Commemorazione dei sette Martiri: orazione civile
Valdagno, domenica 29 giugno 2025
Sig. Sindaco, Sig.ra Vice Prefetto, autorità civili e militari, amici delle sezioni ANPI e delle Ass.ni Combattentistiche e d’Arma, parenti dei Sette Martiri amici del complesso strumentale, cittadine e cittadini: vi saluto di vivo cuore.
Ringrazio la sezione ANPI di Valdagno, nella persona della sua presidente Franca Dal Maso, per l’invito offertomi a commemorare, ancora una volta, con voi i “Sette Martiri” qui a Valdagno, città che sento come mia, per il mio lavoro di insegnante presso i Licei, ma anche per le relazioni che in questi anni sono nate e cresciute con molti di voi.
Permettetemi anche con particolare affetto un’amica che è stata con noi fino a pochi mesi fa: Teresa Peghin “Wally”, partigiana e amica che molto ha dato, con l’esempio e con la sua amicizia, a ciascuno di noi.
È ormai la terza volta che mi trovo a condividere con voi la memoria dei Sette Martiri, eppure mai come oggi mi sento in difficoltà a parlarvi. A ottant’anni dalla Liberazione dal nazifascismo e dalla fine della Seconda guerra mondiale il mondo sembra essere precipitato in una spirale di violenza e caos senza precedenti: il dialogo sembra morto, Stati che si dicono democratici arrestano e deportano le persone, massacrano interi popoli, bombardano e distruggono.
Parallelamente, a livello sociale, aumentano le disuguaglianze, le tensioni, la paura, cui le estreme destre di tutto il mondo contrappongono, con le loro urla, i loro slogan e, quando governano, i loro provvedimenti, un fantomatico ordine esaltando il ritorno dello Stato forte, della nazione sovrana. La nostra Italia poi, quella patria che la Resistenza riscattò dopo oltre vent’anni di dittatura e di un conflitto senza precedenti, sembra sempre più lontana che mai, e spesso a partire da chi ricopre le cariche più alte, dagli ideali di chi si impegnò per la Libertà, la giustizia, la pace.
Non ve lo nascondo: mi sento sfiduciato, oppresso da un senso di impotenza di fronte al rombo sempre più potente delle armi come di chi urla, di chi invoca la guerra e non esita servirsi della violenza per imporre una propria visione del mondo, per dominare, per soverchiare l’altro, calpestando diritti fondamentali: “Come vivere?” si chiede in una poesia la poetessa polacca premio Nobel Wisława Szymborska.
E allora torno a quel 3 luglio di ottantuno anni fa, quando la violenza nazifascista troncò le vite dei Sette che oggi commemoriamo:
- Ferruccio Baù, valdagnese, antifascista, classe 1908;
- Antonio Bietolini, classe 1900, meccanico, militante comunista arrestato più volte nel corso del ventennio, che prima di entrare nella Resistenza, divenendone importante dirigente, aveva trascorso sette anni di Confino alle isole Tremiti;
- Marino Ceccon, classe 1912, comunista, operaio agli stabilimenti “Marzotto”;
- Virgilio Cenzi, classe 1896, militante comunista e sostenitore del movimento partigiano, falegname alla manifattura della Marzotto”;
- Alfeo Guadagnin, classe 1899, socialista bassanese di lunga militanza, che in quei giorni era a Valdagno per incontrarsi con l’amico Ferruccio Baù;
- Francesco Rilievo, classe 1919, operaio alla “Marzotto”, privo di legami con l’attività clandestina, arrestato semplicemente perché cognato di Giovanni Zordan;
- Pasquale Giovanni Zordan, “Nani Sette”, classe 1908, comunista, attivista nella fabbrica “Marzotto”.
Avevano età diverse, e tranne Rilievo avevano tutti un’età matura ed erano impegnati attivamente nella lotta al nazifascismo. Erano, potremmo dire, “padri di famiglia”, potevano restare indifferenti mentre intorno a loro infuriava la violenza.
Potevano evitare il rischio. Eppure non lo fecero.
Perché?
Penso che una possibile risposta si celi nella parola Libertà: un concetto che per noi oggi può sembrare alquanto vago, considerato che in Libertà siamo vissuti e viviamo: “liberi di” è la nostra concezione usuale di Libertà.
Piero Calamandrei lo ribadiva già nel gennaio 1955 quando diceva che «la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai». Già allora l’insigne giurista e padre costituente sentiva il pericolo dell’indifferenza, e specialmente nei giovani.
Indifferenza rispetto alla vita politica e sociale, a quella partecipazione e a quella responsabilità a cui tutte e tutti siamo chiamati.
Ma la vicenda dei Sette Martiri ci parla anche dell’altra parte, di coloro, cioè, che combattevano per la parte sbagliata. I nazifascisti sapevano, quando arrestarono i Sette Martiri, che nessuno di loro aveva a che fare con lo scontro fra partigiani e tedeschi avvenuto in località Canova di Montecchio Maggiore che invece, pubblicamente, indicavano quale motivo della rappresaglia.
La loro doveva essere una manifestazione di violenza e di terrore. Perché solo con questi mezzi potevano imporsi sulla popolazione. Non era un’eccezione: fin dalla loro fondazione il fascismo e poi il nazismo, che al primo si ispirava, si erano serviti della violenza. Prima fu violenza politica contro gli avversari, poi violenza eretta a sistema di potere, infine fu guerra, cioè violenza orientata dalla volontà di dominio assoluto, alimentata dal razzismo e dal nazionalismo.
È questo che oggi stentiamo spesso a capire. È quella la radice, oggi più che mai feconda, del male.
La brama di dominio declinata in tutte le sue forme:
- verso le persone,
- verso le risorse del pianeta,
- verso le relazioni.
Una radice che germoglia nell’indifferenza e che ancora oggi si nutre degli stessi slogan, delle stesse fallacie logiche, delle stesse parole roboanti e all’apparenza amiche.
Dentro e fuori da un’Europa che sembra aver smarrito altre parole: Libertà, uguaglianza, fratellanza, gli ideali di quella rivoluzione francese che per prima proclamò al mondo che ogni essere umano nasce libero e uguale.
Ma come fare oggi, in un mondo tanto complesso?
Come onorare degnamente la memoria dei Sette Martiri, e con loro di tutti coloro, uomini e donne, che ottant’anni fa scelsero la parte giusta?
Come vincere l’indifferenza?
Non pretendo di dare risposte semplici, ma vorrei solo condividere una traccia, un sentiero. Anzitutto quello che ci ha portato oggi qui, e cioè fare memoria di loro, ripeterne i nomi, per ribadire che noi ci siamo, insieme, con le nostre storie e le nostre vite; per dire che nessuna intelligenza artificiale potrà riscrivere la storia di una Città che sul suo gonfalone porta appuntata la medaglia d’argento al valor militare per meriti partigiani.
Essere qui non è soltanto un gesto di pietà verso i Sette Martiri, è ripetere un rito civile di cui abbiamo oggi estremo bisogno, è ribadire che raccogliamo il testimone del loro impegno.
In secondo luogo, e mi rivolgo in particolare a voi, ragazze e ragazzi, occorre studiare.
Studiare la storia, conoscerla: quella della vostra città e quella, più ampia, del mondo che è stato.
Non per sancire una superiorità, non per escludere, ma per essere consapevoli dei passi compiuti da chi scelse di rischiare, e di farlo non soltanto per sé ma per gli altri. Non avevano certezze, i Sette Martiri, ma coltivavano la fede, nei loro ideali e in quelli più ampi di pace, libertà e giustizia. Ci hanno tracciato quel sentiero che, se anche oggi appare poco battuto, tuttavia è presente e vivo. Ecco perché occorre anche conoscere e studiare il presente, con le sue contraddizioni, con le sue ombre, ma anche con i barlumi di luce che ancora brilla in mezzo a tanta oscurità: fatelo per voi, ragazze e ragazzi, ma fatelo anche per gli altri.
Infine, occorre impegnarsi. Oggi più che mai. Impegnarsi a ricostruire, attraverso la storia, il filo della memoria che ci lega al passato; ma anche a costruire l’attenzione e la cura verso il presente.
Non accettiamo l’apatia e l’indignazione fine a se stessa a cui ci spingono i media, e i social in particolare.
Ragazzi, so che voi vi sentite cittadine e cittadini del mondo: c’è bisogno di voi. Impegnatevi, perché non è più il futuro a essere minacciato, è il vostro presente.
La pace e la democrazia nate dal disastro di ottant’anni fa oggi sono a rischio come mai dalla fine del Secondo conflitto mondiale. E a chi oscenamente afferma che solo preparando la guerra si mantiene la pace dobbiamo rispondere un “no” senza se e senza ma; solo con la pace, con il disarmo degli arsenali e delle parole costruiremo la vera pace.
«Si svuotino gli arsenali di guerra, si colmino i granai», affermava il Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Di altro abbiamo bisogno: di istruzione pubblica e di qualità, di sanità pubblica e di qualità, di investimenti nel sociale, nella salvaguardia dell’ambiente, nell’inclusione.
Inclusione: una parola messa al bando dai comunicati governativi negli Stati Uniti. Quanto passerà prima che lo sia anche da noi?
Già nel 2018 affermavo che i Sette Martiri non erano eroi, ma persone normali che tuttavia scelsero.
Ottantun’anni fa a un mondo di violenza e di terrore eretti a sistema scelsero la parte giusta. E allora non rimaniamo sfiduciati, non cediamo alla stanchezza, non spaventiamoci se, come scriveva Primo Levi nella poesia Delega, «il lavoro è molto» perché c’è bisogno di noi. E di voi, ragazze e ragazzi, in particolare.
«Come vorremmo vivere, domani? – si domandava nella sua Lettera agli amici Giacomo Ulivi, partigiano emiliano fucilato a 19 anni dai fascisti a Modena – No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari».
Il lavoro è enorme, ma abbiamo di fronte a noi l’esempio dei Sette Martiri. Ripartiamo dalle loro storie, ripartiamo dalla loro scelta. Perché, come disse la nostra amata Teresa Peghin, «se oggi viviamo liberi e in Democrazia è merito di questi Martiri».
Michele Santuliana
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