La Resistenza Vicentina

1a parte25 luglio e 8 settembre

Due date misero in movimento, nel quarto anno di guerra, le forze politiche vicentine, che si stavano ricostituendo dopo il ventennio fascista e l’andamento disastroso delle operazioni belliche per l’Italia: il 25 luglio 1943 e l’8 settembre dello stesso anno.

Le dimissioni e l’arresto di Mussolini il 25 luglio furono il tentativo della classe dirigente italiana, responsabile della guerra – il re, l’alta nobiltà, il capo e i gerarchi del fascismo, i grandi gruppi industriali e finanziari –, di determinare un cambiamento fittizio scaricando sul “duce” tutte le colpe, per trovare una via d’uscita di fronte alla catastrofe imminente e salvare così il sistema di potere. Infatti le operazioni militari sul fronte dell’Europa orientale e dell’Africa settentrionale, nei primi mesi del 1943, avevano segnato delle clamorose sconfitte per la Germania nazista e l’Italia fascista. Gli scioperi del marzo 1943 nel triangolo industriale (Piemonte, Lombardia, Liguria) avevano del resto messo in evidenza la rottura del rapporto di fiducia e di consenso dei lavoratori impegnati nella produzione bellica. Infine lo sbarco angloamericano in Sicilia nella notte fra il 9 e il 10 luglio segnò il punto più alto della crisi: la guerra era portata sul suolo patrio.

Ecco allora il disegno di cambio della “guida”: da Mussolini a Badoglio. Ecco la ripresa del comando delle forze armate nella mani di re Vittorio Emanuele III°. La popolazione accolse la notizia delle dimissioni e dell’arresto di Mussolini con entusiasmo e speranza. Manifestazioni popolari si svolsero in tutti i centri grandi e piccoli del Paese.I partiti antifascisti emersero dalla clandestinità, chiedendo la fine della guerra, la liberazione dei detenuti e dei confinati per ragioni politiche, istituzioni libere e democratiche. I simboli del fascismo – scritte, monumenti, quadri, statue – furono presi d’assalto e demoliti. I gerarchi fascisti di ogni livello, alto e basso, sparirono dalla circolazione.

Si registrarono movimenti di popolo in città e nelle località del Vicentino. A Vicenza il “comitato interpartitico antifascista”, formatosi già prima del 25 luglio – comprendeva esponenti del Partito d’Azione: Dal Prà, Magagnato, Perin, Pranovi; del Partito Comunista Italiano: Cerchio, Lievore, Rossi, Giordano e Bruno Campagnolo; del Partito socialista: Faccio, Segala, De Maria – incontrò subito il prefetto Pio Gloria, rivendicando il ripristino delle libertà, la liberazione dei detenuti politici, la fine del coprifuoco. Egli prese tempo, fornendo assicurazioni e promesse, in attesa di disposizioni. Si ebbe qualche segnale nuovo: Il quotidiano “Vedetta Fascista” diventò “Il Giornale di Vicenza” e il poeta Antonio Barolini fu nominato direttore. Il giornale “Giustizia e Libertà” fu diffuso apertamente; cominciò ad uscire pure un valido foglio locale, la “Voce del Popolo”, frutto della collaborazione tra azionisti e comunisti vicentini. Furono rinnovate le commissioni interne presso la tipografia del quotidiano “Il Giornale di Vicenza” e alle Smalterie Venete di Bassano. Cominciarono a rientrare dalle carceri e dal confino gli antifascisti. Dopo 17 anni, in agosto, tornò il dirigente comunista Domenico Marchioro. Assunse la responsabilità di segretario provinciale della Federazione Comunista, trasferita dal centro operaio di Schio a Vicenza.

Trascorsi i primi giorni di mobilitazione e di attesa, vennero però compresi nel loro significato i proclami del re e di Badoglio emessi il 25 luglio. Con il colpo di Stato non si intendeva porre fine al regime autoritario ed estirpare il fascismo. Si prendeva tempo per la questione della guerra. Con l’obiettivo di mantenere l’ordine pubblico, in varie città le manifestazioni furono vietate e represse nel sangue. Undici divisioni dell’esercito furono adibite al mantenimento dell’ordine e della sicurezza. Due divisioni furono spedite in Venezia Giulia a combattere il movimento partigiano. Mentre le ostilità belliche proseguivano a fianco della Germania, Badoglio avviava trattative segrete con il comando angloamericano per giungere ad una pace separata.

Così si arrivò all’8 settembre, giorno dell’armistizio, e il capo del governo annunciò alla radio “la cessazione delle ostilità contro gli angloamericani”, con l’invito a “reagire ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Il comando tedesco non fu colto di sorpresa e applicò il piano già predisposto di occupare l’Italia.

Mentre Badoglio e i suoi ministri, con il re e la casa reale, prendevano la via del Sud, toccando prima Pescara e poi Brindisi, le sorti del nostro esercito, superiore certamente per forze e armamento alle truppe tedesche presenti in Italia, furono affidate alla volontà d’iniziativa e di risposta degli alti comandi militari. C’erano disposizioni precise, contenute nella “Memoria 44 OP”, di comportamenti operativi nei confronti dei tedeschi, ma furono applicate solo in parte e a discrezione di ciascun comando. Così fu destinato al dissolvimento l’esercito italiano, in un clima di disorientamento, confusione, abbandono e carenza di ordini. Non mancarono tuttavia episodi eroici di resistenza. Ufficiali e soldati combatterono aspramente nelle isole dell’Egeo contro i tedeschi (Cefalonia, Corfù, Lero, ecc.), nei Balcani, in Corsica, in Sardegna, a Roma. Scontri armati ci furono nel Triveneto a Trento, a Gorizia, a Verona, a Schio. Centinaia di migliaia di giovani militari si misero in viaggio con ogni mezzo per raggiungere le proprie case. Oltre seicentomila soldati furono fatti prigionieri in Italia, Francia, Grecia, Albania e Jugoslavia e rinchiusi nei campi di concentramento in Germania. Li chiamarono “internati” per non rispettare le convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra. Subirono umiliazioni e sofferenze inaudite. Fecero la loro resistenza in prigionia, rifiutando di collaborare con Hitler e Mussolini, con la R.S.I., messa in piedi dai tedeschi per ottenere il pieno dominio sull’Italia del Centro e del Nord. Soltanto l’uno per cento dei soldati e il tre per cento degli ufficiali accettarono di schierarsi con Hitler e con il fascismo repubblichino.

I tedeschi occuparono il Vicentino il 9, 10 e 11 settembre. A Vicenza l’occupazione fu completata il giorno 11 e proprio quel giorno per mano tedesca caddero due donne vicentine, Nerina Sasso di 21 anni e Novelia Turato di 33, che portavano aiuto ai giovani soldati catturati e li invitavano a porsi in salvo. La “Voce del Popolo” uscì la sera stessa dell’otto settembre con l’appello alla lotta contro gli invasori nazisti. Il 10 settembre un’edizione straordinaria fu dedicata ai soldati di Boemia e d’Austria, incitandoli a sabotare la guerra. Gli antifascisti dovettero rientrare nella clandestinità, cercando luoghi sicuri di rifugio. Il Comitato di Liberazione Nazionale sorse a Roma il 9 settembre; a Milano, nel cuore dell’Italia occupata, fu fondato l’11 settembre dai partiti: Gruppo di Ricostruzione Liberale, Democrazia Cristiana, Partito d’Azione, Partito Socialista e Partito Comunista. A Vicenza il Comitato Antifascista, allargato alla Democrazia Cristiana, diventò Comitato di Liberazione Nazionale Provinciale. Fu creato il Comitato Militare Provinciale, diretto da Gino Cerchio e Mario Dal Prà, affidato al comando del Col. D’Aiello, poi del Magg. Malfatti.

Le forze politiche della sinistra vicentina presero però a muoversi subito sotto la direzione del Comitato Militare Provinciale Dalla Pozza (dal nome del responsabile Romeo Dalla Pozza, esponente comunista di primo piano, in stretto rapporto con Domenico Marchioro, i fratelli Campagnolo, Gino Cerchio, Emilio Livore, Leonida Zanchetta e Vittorio Dorio). Il Prof. Carlo Segato “Marco” fu nominato “addetto militare” di questo comitato, che cominciò ad agire per dar vita a formazioni partigiane sui monti ( il Comitato Dalla Pozza confluirà più tardi nel Comitato Militare Provinciale ufficiale).

Quali furono i compiti immediati del C.M.P. e del C.L.N.P. ?

Promuovere i gruppi partigiani; procurare armi, viveri, vestiario e basi; assistere i prigionieri alleati sfuggiti ai tedeschi; aiutare i perseguitati per motivi religiosi, razziali e politici e i ricercati; portare conforto ai carcerati; mantenere i collegamenti con i Comandi Alleati per i “lanci”; stabilire un collegamento stabile con il Governo del Sud che il 23 ottobre aveva dichiarato guerra alla Germania; operare sul territorio il controllo delle forze tedesche e repubblichine; ospitare le missioni militari alleate; organizzare il sabotaggio della produzione bellica, delle vie e dei mezzi di comunicazione, della rete di distribuzione dell’energia elettrica; intervenire sulla ripartizione delle derrate alimentari.

L’organizzazione della lotta armata

Nell’opera di soccorso verso gli ebrei, i soldati e gli ufficiali alleati e gli incarcerati si distinsero alcune personalità cattoliche di primo piano come Torquato Fraccon, Giacomo Rumor, Giacomo Prandina e altri; si avvalevano dell’appoggio della vasta e articolata struttura delle associazioni e delle parrocchie. Formato alla scuola di Mons. Rodolfi, vescovo di Vicenza dal 1911 al 1943, autorevole difensore dell’autonomia delle organizzazioni cattoliche dalle pretese egemoniche sulla gioventù del fascismo totalitario, nel maturare delle condizioni storiche della “crisi” del regime, del precipitare degli eventi con l’occupazione tedesca e la rinascita del fascismo più deteriore e vendicativo con la R.S.I., il mondo cattolico assunse un ruolo importante nel processo di formazione della lotta di liberazione. Soprattutto le comunità di collina e di montagna, unite e solidali nel loro tessuto religioso, civile e sociale, furono aperte ai nuclei di renitenti e alle prime bande di “ribelli”, offrendo ospitalità, appoggio, asilo e fiducia.

Mentre i cattolici si dedicavano alle iniziative di soccorso e di sostegno, la sinistra vicentina, comunista, azionista e socialistaimpegnò le sue forze migliori nella costruzione delle formazioni partigiane per l’avvio della lotta armata contro i nazifascisti. Puntava sulla organizzazione politica dei partiti del C.L.N.P., sull’esperienza degli antifascisti usciti dalle carceri e dal confino, sulla guida illuminata di alcuni intellettuali, tra cui Toni Giuriolo, educatore di giovani e capo dei “piccoli maestri”, sull’adesione, sulla solidarietà e aiuto concreto dei centri operai di Schio, Valdagno, Arzignano, Bassano e Vicenza.

Dopo l’8 settembre 1943, sulle colline e sulle montagne del Vicentino si erano ritirati, vicini alle loro contrade, migliaia di giovani. Essi diventarono, nella grande maggioranza, renitenti all’apparire dei bandi di chiamata alle armi della R.S.I. nel novembre 1943, nel febbraio e nell’aprile 1944. L’incontro dei giovani renitenti con i vecchi antifascisti e con i militanti operai e intellettuali della sinistra, saliti sui monti, determinò in via preminente l’avvio della lotta di liberazione.

La Resistenza si rafforzò gradualmente, compì esperienze e progressi e, spinta dall’evolversi della situazione e dalle condizioni ambientali favorevoli, si trasformò in lotta armata.

Nell’autunno del 1943 c’erano vari gruppi, tesi nello sforzo di aggregazione e di ribellione. Sul Grappa si era raccolta la banda di Pierotti, sul versante Feltrino quella di Zancanaro. Sui monti di Schio, centro industriale dalle solide tradizioni operaie, si formarono il gruppo del Festaro, diretto da Igino Piva “Romero”, e il gruppo del Masetto, che raccoglieva i giovani di Torrebelvicino. Sulla dorsale dei Tretti e del Novegno i militari sbandati erano capeggiati da “Marte”, “Turco”, “Bixio” e “Brescia”. Sulle colline di Fara, Salcedo, Calvene, Lugo e Zugliano si muoveva un altro gruppo, gruidato da “Loris”. A Fratta di Valpegara, nella Valle dell’Astico, si radunò un gruppo di una trentina di elementi. Sull’Altipiano di Asiago presero vita il gruppo di Tresché Conca di “Spiridione”, quello di Canove e altri ancora. Sulle pendici meridionali dell’Altopiano si costituì il gruppo di Fontanelle di Conco. Ferruccio Manea “Tar” e il fratello Ismene, garibaldino di Spagna, si misero alla testa di un gruppo sui monti intorno a MaloNell’alta Valle del Chiampo centinaia di giovani restavano in attesa degli eventi. Nella Valle dell’Agno, sui monti di Castelvecchio, Marana e di Recoaro, si riunirono operai e studenti di Valdagno, Arzignano e Vicenza, con “Pedro”, “Giove”, “Giorgio”, “Robin”, “Asso” e Sergio Perin, sostenuti da “Piero Stella”, Domenico Marchioro e “Marco”.

I paesi di collina e di montagna e le centinaia di contrade sparse sui versanti montuosi dell’Alto Vicentino accolsero, aiutarono e sostennero gli sbandati, i renitenti e i primi gruppi di “ribelli”. Condivisero la loro vita e la loro condizione tanti giovani contadini e montanari. Il fascismo non aveva mai fatto breccia in questi centri, gelosi della loro autonomia e della loro identità. E minore ascolto ancora trovò la politica della RSI, che li chiamava a schierarsi con il tedesco invasore, nemico già della prima guerra mondiale, aspramente combattuto e avversato nelle vicine zone di confine. I bandi, gli appelli delle autorità, le ricerche della forza pubblica ottennero il risultato contrario: centinaia di giovani delle contrade entrarono nei gruppi dei “ribelli”, che assumevano ben presto le caratteristiche e la condotta delle formazioni partigiane.

Si cementò così l’unione fra antifascisti provati, operai delle fabbriche maggiori orientati politicamente, militari che esprimevano una forte coscienza di indipendenza e difesa della Patria, studenti e intellettuali dei centri urbani e contadini-montanari della colline e dei monti vicentini.

È noto che il gruppo di Fontanelle di Conco finì in modo negativo la sua esperienza stroncato da un rastrellamento l’11 gennaio 1944, già indebolito da una dolorosa divisione interna che si era conclusa il 30 dicembre 1943 con l’uccisione di quattro esponenti comunisti.

È altresì noto che il gruppo di Malga Campetto di Recoaro, diretto da Raimondo Zanella “Giani” e da Romeo Zanella “Germano”, che riunì dal gennaio 1944 diversi quadri politici mandati lassù dalla Delegazione Triveneta Garibaldi di Padova e tanti giovani di Schio, Valdagno, Recoaro e Vicenza, inviati dall’organizzazione comunista in primo luogo, ma pure da quella azionista e socialista, costituì il nucleo originario delle Formazioni Garibaldine Garemi.

Malga Campetto divenne uno dei primi due centri regionali di aggregazione e di sviluppo della lotta armata contro i nazifascisti.

I numerosi rastrellamenti del mese di marzo non influirono sulla crescita impetuosa delle pattuglie e sulle numerose azioni militari.

Gli scioperi del marzo 1944 a Valdagno, Schio, Arzignano, Vicenza e Bassano e i bandi del mese di aprile, che fissavano un termine perentorio: presentarsi o essere fucilati, alimentarono ed estesero la ribellione.

Sui monti del Vicentino si misero in azione nella primavera e agli inizi dell’estate la brigata Stella, la brigata Apolloni, la Brigata Vicenza (poi Pasubio), la brigata Mazzini, la brigata Sette Comuni, la brigata Italia Libera, la brigata Matteotti e tanti battaglioni (Tre Stelle, Ismene, Civillina, Pretto,…).

In maggio si formò nella pianura vicentina, nei paesi intorno a Vicenza e nella stessa città, il battaglione Guastatori.

Si delineava in questo modo, per gradi, lo schieramento del Gruppo Divisioni Garemi, della Divisione Alpina Monte Ortigara, della Divisione Vicenza e della Divisione Martiri del Grappa (con la breve esperienza pure della Divisione Pasubio nella valle del Chiampo), che condussero la lotta armata nel Vicentino fino alla liberazione.

Maturava così la lotta di liberazione, che vide partecipi oltre 12.000 partigiani e patrioti vicentini, uomini e donne, con 2.607 combattenti e civili caduti per la democrazia, la giustizia, la libertà e la pace.

Settembre 2004

Mario Faggion.