Il problema del confine orientale italiano nel novecento

Le persecuzioni fasciste

Oltre alla eliminazione di tutte le garanzie dello Stato liberale, in questi territori per gli sloveni e i croati era proibito l’uso della propria lingua, al punto di perseguire la preghiera nella lingua madre. Tutte le espressioni culturali non italiane furono soppresse e perseguitate con lo scopo di italianizzare fino alle estreme conseguenze le popolazioni allogene. Al loro interno furono individuate tutte le figure di riferimento per le comunità locali non italiane e fu avviata una campagna di persecuzione che riguardò in maniera specifica preti, maestri e capi dei villaggi. Furono emanate precise norme per liquidare e limitare il potere economico della borghesia slava nella Venezia Giulia, fino alla soppressione e inglobamento nelle imprese italiane del tessuto creditizio e cooperativo. Questo ceto sociale fu oggetto di numerose espulsioni e altri seguirono chi li aveva forzatamente preceduti abbandonando i territori dell’Adriatico. Il ridimensionamento della borghesia slava fu radicale, andando a erodere l’equilibrio precedente, sia nella pubblica amministrazione che nel tessuto economico privato, nelle libere professioni e in quello sociale. In queste aree gli slavi furono sostituiti da un nuovo ceto borghese italiano proveniente dalla penisola e di provata fede fascista. Furono raggiunti livelli assai beffardi in questo processo di italianizzazione: furono cambiati cognomi, toponimi che mai erano stati italiani, fino alla rimozione di ogni memoria slava dentro i cimiteri. Il solco tra italiani e slavi divenne profondo, le radici culturali di quest’ultimi furono estirpate e separate da quelle italiane anche se erano state intrecciate per secoli e si erano nutrite dallo stesso terreno.

La violenza dello Stato fascista nel perseguire l’annullamento slavo fu implacabile ed efficiente nelle città, mentre nella campagna, da sempre luogo lasciato a sloveni e croati, fu assai meno efficace e spesso la sostituzione degli slavi negli incarichi preminenti e nell’amministrazione fu impossibile anche per non compromettere l’esistenza stessa della macchina statale. Le popolazioni slave non furono compatte nel rifiutare e respingere le lusinghe che il fascismo porgeva loro dove non era possibile attuare la politica sostitutiva, e non furono infrequenti accordi e concessioni nelle aree di campagna tra slavi e fascisti. In questi territori sebbene il partito fascista non si diffondesse capillarmente, operava l’azione terroristica e deterrente dei sistemi polizieschi che il fascismo stava collaudando anche sul resto del territorio nazionale. Il modello dell’assedio che aveva caratterizzato le città giuliane fu imposto, a parti invertite, al retroterra carsico e alle aree povere dell’Istria.

Nonostante il volto suadente che il fascismo cercava di propagandare con organizzazioni benefiche e sociali per portare a sè le popolazioni di queste parti del territorio, prevaleva la sua grande macchina poliziesca. Ma le popolazioni allogene, sebbene ridotte ai limiti economici di sussistenza, non cedevano e orgogliosamente respingevano ogni integrazione. La vita delle comunità slovene e croate fu ispirata sempre di più da criteri di resistenza attorno a particolari figure che sostenevano il sentimento popolare nonostante le persecuzioni.

È questo il caso della Chiesa cattolica che si espose anche dopo la firma del Concordato tra lo Stato italiano e il Vaticano. Numerosi sacerdoti sloveni e croati furono confinati e un numero sempre maggiore di cittadini sloveni fu deportato in speciali campi di detenzione disseminati nel Triveneto. Non mancarono movimenti clandestini nazionalistici slavi (TIGR) che portarono a termine atti di resistenza e di ribellione che culminarono con processi, fucilazioni e violente repressioni poliziesche, e si sviluppò una rete clandestina di movimenti di sinistra.

La Chiesa subì gravi epurazioni con la rimozione dei vescovi di Gorizia, Capodistria e Trieste, giacché con l’esilio dei quadri dirigenti sloveni e croati si era assunta il ruolo di custode della nazionalità slava. Essa fu travolta da divisioni laceranti su base nazionale che a volte si possono intravedere ancora oggi. La popolazione slava, alla luce delle vicende che così profondamente minavano il tessuto delle nazionalità croata e soprattutto slovena, fu spinta a emigrare sia verso la Jugoslavia che verso il continente americano, inserendosi nel flusso della emigrazione italiana oltreoceano. Per Wohinz sono quasi 100.000 gli slavi che lasciarono i territori amministrati dall’Italia. I motivi che spinsero sloveni e croati ad abbandonare i loro territori erano di natura economica e politica. I censimenti degli anni ‘30 dimostrano che, sebbene il numero degli emigranti non abbia ridotto considerevolmente le popolazioni di lingua slava, si sia appiattita verso il basso la composizione sociale e sia stata contrastata se non fermata l’espansione demografica slava, temuta dagli italiani alla fine dell’800. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale però le popolazioni slave sul confine orientale ammontavano a circa 400.000 unità e testimoniavano il sostanziale fallimento della brutale politica di italianizzazione; furono usate, nello stesso tempo, come simbolo di pericolo per la nazione italiana, agitato anche rispetto agli slavi di oltre confine.

L’arroganza che nasceva dalla supposta superiorità nazionale italiana fece sottovalutare i semi di una mala pianta che si alimentava del medesimo vigore nazionalistico presente tra gli jugoslavi oltre il confine orientale. Qui le minoranze slovene e croate della costa giuliano-dalmata trovarono le risorse, gli aiuti e la speranza che portò a compimento il loro processo nazionale con gli esiti della Seconda guerra mondiale. Le lacerazioni del ventennio fascista e le basi poste dal nazionalismo interventista ormai erano maturate e avviavano popolazioni che avevano convissuto per quasi un millennio al confronto finale.

Dalla Prima guerra mondiale al fascismo
La Seconda guerra mondiale