmata di repressione politica portata a termine con la determinante collaborazione dei fascisti locali.

Il contesto

I tedeschi avevano un poderoso sistema anti-guerriglia lungamente collaudato fin dal 1941, quando dovettero far fronte ai partigiani che si organizzavano nei territori occupati della Francia, della Russia e dei Balcani. Tuttavia in considerazione che proprio nel mese di giugno 1944 l’attività partigiana nell’Italia settentrionale ebbe un incremento molto consistente, specie nelle nostre zone, il feldmaresciallo Albert Kesselring il 20 giugno 1944 emanò per le sue truppe una “Nuova regolazione per la lotta contro le bande”, che doveva “essere condotta con tutti i mezzi disponibili e con il più grande rigore. Coprirò – assicurava Kesselring – ogni comandante che, nella scelta e nella durezza dei mezzi nella lotta contro le bande, oltrepassi la moderazione che ci è solita...” [sic]
Gli ordini di Kesselring prevedevano non solo l’uccisione dei colpevoli di atti di violenze e sabotaggi contro le truppe tedesche, ma anche la fucilazione di ostaggi del tutto innocenti ed arrestati ancor prima che quelle violenze avvenissero, nonché la distruzione delle contrade nelle cui vicinanze si fossero verificati scontri con i partigiani.

Ma se i tedeschi possedevano una tremenda e collaudata forza repressiva, non avevano però uomini né strutture logistiche sufficienti ed adeguate per un controllo capillare del territorio. Mancava loro soprattutto la “conoscenza” dei gruppi e delle persone, della loro storia, delle loro relazioni sociali e delle loro posizioni politiche. Per questo erano necessari i fascisti.

In particolare i fascisti di Valdagno avevano segnalato al comando tedesco una lista di individui sospettati di avere idee antifasciste e di essere tra gli organizzatori del movimento partigiano. Tra le persone incluse in questa lista furono scelte quelle che per prime, secondo le nuove disposizioni, avrebbero pagato con la vita se i tedeschi fossero stati colpiti.

L’antefatto

E proprio in quei giorni i tedeschi di Valdagno furono colpiti.
Venerdì 30 giugno 1944 l’aiutante di reparto Gherard Suder era arrivato alla stazione di Verona di ritorno da una licenza trascorsa nella sua città natale, Berlino. Doveva rientrare nel suo reparto a Valdagno.
Poiché temeva attacchi partigiani lungo il tragitto, telefonò a Valdagno perché gli mandassero un’auto e una scorta. Il maggiore Ludwig Diebold, comandante della guarnigione di Valdagno, accolse la richiesta del suo aiutante ed incaricò dell’operazione il tenente Walter Führ. Costui organizzò la scorta e partì con due automezzi, un autocarro in cui salirono una trentina di soldati e una specie di Jeep, su cui avrebbe preso posto l’aiutante del maggiore.

Così avvenne e, intrapresa la via del ritorno, quando il convoglio giunse a Montecchio Maggiore, all’imbocco quindi della Valle dell’Agno, era già buio. L’autocarro della scorta, su cui viaggiava anche il tenente Führ, precedeva di circa cinquecento metri l’automobile ed aveva i fari abbaglianti accesi.
Qualche chilometro più a nord di Montecchio, era nascosta in un campo di grano una pattuglia partigiana. Era la pattuglia volante comandata da Francesco Gasparotto “Furia” ed era partita da Selva di Trissino per ordine di Alfredo Rigodanzo “Ermenegildo”, all’epoca responsabile di un distaccamento appartenente al battaglione “Stella”, comandato da Luigi Pierobon “Dante” e da Clemente Lampioni “Pino”, e facente parte della XXX° brigata garibaldina “Garemi”.
Quella pattuglia il 29 giugno aveva messo fuori uso un automezzo tedesco a Montebello e il giorno dopo si era spostata nella zona di Montecchio, a nord del campo trincerato del Sottosegretariato della marina repubblicana, ad alcune centinai di metri dalla località Ghisa.

All’arrivo dell’autocarro tedesco i partigiani aprirono il fuoco colpendo a morte il tenente Führ. L’autista perse il controllo del mezzo che uscì di strada sulla destra fermandosi al limitare del bosco.
I militari scesero e risposero al fuoco. Il maresciallo Ernest Utz, si trovò a faccia a faccia con il partigiano Carlo Battistella “Piccolo”. I due spararono uno contro l’altro e caddero entrambi, il partigiano privo di vita e il maresciallo tedesco gravemente ferito, tanto che morirà il 10 luglio.
Rimase ferito, però in maniera non grave, anche un altro componente della scorta, un caporal maggiore. Fu ferito alla bocca anche un altro partigiano Giovanni Soldà “Remo”, che i compagni riuscirono a fatica a riportare in salvo.

La rappresaglia prese avvio il giorno successivo e fu un’operazione che coinvolse in rapida successione antifascisti di Valdagno, Vicenza e Bassano, i partigiani e le popolazioni di Marana e di Castelvecchio terrorizzando gli abitanti della Valle dell’Agno e del Chiampo.

I sette martiri

Il maggiore Diebold decise che la prima fase della rappresaglia avvenisse non alla Ghisa dove si era avuto lo scontro ma a Valdagno, che si trova sempre lungo la valle, ma più a monte di circa 15 chilometri . Ciò perché la vittima, il tenente Führ, era un ufficiale del presidio di Valdagno, ma soprattutto perché bisognava mandare un chiaro segnale politico agli operai degli stabilimenti della “Marzotto” che producevano ormai solo per il Reich. Gli operai dovevano “vedere” che i tedeschi erano ancora forti e che erano in grado di colpire i sovversivi anche quelli che agivano nel centro urbano, nei lanifici e tra gli stessi operai.
Proprio per questo la violenza non doveva essere indiscriminata e senza limiti, come era avvenuto a Borga, ma doveva essere dosata in funzione degli obiettivi politici da raggiungere e cioè tener buoni gli operai, prevenire altri scioperi e scompaginare le fila della resistenza politica, eliminando coloro che erano maggiormente sospettati di essere ostili ai regimi fascista e nazista.
Definiti questi obiettivi il comando tedesco incaricò gli alleati italiani della scelta e dell’arresto di coloro che sarebbero stati portati davanti al plotone di esecuzione.
I fascisti ubbidirono: anche per loro quella era l’occasione per dimostrare ai tedeschi e ai Valdagnesi la propria capacità operativa oltre che informativa.
Una volta scelte le vittime i fascisti procedettero alla loro cattura mentre i tedeschi attendevano nella sede del loro Comando.

FerruccioBaù
Ferruccio Baù
Alfeo Guadagnin

Nel pomeriggio di sabato 1° luglio i fascisti arrestarono Ferruccio Baù e Alfeo Guadagnin.
Ferruccio Baù era conosciuto come elemento pericoloso fin dal 27 luglio 1943, quando dopo la caduta del fascismo, insieme ad altri due compagni era salito in municipio ed aveva gettato dal balcone in piazza le fotografie del Duce. Per questo fatto nel mese di settembre , dopo il ritorno al potere del fascismo della Rsi, era stato arrestato e aveva passato alcuni mesi nelle carceri di Vicenza dove aveva stretto amicizia con Alfeo Guadagnin, un socialista di Bassano che si riconosceva nelle idee di Turati e Matteotti. Costui fu tra i primi a promuovere ed organizzare la resistenza nel bassanese. Per questo fu arrestato nel marzo del 1944, torturato e poi tradotto nelle carceri di Vicenza, dove, appunto incontrò il Baù. Fu rilasciato nel giugno del 1944 e quel giorno era venuto a Valdagno per incontrare l’amico.
Guadagnin non era nella lista dei fascisti ma lo inclusero subito dopo aver contattato i camerati di Bassano, dai quali appresero di aver messo le mani su un altro elemento pericoloso.

VirgilioCenzi
Virgilio Cenzi
PasqualeZordan
Pasquale Zordan

Il giorno dopo, domenica 2 luglio, vi furono altri 6 arresti:
Virgilio Cenzi, 48 anni, comunista, sostenitore, con Pietro Tovo del movimento partigiano, in particolare del battaglione “Stella”, fu preso verso mezzogiorno in piazza del municipio.
Quasi contemporaneamente i fascisti catturarono dal barbiere in piazza Roma Pasquale Giovanni Zordan “Nani Sette”, 36 anni, anche lui comunista, attivista nella fabbrica “Marzotto”.

FrancescoRilievo
Francesco Rilievo
MarinoCeccon
Marino Ceccon

Insieme a lui fu arrestato il cognato che non c’entrava nulla. L’aveva solo accompagnato dal barbiere. Era Francesco Rilievo, 25 anni, anche lui operaio alla “Marzotto”. Alcuni fascisti volevano lasciarlo andare, ma il comandante Grandis sentenziò: “Meglio uno in più che uno in meno.”. Così fu portato con gli altri alla sede del comando tedesco.

Quella stessa mattina altri due comunisti, Raffaele Preto di 24 anni e Marino Ceccon di 32, si erano recati a Fonte Abelina, in comune di Recoaro per portare a “Marco” (Giuseppe D’Ambros), intendente del battaglione “Stella”, un pacco di medicinali.
Non sapevano che proprio a Fonte Abelina era presente un altro importante esponente del Partico Comunista vicentino: Antonio Bietolini. Costui, classe 1900 aveva una lunga storia di militanza nel partito. Arrestato più volte passò 7 anni di Confino alle Tremiti. Dal 13 febbraio 1944 era stato incaricato di dirigere la federazione vicentina del Pci in sostituzione dello scledense On. Domenico Marchioro.

AntonioBietolini
Antonio Bietolini

Poiché il suo nome era noto alla polizia politica, Bietolini aveva assunto una nuova identità, quella di Bruno Morassuti.
Bietolini (alias Morassuti) era a Fonte Abelina per concretizzare un incontro con Marozin che avrebbe definito i rapporti tra le due formazioni partigiane, la brigata “Vicenza”, comandata appunto di Marozin, che si dichiarava autonoma dai partiti, e quella comunista costituita dal battaglione “Stella”. Tra le due formazioni erano sorti contrasti sia per la diversa strategia della lotta armata e sia perché le zone di operazione di entrambe spesso si sovrapponevano, creando inconvenienti e malintesi.
Venne fissato il luogo dell’incontro, la contrada Tomba, che fu annotato in un biglietto dato a Bietolini. Ma costui espresse il desiderio di parlare prima con il responsabile locale del PCI, Pietro Tovo “Piero Stella” di Valdagno, per capire meglio i termini del problema in discussione.
Preto Raffaele e Marino Ceccon si offrirono di accompagnare Bietolini da “Piero Stella”.
I tre tornarono a Valdagno e verso mezzogiorno si incontrarono davanti ad una farmacia del centro con Pietro Tovo. Costui era nella lista fascista delle persone sospette ed era sorvegliato. Quando lo videro incontrare gli altri tre i fascisti decisero di fare un’unica retata. Li seguirono fino alla vicina osteria.
Qui avvenne il blitz dei fascisti che riuscirono a prendere i tre, mentre Tovo per un soffio sfuggì all’arresto, riuscendo a salvarsi. Da allora riparò a Milano ed entrò nella clandestinità. In tasca a Bietolini fu trovato il biglietto indicante la contrada Tomba.
Alla fine della mattinata i fascisti tirarono le somme: nel giro di poco meno di mezz’ora avevano arrestato sei persone, proprio in centro a Valdagno, davanti ad una gran quantità di gente, dando quindi dimostrazione della loro efficienza. C’era di che essere soddisfatti.

Con i due presi il giorno prima gli arrestati erano otto, 5 comunisti, 2 socialisti e il Rilievo che era al di fuori di ogni attività clandestina. Nessuno di loro aveva avuto alcuna responsabilità diretta o indiretta con l’uccisione del tenente Führ in località Ghisa.
Furono rinchiusi in fretta negli scantinati della scuola elementare, che fungevano da carcere per i tedeschi, perché alle 15.30 ebbero luogo i funerali solenni del ten. Führ, che fu tumulato a Vicenza nel cimitero militare il mattino successivo, lunedì 3 luglio.
Verso le ore 14.00, di quel 3 luglio, al ritorno da Vicenza del maggiore Diebold, comandante della guarnigione tedesca a Valdagno, gli otto prigionieri vennero portati al suo cospetto e qui interrogati.
L’interrogatorio fu molto formale, tanto erano già condannati. La logica della rappresaglia prevalse sui tedeschi perché, se avessero svolto indagini più approfondite, probabilmente avrebbero potuto identificare in Morassuti, cioè Bietolini, il maggiore esponente del PCI provinciale.
Alla fine nessuno comunicò agli otto la loro condanna. L’esecuzione fu stabilita per le ore 18.
Fu tutto preparato con la meticolosità tedesca: furono scavate 8 buche nel cimitero, furono rizzati nel campo di tiro a segno tre pali perché la fucilazione doveva avvenire a tre per volta, con la presenza di tre testimoni, uno in rappresentanza degli intellettuali, uno della classe media, e uno degli operai.
Qualche minuto prima delle 18 gli otto vennero fatti salire su di un camion coperto. I prigionieri erano tranquilli perché pensavano di essere trasportati a Vicenza o in Germania.
Invece compresero la loro sorte quando il camion si fermò davanti al poligono di tiro a segno e videro schierati i tedeschi ovunque, compreso il plotone di esecuzione.
Per primi furono fatti scendere Ceccon, Bietolini e Rilievo. Bietolini raccomandò a tutti di essere forti.
Rilievo gridò inutilmente la sua innocenza.
Poi scesero dal camion Preto, Cenzi e Zordan, mentre per ultimi rimanevano Baù e Guadagnin.

Il sopravvissuto: Raffaele Preto "Rifles"
Il sopravvissuto: Raffaele Preto “Rifles”

Mentre i primi tre, scortati dai soldati della 4° compagnia, si avviavano verso il luogo dell’esecuzione, Preto si accorse che sulla destra il reticolato della recinzione era interrotto. D’impeto si lanciò in quella direzione prendendo alla sprovvista i tedeschi. Gli spararono, ma i covoni di frumento del campo in cui era entrato lo protessero. Inseguito, corse a perdifiato, rubò una bicicletta che abbandonò poi ai margini del bosco che risalì di corsa, riuscendo a salvarsi. Di lì a qualche giorno divenne il partigiano “Rifles”.

La fuga di Preto tardò solo di pochi minuti la fucilazione dei sette rimasti. Il plotone di esecuzione, alla presenza del maggiore Diebold e del suo “entourage”, fu comandato dal tenente Stey, lo stesso che aveva diretto l’eccidio di Borga.
Così caddero in successione i primi tre Ceccon, Bietolini e Rilievo, poi altri due Cenzi e Zordan e infine gli altri due Baù e Guadagnin.
Sembra che il colpo di grazia sia stato dato ai condannati dall’autista del camion colpito dai partigiani alla Ghisa.
Furono posti in casse rudimentali, trasportati in cimitero in presenza di un sacerdote e inumati senza alcuna cerimonia utilizzando sette delle otto fosse preparate allo scopo.

La rappresaglia continua

I tedeschi tuttavia sapevano bene che l’esecuzione dei sette non scalfiva l’efficacia delle “bande” che operavano con sempre maggiore audacia sui monti circostanti. Così dopo aver colpito la parte politica del movimento antifascista era giunto il momento di liberare il territorio dai ribelli in vista dell’arrivo del Comando di Kesselring a Recoaro.
Venne quindi subito organizzato un rastrellamento in grande stile.
E da dove partire se non dalla contrada Tomba come era scritto nel biglietto trovato in tasca a Bietolini?
Nel pomeriggio del 4 luglio Il maggiore Diebold mandò i suoi soldati su due camion in quella zona in perlustrazione. Intercettarono una pattuglia di partigiani della brigata “Vicenza”, quella comandata da Marozin. Vi fu un conflitto a fuoco in seguito al quale i tedeschi dovettero ritirarsi, portandosi appresso un ferito, mentre i partigiani non ebbero alcuna perdita. Questo fatto dimostrò ai tedeschi che quella zona – Tomba, Zovo di Castelvecchio, Marana – era in effetti in mano ai partigiani.
Il giorno dopo, mercoledì 5 luglio, in collegamento con i tedeschi di Arzignano che salirono a Marana dalla Valle del Chiampo per tagliare la via di fuga ai partigiani, i soldati di Diebold, aiutati da militi fascisti travestiti da tedeschi, operarono una manovra a tenaglia utilizzando 10 automezzi con cannoni e tre carri armati.

Storia_Valdagno Incendi delle contrade Tomba e Zovo di Castelvecchio 5-7-1944
5 luglio 1944 – Incendi a Tomba e Zovo di Castelvecchio

Marana fu bombardata ed incendiata. Volevano fare terra bruciata intorno alle “bande”. Oltre a Marana furono incendiate e distrutte una ad una le contrade Bertoldi, Lasta, Zovo, Franchi, Munari, Vallarsa, Tomba, Gnagni e Titaldi ed altre. In tutto le contrade colpite furono 26. Le case e le stalle bruciarono per l’intera notte. Ci furono quel giorno almeno otto vittime tra i civili, tra cui tre ragazze, un settantenne e nella contrada Lovati sotto le bombe morirono una donna di 66 anni e una giovane mamma di 25 anni con i suoi due bambini di 5 e 3 anni. Anche i partigiani ebbero i loro caduti: quattro ne furono uccisi. Essi però, nonostante l’ingente spiegamento di uomini e mezzi operato dai tedeschi, riuscirono a sfuggire all’accerchiamento.
Ma non era finita perché dopo quel giorno d’inferno, seguì un periodo di vero e proprio terrore per la Valle del Chiampo (colpita da un nuovo terribile rastrellamento dal 9 al 15 luglio) e per quella dell’Agno. Tali fatti furono talmente gravi da non lasciare indifferenti le autorità civili e religiose, che reagirono anch’esse in vari modi contro la durezza del comportamento tedesco verso le popolazioni.
(A cura di Giorgio Fin )

Bibliografia

La presente narrazione è tratta soprattutto dalla ricostruzione operata dallo storico Maurizio Dal Lago e da altre fonti, tra le quali:
MAURIZIO DAL LAGO, Valdagno 3 luglio 1944, I Sette Martiri, Valdagno, 2002.
EUGENIO CANDIAGO ENIGMA, La passione del Chiampo, Valdagno, 1945.
LUIGI RIGONI, Giorni d’inferno nell’alta Valle del Chiampo, Arzignano, 1989.
PIETRO CASTAGNA, Giorni tristi di Marana, manoscritto.