Il problema del confine orientale italiano nel novecento

L’Esodo

Nelle vicende del confine orientale il termine “esodo”, di chiara derivazione biblica, è stato usato per indicare l’abbandono della propria terra da parte delle comunità italiane (venete) dell’Istria e della Dalmazia. Si tratta di una serie di trasferimenti di popolazione che iniziarono durante la seconda guerra mondiale e si conclusero alla fine degli anni ’50 del Novecento, con fasi e intensità alterne.

I primi abbandoni riguardarono la già ridotta comunità italiana della Dalmazia, e paradossalmente iniziarono dopo l’occupazione nazifascista della Jugoslavia. Infatti la Dalmazia, occupata dalle truppe italiane, venne inserita nel nuovo stato croato controllato dai nazionalisti ustascia di Ante Pavelic. Costoro iniziarono una feroce pulizia etnica verso i numerosi gruppi di popolazione non croata, e sebbene Pavelic fosse un amico personale di Mussolini la comunità italiana viveva con preoccupazione la situazione. Gli emigranti si dirigevano soprattutto verso la provincia di Zara, rimasta sotto controllo italiano. Ma dopo l’otto settembre Zara venne occupata dai tedeschi, e a partire dall’autunno del 1943 subì una serie di devastanti bombardamenti angloamericani che provocarono duemila morti, sui poco più di ventimila abitanti della città. Perciò nel 1944 la popolazione abbandonò quasi totalmente la città, dirigendosi verso l’Italia o verso Trieste .

Dopo il 1943 e la costituzione della zona di operazioni Litorale Adriatico (Adriatische Kunstenland, comprendente Friuli, Venezia Giulia, Slovenia, Quarnaro), annessa alla Germania, parecchi italiani (circa ventimila) abbandonarono la parte orientale delle province di Gorizia e Trieste. Si trattava di funzionari o di immigrati nel periodo fascista, in quanto quelle zone erano compattamente slovene.
In quel periodo vi infuriava la guerriglia partigiana con relative repressioni naziste, quindi il rischio di violenze era elevato.

Fin qui possiamo considerare questi spostamenti di popolazioni come una conseguenza della guerra, che al confine orientale aveva assunto caratteri di particolare ferocia e dove anche gli italiani, esercito e milizie fasciste, avevano molte responsabilità. Anche le stragi che si verificarono, compresi gli episodi delle foibe, sono da inquadrare in questo clima. Tuttavia dopo la fine della guerra non si verificarono subito partenze in massa dalle zone della Venezia Giulia occupate dalla Jugoslavia. L’esodo vero e proprio infatti cominciò nel 1947, dopo che il trattato di pace assegnò alla Jugoslavia gran parte della Venezia Giulia, contro le speranze della locale popolazione veneta .

Ricordiamo gli episodi essenziali della conclusione della guerra sul confine orientale italiano. Il primo maggio 1945 entrarono a Trieste i partigiani jugoslavi del corpo d’armata sloveno, provenienti da nord–est; il giorno successivo arrivarono i neozelandesi inquadrati nell’armata britannica. Fiume fu occupata il 3 maggio dall’esercito di Tito, proveniente da sud; questo poi attraversò l’Istria per congiungersi con gli sloveni. Nel frattempo a Pola erano sbarcati gli angloamericani. Il 12 maggio il presidente americano Truman intimò alle truppe jugoslave di lasciare Trieste. Gli Alleati, dopo un periodo di occupazione plurima pieno di tensioni, si accordarono (intesa di Belgrado, 9 giugno 1945) per dividere la Venezia Giulia in due zone di occupazione, separate dalla cosiddetta “linea Morgan”: la zona A, comprendente Gorizia, Trieste e Pola, controllata dagli angloamericani, e la zona B, con gran parte dell’Istria e Fiume, controllata dagli jugoslavi.
esodo

Seguì un periodo confuso, con gli jugoslavi decisi ad annettere subito Fiume, considerata illegalmente occupata dall’Italia dopo che gli accordi conclusi alla fine della prima guerra mondiale le avevano assegnato lo status di “città libera”. Le richieste jugoslave poi spostavano il confine alla linea Isonzo–Natisone, comprendendo nella Jugoslavia Trieste, Monfalcone e Gorizia. Gli italiani d’altra parte pensavano di poter conservare Gorizia, Trieste, l’Istria occidentale e Fiume.

La conferenza di pace conclusa a Parigi nell’autunno 1946 scontentò sia l’Italia che la Jugoslavia, perché assegnò Gorizia e Monfalcone all’Italia, Fiume, Pola e gran parte dell’Istria alla Jugoslavia. Veniva inoltre creato il Territorio Libero di Trieste, diviso in unazona A con Trieste , amministrata dagli angloamericani, e zona B, con Capodistria e Buie, affidata all’amministrazione jugoslava. Il trattato non venne firmato subito dall’Italia, che sperava nella revisione di alcune clausole, e la sua applicazione venne rimandata al 15 settembre 1947.

L’esito della conferenza di pace fu un duro colpo per le speranze italiane. Infatti la classe politica italiana, la stampa, l’opinione pubblica e la popolazione locale avevano nutrito illusioni infondate sul ruolo dell’Italia nel nuovo contesto internazionale. Invece la Jugoslavia era uno degli Stati vincitori della guerra, e le grandi potenze alleate non intendevano premiare gli sconfitti. Forse poteva anche andare peggio, se Stalin avesse sostenuto fino in fondo le rivendicazioni jugoslave; il capo sovietico invece era piuttosto irritato dall’attivismo di Tito e si dimostrò malleabile. Comunque restava un problema, dal momento che centinaia di migliaia di italiani passavano sotto la sovranità jugoslava e decine di migliaia di sloveni restavano dentro i confini italiani, mentre non era stata definita la situazione di Trieste. Il fatto poi che Pola, già in mano occidentale, fosse stata abbandonata al suo destino segnala che gli angloamericani nel clima montante di guerra fredda si muovevano in una logica militare: meglio tenere un territorio compatto con un confine abbastanza lineare, anche se illogico dal punto di vista etnico, che due enclaves come Trieste e Pola (Fiume era già data persa), circondate dal confine jugoslavo e raggiungibili solo via mare.

Questa conclusione provocò numerose manifestazioni di protesta a Pola, controllata dagli americani, e la decisione del CLN locale, il 23 dicembre 1946, di dichiarare aperto l’esodo verso l’Italia. Seguì una migrazione in massa degli abitanti, in buona parte di origine veneta.

Gli accordi di Parigi prevedevano l’opzione per trasferirsi da una nazione all’altra. Nella zona passata alla Jugoslavia furono presentate circa duecentomila domande di opzione per l’Italia, quasi metà della popolazione. A presentare domanda non furono solo italiani, ma anche slavi contrari al nuovo regime. Molte meno furono le opzioni verso la Jugoslavia, in genere sloveni che si spostarono verso i sobborghi orientali di Gorizia rimasti al di là del confine, dove si sviluppò il centro di Nova Gorica, ma anche qualche migliaio di italiani, operai dei cantieri di Monfalcone e Trieste e diversi militanti comunisti provenienti da ogni parte d’Italia, che scelsero la Jugoslavia per ragioni ideologiche, dirigendosi soprattutto verso Fiume.

Le autorità jugoslave, preoccupate per lo spopolamento della regione e dalla constatazione che chiedevano di andarsene anche gli slavi (a Pisino, considerata la capitale dell’Istria croata il 90% degli abitanti aveva chiesto l’opzione per l’Italia), crearono ostacoli alle partenze, ma queste proseguirono per anni, riducendo ai minimi termini la presenza italiana in centri di antichissima tradizione veneta, come Zara, Fiume, Pola, Parenzo, Rovigno. Inutilmente il governo italiano, guidato da De Gasperi, tentò di frenare la migrazione, finanziando attraverso il CLN dell’Istria gli italiani in difficoltà economiche. La durezza del nuovo regime, la prevalenza dell’etnia slava, la sfiducia nel futuro spingevano la componente italiana (e non solo questa) a lasciare l’Istria.

L’ultima fase dell’Esodo riguardò gli abitanti della zona B del Territorio Libero, cancellato dopo gli accordi del 1954 (Memorandum di Londra) che restituivano Trieste (con cinquantamila abitanti sloveni) all’Italia ma consegnavano alla Jugoslavia anche la parte settentrionale dell’Istria (zona B del Trattato del 1947), abitata in buona parte da italiani. La fuga si esaurì alla fine degli anni Cinquanta.

Quanto ai numeri, le stime oscillano tra le 190.000 opzioni rilasciate ufficialmente dalla Jugoslavia e le 350.000 partenze contate da alcune associazioni di esuli. L’ente di assistenza appositamente creato in Italia segnala 201mila profughi; contando gli espatri clandestini gli storici ritengono che abbiano lasciato la parte di Venezia Giulia passata alla Jugoslavia tra 250 e 270 mila persone, di cui circa 200 mila italiani. Queste stime trovano riscontro nei dati del Censimento riservato italiano del 1939, basato non sulle dichiarazioni dei cittadini ma sulle indagini degli uffici anagrafici relative alla lingua usata abitualmente, che segnalava 241.186 parlanti italiano residenti nelle provincie di Zara, Fiume e Pola. Il censimento jugoslavo del 1961, contava nelle stesse zone 25.615 italiani. Quindi quasi il 90% dei residenti italiani lasciarono l’Istria.

In Italia furono accolti in un centinaio di campi profughi, spesso in condizioni di forte disagio data la situazione economica: nel dopoguerra l’Italia si trovava in condizioni disastrate, con le città distrutte dai bombardamenti, l’agricoltura e l’industria bloccate dalla guerra, le risorse alimentari insufficienti. Vi furono anche episodi di intolleranza verso i profughi, da alcuni considerati “fascisti”, da altri “slavi”, da altri ancora concorrenti per il lavoro e l’abitazione. Una parte quindi prese la via dell’ulteriore emigrazione verso l’America o l’Australia, ma la maggior parte riuscì a inserirsi nella società italiana, spesso conservando e coltivando la propria specificità. Da ricordare anche i trentamila che decisero di restare, in una situazione molto difficile, a volte considerati come traditori dagli esiliati, ma che hanno permesso la sopravvivenza di una comunità italiana in Istria.

La fine della guerra
Le interpretazioni