Malga Silvagno 2019

Commemorazione di Malga Silvagno, 13 ottobre 2019
Commemorazione di Malga Silvagno, 13 ottobre 2019

Ecco l’intervento di Giorgio Fin a Malga Silvagno, 13 ottobre 2019.

E’ da otto anni che saliamo attraverso i boschi, ammantati dei colori d’autunno, fino a questa Malga per commemorare il sacrificio dei quattro martiri garibaldini ricordati nella lapide.

Commemorare vuol dire fare memoria insieme e quindi anche oggi, insieme, li ricordiamo come persone, come garibaldini e come martiri dell’antifascismo.

Sono: Giuseppe Grestani “Bepi- Stizza”, un uomo di 36 anni, che abitava a Tortima, già tenente della Brigata Garibaldi in Spagna contro Franco, un comunista convinto, un uomo temprato alla lotta dal carcere e dal confino di Ventotene.
Tomaso Pontarollo “Coarossa-Masetti “, 38 anni, di Valstagna, dove era da poco rientrato dal campo di concentramento a Pisticci (Matera). Muratore era espatriato in Francia e si era arruolato nella Legione Straniera in Marocco e in Algeria ove era entrato in contatto con alcuni antifascisti, diventando comunista; ritornato in Italia fu arrestato, confinato a Ventotene e poi rinchiuso appunto a Pisticci.
Ferruccio Roiatti “Spartaco”, friulano di Cussimacco (Udine) di 35 anni, anche lui di idee comuniste per le quali annoverava un passato di arresti e di prigionia nelle carceri di Imperia e Udine, nel campo di Ariano Irpino e poi al confino alle isole Tremiti.
Vi era poi un altro partigiano chiamato “Zorzi – Pirro – Maschio” la cui identità non è stata ricostruita. Si tratta probabilmente di un veneziano che deve aver avuto una buona dose di esperienza e preparazione politica nella lotta antifascista, per essere stato mandato quassù dalla Delegazione Garibaldi di Padova. Sì, perché questi quattro sono stati introdotti nel gruppo di sbandati o renitenti che prima stava nella casara di Monte Cogolin e poi a Malga Silvagno ad opera soprattutto di un giovane bassanese di 19 anni, Orfeo Vangelista “Aramin”, il quale agiva in nome e per conto di Amerigo Clocchiatti “Ugo” che era appunto il comandante delle Brigate Garibaldi del Veneto.

Come è noto e com’è scritto nella lapide i quattro sono stati uccisi non da fascisti o da tedeschi, ma da alcuni dei loro compagni come epilogo di un crescendo di dissensi, di contrasti e di divisioni personali, sociali, politiche e forse anche religiose sorte all’interno del gruppo e alimentate dall’intervento di elementi esterni che hanno contribuito ad esasperare la situazione provocandone il tragico e triste epilogo. Non intendo ripercorre la storia del gruppo, del resto ampliamente narrata in varie pubblicazioni, né entrare nel merito delle diverse ricostruzioni storiche di quello che veramente è accaduto nei giorni dell’eccidio dei quattro. Mi preme invece porre l’accento su due fatti:
1° che quel gruppo, battezzato distaccamento “Monte Grappa”, fu il primo nel Vicentino ad abbracciare la lotta armata contro i fascisti e i tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Molti, ovunque, furono i renitenti, gli sbandati dell’esercito sfasciato, gli antifascisti e gli ex-prigionieri del regime che si sono riuniti nei boschi, in montagna, nei nascondigli delle città per sottrarsi ai bandi del rinato fascismo della Repubblica di Salò, servo dei tedeschi di Hitler. Nessuno però di questi gruppi, così almeno risulta dagli studi fin qui effettuati, aveva assunto come scopo principale quello di impegnare i tedeschi e i fascisti repubblicani combattendoli frontalmente, senza indugi o tentennamenti. Si limitavano, si fa per dire poiché il rischio era per tutti sempre alto, anche della vita, si limitavano alla resistenza passiva, alla propaganda antifascista, al soccorso verso le vittime della repressione del regime, all’effettuazione di sabotaggi anche nella convinzione che la guerra sarebbe terminata di lì a poco e sarebbero arrivati gli inglesi e gli americani a liberarci. Questi gruppi, quando usavano le armi, lo facevano solo per rispondere ai rastrellamenti che i nazifascisti organizzavano per catturarli o semplicemente per riprendersi il controllo del territorio. Anche il gruppo di Fontanelle di Conco era inizialmente di questa natura e in parte lo resterà, ma andò modificandosi verso la resistenza armata vera e propria con l’inserimento di questi quattro elementi di provata esperienza militare di guerriglia, mandati, appunto, dalla delegazione triveneta delle Brigate Garibaldi.

2° fatto: quel gruppo, proprio perché era il primo, non aveva punti di riferimento univoci, non poteva cioè contare su organismi superiori che, in nome di un comune antifascismo, portasse la lotta ai tedeschi e ai fascisti secondo una strategia e una tattica condivisa o per lo meno confrontata. I CLN in quel periodo, anche quello provinciale, pur rappresentando i vari partiti antifascisti, non erano ancora organismi forti, dotati di autorità e di comuni propositi. Se lo fossero stati, sarebbe spettato a loro risolvere il gravissimo problema creatosi nel gruppo di Malga Silvagno imponendo una qualche mediazione. In quel primo periodo i CLN erano sì formati da persone coraggiose, piene di buona volontà e di ideali, ma mancavano di esperienza, di sincera unità e di vera autorevolezza, per cui la lotta antifascista non assumeva un indirizzo univoco, comune, ma prevalevano le spinte dei vari partiti i cui obiettivi erano a volte divergenti o contrastanti. Queste contraddizioni inevitabilmente si scaricavano poi sulle formazioni partigiane, le prime interessate e le più esposte. Anche nei mesi successivi del 1944 e ’45 non sono mancati contrasti, anche insanabili tra le formazioni partigiane o all’interno di esse, persino sfociate in veri e propri conflitti a fuoco, ma l’irreparabile fu quasi sempre evitato proprio grazie all’intervento dei CLN . Questi organismi, infatti, erano andati nel tempo qualificandosi come veri e propri laboratori di democrazia, in cui era valorizzata la pluralità delle posizioni in antitesi al pensiero unico imposto dal fascismo, ma nel contempo veniva cercata e quasi sempre trovata una sintesi tra le varie idee avendo tutte uno scopo comune che allora era la liberazione dell’Italia dall’invasore tedesco e dall’oppressione violenta del fascismo. Si cercava, per usare una frase fatta, ciò che li univa più che irrigidirsi su ciò che li divideva.

Quando invece prevalgono interessi di parte, quando non si è in grado di individuare il bene comune e di sostenerlo, allora succedono le tragedie, come quella avvenuta qui a Malga Silvagno, tragedie che spesso non restano circoscritte ma si allargano e contagiano l’ambiente provocando la distruzione anche di ciò che di buono si era potuto faticosamente costruire. Avvenne così anche per il gruppo di Malga Silvagno. Infatti l’eliminazione dei quattro garibaldini non fu motivo di ritrovata unità, né provocò nuovo impulso e vigore, ma al contrario lo disorientarono e lo indebolirono al punto che una decina di giorni dopo, quando dovette subire l’urto di un rastrellamento nazifascista, andò incontro allo smembramento definitivo, non senza aggiungere dolore al dolore. In quel rastrellamento, infatti, furono catturati, condannati a morte e poi fucilati il 14 gennaio 1944 al castello inferiore di Marostica altri quattro partigiani di quel distaccamento, alcuni dei quali, tra l’altro, furono esecutori o presunti tali dell’omicidio dei quattro garibaldini. Ricordiamo i loro nomi: Giovanni Rossi del Sasso di Asiago, Decimo Vaccari di Marostica, Bruno Provolo di Vicenza e Luigi Nodari di Nove. E questo ricordo, almeno nelle mie intenzioni, non ha propositi provocatori né vuole sminuire l’efferatezza dell’eccidio di Malga Silvagno o il valore del sacrificio dei quattro comunisti. E’ un ricordo secondo me dovuto, perché anche i fucilati di Marostica hanno rimesso la vita a causa del loro impegno contro il nazifascismo. Anche loro, in un certo senso, sono vittime delle stesse divisioni e degli stessi contrasti che sono all’origine della tragedia avvenuta in questa Malga e giù al bosco Littorio. Quando un gruppo, una società non è capace di trovare obiettivi comuni verso cui tendere, allora rinuncia ad una identità comune e lascia che al suo interno prevalgano posizioni di parte che prima o poi portano a divisioni irreparabili. Si può dire in sostanza che il cemento che ha unificato il movimento di Resistenza, che l’ha reso capace di indivi- duare valori comuni da perseguire, come la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la solidarietà e la pace, e che gli ha dato la forza di uscire dalla guerra vincitore, sia stato l’antifascismo. Tutti, dai monarchici ai comunisti, dai socialisti ai cattolici, dai liberali agli azionisti, tutti volevano la fine del fascismo e dell’occupazione tedesca. E tutti insieme hanno combattuto per questo e, vincendo uniti, hanno riscattando la nostra Patria dalla vergogna ventennale di un regime totalitario, oppressivo e violento. L’antifascismo era il cemento su cui è stata poi costruita anche la nostra società democratica, su cui è sorta la Repubblica con il voto della maggioranza degli Italiani, uomini e donne. Dall’antifascismo sono scaturiti i principi fondamentali e le strutture portanti della nostra Costituzione, che è stata alla base di una nuova convivenza civile e della ricostruzione materiale e morale del nostro Paese. Un Paese che finora è riuscito, sempre grazie all’unità delle forze antifasciste, a superare vari tentativi di svolte autoritarie, colpi di stato, terrorismi e stragi. L’antifascismo è stato il cemento di questa unità.

Ma molti si domandano se questo cemento, dopo più di settant’anni non sia corroso, abbia perduto il nerbo, la consistenza. Molti si chiedono e ci chiedono: ha ancora senso parlare di antifascismo? Il fascismo non c’è più, dicono; che senso ha allora l’antifascismo? Qualcuno invece sostiene, e io sono d’accordo, che il fascismo non è affatto morto e non muore, ma come un herpes sta acquattato nel corpo della democrazia e ricompare quando la democrazia si indebolisce, sicuramente non nella forma storica, ma con vesti e metodi nuovi. Se è così allora l’antifascismo non va accantonato, ma coltivato, aggiornato e adeguato alle novità del fascismo. Il fascismo, infatti, è capace di mimetizzarsi e, per affermarsi, può servirsi anche delle stesse op- portunità offerte dal sistema democratico. Il fascismo, che Madeleine Albright ha definito “dottrina di rabbia e di paura“, oggi non ambisce più a diventare dittatura, gli basta permeare e inquinare i sistemi democratici, creando quelle che vengono chiamate con un neologismo “democrature”. Le vediamo in alcuni autoritarismi contemporanei, da Erdogan a Putin, da Kim-Jong-Un a Orban fino a Donald Trump. Da noi in Italia il fenomeno è ancora più complesso e più difficilmente individuabile. Michela Murgia, in un suo recente libro, ci suggerisce un metodo efficace per individuarlo: è fascista chi fa il fascista. Fa il fascista chi considera il leader politico come un “capo” (o “capitano”) cui ubbidire ciecamente convinto che senza mediazioni il sistema diventa più efficiente. È fascista chi semplifica o, peggio, banalizza ciò che richiede invece ragionamenti complessi, come avviene con l’uso massiccio dei social, dei twitt. Con un twitt si dichiara una guerra.

Con un SMS si chiude una fabbrica. È fascista chi per marcare la propria identità ha sempre bisogno di individuare un nemico irriducibile, spesso costruito su base razziale (gli immigrati, gli islamici, i neri o le femministe o i buonisti). E’ fascismo il ricorso alla violenza, verbale e fisica giustificandola anche, dicendo: chi ama la propria famiglia, la propria patria e la propria gente deve poter usare tutta la forza necessaria per difendere i valori in cui crede e la società in cui vive e se questo non lo fa lo Stato democratico, lassista e permissivo, è giusto che il singolo cittadino si difenda anche con le armi: “la difesa personale è sempre legittima”. È fascismo il populismo, cioè surclassare tutti gli intermediari tra il capo e il popolo, ricercando direttamente il consenso ad ogni costo, offrendo a ognuno la soluzione dei propri interessi particolari, “prima gli italiani”, ma anche “prima i veneti” e in Sicilia “prima i siciliani” e così via. Infine è fascismo cercare di rimuovere la memoria antifascista, inquinandola seminando dubbi, sostenendo equivalenze (gli eccidi dei partigiani accanto alle stragi fasciste, le foibe insieme alla Shoah, il nazismo al comunismo). Quante volte poi sentiamo dire che il duce ha fatto anche “cose buone”, anzi sarebbe stato perfetto se non fosse stato spinto da Hitler ad adottare le leggi razziali e ad entrare in guerra e tante altre fandonie del genere. Inquinando la memoria è facile poi riscrivere la storia, già si dedicano vie e piazze a esponenti fascisti e forse si arriverà anche ad abolire il reato di apologia del fascismo.

Se tutto questo, che ho sommariamente elencato, è fascismo allora l’antifascismo non è affatto superato, non è privo di senso oggi, anzi, è più che mai necessario. E’ necessario per sconfiggere le forze regressive che stanno tornando ovunque a galla favorite dalla crisi economica, sociale e soprattutto morale, sempre più grave e lontana da una soluzione credibile. L’antifascismo è necessario ma deve essere nuovo, all’altezza dei mutamenti e capace di usare moderni strumenti operativi e di comunicazione. Nel contempo l’antifascismo deve tornare a costituire il cemento che unisce tutte le forze che vogliono costruire un nuovo modello di sviluppo che si fondi su criteri di equità e di giustizia, che torni a cercare il bene comune fondato sulla dignità della persona umana, di tutte le persone, sulla salvaguardia dell’ambiente e rivolto a tutti i popoli e a tutte le generazioni specie quelle future.

Solo nell’unità di intenti, nell’unità contro i nuovi fascismi e tutti i sovranismi, contro l’ondata nera che rischia di travolgerci, saremo capaci di evitare di incorrere in divisioni e contrasti insanabili come quelli che hanno portato all’eccidio di Malga Silvagno.
Allora il messaggio che oggi qui vogliamo cogliere e rilanciare da questi luoghi è un forte appello all’unità antifascista di tutte le forze del paese che credono ancora nella democrazia e nei valori della Costituzione nata dalla Resistenza: una specie di rinnovato CLN. Accogliere questo appello è il modo migliore e più efficace per fare memoria insieme, cioè commemorare il sacrificio di questi quattro garibaldini, martiri degli ideali di libertà e di giustizia e rendere loro il giusto onore. Onore quindi a Giuseppe Crestani, a Tomaso Pontarollo, a Feruccio Roiatti e a Zorzi-Pirro.

Viva e continui a vivere la Resistenza.