Commemorazione dei Sette Martiri di Grancona

Il 28 maggio 2006, in occasione della commemorazione dei Sette Martiri di Grancona (trucidati l’8 giugno ’44), l’orazione ufficiale è stata tenuta dal Presidente dell’ISTREVI Dr. Giuseppe Pupillo.
Ne riportiamo integralmente il testo.

Signor Sindaco, autorità civili e religiose, rappresentanti delle associazioni partigiane, combattentistiche, d’arma e dei reduci, familiari delle vittime, cittadine e cittadini di Grancona,
l’odierna commemorazione si tiene a pochissimi giorni dall’anniversario del Sessantesimo della Repubblica, dell’elezione dell’Assemblea Costituente e del recarsi per la prima volta alle urne delle donne italiane. In quel 2 giugno 1946 si concentrarono tre avvenimenti di straordinaria portata che, presentandosi per la prima volta nella storia d’Italia, ne segnarono una profonda svolta istituzionale.

Avvenimenti che allora non pochi temettero considerandoli forieri di stravolgimenti negativi, di pericoli per l’unità della nazione o comunque densi di tante incognite ed incertezze, perché con essi si riconosceva finalmente una pienezza di diritti politici alle donne ed un ruolo primario alle classi popolari, operaie e contadine, sino ad allora tenute ai margini della nostra storia e del potere politico. La base su poggiava lo Stato si allargava all’intera popolazione e quegli avvenimenti da subito, e per sessant’anni, si sono dimostrati i pilastri forti della nostra democrazia, della nostra vita collettiva, del cammino dell’Italia verso il progresso.

Quei tre avvenimenti hanno come matrice, certamente non unica ma sicuramente fondamentale, la lotta di Resistenza.
Nei sessant’anni che ci separano dal 1946, il mondo, l’Europa e l’Italia sono radicalmente cambiati, soprattutto per le grandi scoperte scientifiche e le continue innovazioni tecnologiche in tutti i campi ma anche per il progresso economico e sociale ed essi ci fanno apparire, per venire a ciò che conosciamo meglio, quell’Europa e quell’Italia degli anni Quaranta come qualcosa di assai lontano, persino di remoto.

Se dovessimo dire tutto ciò che è cambiato negli ultimi decenni, ognuno di noi compilerebbe una lista lunghissima, ma forse non ci verrebbe in mente di dire che per la prima volta nella sua storia millenaria l’Europa ha conosciuto sessant’anni ininterrotti di pace. Non ci verrebbe in mente perché ciò oggi ci appare come un fatto talmente scontato da indurci a dimenticare che per secoli e secoli e fino a sessantun anni fa, l’Europa è stata il teatro di continue guerre di ogni sorta, sino alla più terribile di tutte, quella scatenata dalla volontà di dominio del mondo del regime nazista.

Allo stesso modo forse non ci viene in mente, essendo pressoché tutti i paesi europei, e sicuramente quelli più importanti, retti da regimi parlamentari e democratici, che l’Europa è stata nell’Ottocento sì il luogo dove si sono costituite le moderne nazioni ma anche il grembo di tanti nazionalismi aggressivi e nel Novecento sì il grembo delle teorie sulla libertà e sulla giustizia sociale ma anche di ideologie razziste e di sistemi totalitari e liberticidi autori di orrendi crimini di massa.

Ma come è stato possibile un cambiamento politico così radicale, tale da far scomparire pressoché ovunque in Europa, ogni possibilità di rinascita di regimi autoritari i quali, fossero di destra o di sinistra, sono tutti caduti, quasi sempre senza alcun spargimento di sangue, nella seconda metà del secolo scorso?

Ogni grande cambiamento scaturisce da una somma di fattori. Certamente, tra essi, è stata determinante la riflessione postbellica su come impedire che si ripetessero gli orrori che, insiti nei nazionalismi aggressivi e nei regimi dittatoriali, contrassegnarono, in misura sino allora sconosciuta, la guerra scatenata dal regime hitleriano, costata quasi cinquanta milioni di morti, lo sterminio del popolo ebreo in nome di aberranti teorie razziali, e immense distruzioni. Quella riflessione, ha, già alla fine degli anni Quaranta, individuato come l’antidoto alla guerra poteva essere cercato solo nella cooperazione tra gli Stati e tra i popoli. Da lì è nato il grande processo costruttivo, sempre travagliato ma inarrestabile, dell’Unione Europea.

A tale riflessione ha sicuramente contribuito quel grande fenomeno europeo che è stata la Resistenza, che, in misura maggiore o minore a secondo delle concrete possibilità, in forme prevalentemente armate in alcuni paesi e in forme prevalentemente civili in altre, si è manifestata in tutte le nazioni occupate militarmente dalla truppe naziste e forse va ricordato, soprattutto ai giovani, che ancora nell’estate del ’42 i nazisti tenevano sotto il tallone dell’occupazione militare cinque milioni di chilometri quadrati dell’Europa, dalle coste francesi dell’Atlantico sino ai sobborghi di Leningrado e di Mosca, dalla Grecia sino alla Norvegia con una popolazione di oltre duecento milioni di abitanti.

C’è ancora una domanda che dobbiamo rivolgere a noi stessi, per non essere immemori del nostro passato.
L’Italia, come tutti sapete, fu duramente punita ( con la perdita dell’Istria e delle coste dalmate e con i terribili drammi che ne sono scaturiti) nella conferenza di pace di Parigi che si concluse all’inizio del 1947. Fu punita non solo per la sua partecipazione alla guerra a fianco dei nazisti, ma per essere stata storicamente la genitrice del fascismo. Eppure in Italia, a differenza della Germania, il regime di occupazione alleato cessò già con il dicembre del 1945 e fin da subito l’Italia, governata da un grande statista come De Gasperi, fu tra le nazioni che aprirono il lungo cammino che ci ha portato all’Unione europea.

E questa domanda comporta un’altra domanda. Sarebbe stato possibile questo rapido ingresso del nostro Paese tra le nazioni promotrici di un futuro democratico di cooperazione transnazionale se in Italia non ci fosse stata la Resistenza? ovvero se l’Italia fosse stata liberata esclusivamente dalle truppe angloamericane senza alcun apporto da parte del popolo italiano, che la riscattasse e le restituisse la dignità?

Certamente no.
E non sarebbe stato possibile neppure se la lotta di resistenza fosse stata condotta solo da una parte, ben connotata politicamente qualunque ne fosse il colore politico, con obbiettivi di parte. Il grande valore della Resistenza fu che essa fu pluralista: lo fu politicamente, lo fu culturalmente, realizzò, nonostante la diversità tra le sue componenti, una unità sostanziale nel comune obbiettivo di liberare l’Italia dall’occupante tedesco e da ogni velleità dittatoriale. Quello fu l’obbiettivo comune dei partiti che formarono nel settembre ‘43 il Comitato di Liberazione Nazionale, ma se teniamo presente che dopo vent’anni di dittatura i partiti democratici stavano appena uscendo dalla clandestinità ed erano formati da poche migliaia di persone c’è da chiedersi come la Resistenza riuscì a coinvolgere, a partire dalla primavera del ’44, centinaia di migliaia di persone. Ciò avvenne per diverse ragioni, ma tra queste spicca il fatto che fin dall’8 settembre si sostanziò un rifiuto di tanti militari italiani a combattere a fianco dei tedeschi.
E’ vero che molti di essi, nello smarrimento che seguì all’8 settembre, nell’improvviso disfacimento delle istituzioni e quindi anche dell’esercito, scelsero di starsene rintanati, ma come Carlo Azeglio Ciampi, a cui rivolgo un saluto grato e deferente, ci ha costantemente ricordato nel suo settennato di presidente della Repubblica, il primo inizio della Resistenza fu a Cefalonia, in altre Isole dell’Egeo, in località della Jugoslavia o dell’Italia dove ufficiali e soldati, in nome della dignità dell’Italia, si rifiutarono di farsi disarmare dai tedeschi e pagarono, come a Cefalonia, un enorme tributo di sangue.
C’è indubbiamente questo filo rosso che accomunò uomini di diverso orientamento ideale e che ebbe altri momenti assai significativi come il rifiuto della stragrande maggioranza dei seicentomila internati nel campi di concentramento del Terzo Reich di riottenere la libertà ove avessero acconsentito a riprendere le armi a fianco dei tedeschi; o il rifiuto di tantissimi giovani, a partire dalla prime settimane del ’44, di prestare servizio militare nella RSI ed una parte di essi scelse poi di partecipare attivamente alla Resistenza: tanti giovani che avevano vissuto interamente sotto il regime mussoliniano, che erano stati educati dalla mistica fascista del nazionalismo e del bellicismo e che non avevano mai avuto la possibilità di conoscere altre idee politiche. Questi giovani costituirono il grosso della resistenza e combatterono in formazioni di orientamento politico diverso, ma non le scelsero attratti da questa o quella ideologia, ma semplicemente militarono in quella che operava nella loro zona, nelle loro contrade.

E questa fu anche la vicenda dei Martiri di Grancona che oggi ricordiamo e onoriamo: Raffaele Bertesina, Silvio Bertoldo, Attilio Mattiello, Guerrino Rossi, Giulio Sartori, Mario Spoladore, Ernesto Zanellato e degli altri giovani di Grancona, Zovencedo e di altre località beriche che insieme ad essi sentirono di dover fare qualcosa per la libertà della patria.

Fu la vicenda di migliaia e migliaia di giovani.
I martiri di Grancona furono vittime di una ignobile trappola e di una efferata crudeltà, compiuta da corpi repressivi della RSI, al servizio dell’occupante tedesco.
Ed anche qui occorre fare, senza alcun spirito di parte ma per rispettare la verità storica, una riflessione, perché se è giusto provare pietà per tutti i morti, anche della RSI ( e in particolare per coloro che, pur commettendo un terribile errore, agirono pensando di difendere l’onore della Patria ), occorre però ricordare che i tedeschi non vollero che i militari della RSI combattessero al loro fianco ( a parte la Monte Rosa) ma li adibirono alle tristi funzioni dello spionaggio, del rastrellamento, della tortura di altri italiani. I corpi militari della RSI, dall’Esercito alla Guardia Nazionale, dalla Muti alle Brigate Nere, dalle “Compagnie della Morte”, alle famigerate bande come quella del maggiore Carità che operò anche nella nostra provincia, svolsero questo triste compito.
E tra le armi che adoperarono ci fu anche l’inganno di travestirsi da partigiani per poter non catturare o condannare attraverso processi ma giustiziare sommariamente giovani resistenti o anche solo di essere sospettati come tali.
Quell’inganno dei repubblichini di presentarsi come gruppetto di partigiani non poteva certo essere adoperato laddove i resistenti facevano parte di formazioni ben organizzate o erano allenati alle regole severe della clandestinità o avevano, in un periodo in cui c’era un pullulare di spie e di doppiogiochisti, un servizio di controinformazione. Poteva riuscire solo verso gruppi di giovani, mossi, e si può dire anche trascinati da impulsi generosi, desiderosi di partecipare alla lotta di resistenza, ma sprovvisti di esperienza, e di conoscenza delle tattiche adoperate dai corpi repressivi della RSI. Gruppi che intendevano entrare nell’orbita della Resistenza organizzata, armata e disciplinata, ma che ne erano ancora ai margini, tanto più in quanto agivano in zone collinari isolate e inadatte alle caratteristiche fondamentali della lotta partigiana. Ci sono stati altri simili episodi di atroce inganno nella vicenda resistenziale vicentina, e mi viene in mente l’eccidio dei Gasparini consumato in una contrada collinare di Fara vicentina ai danni di due famiglie di contadini.
I Martiri di Grancona furono vittime di uno degli episodi più terribili e infami della breve storia della Repubblica Sociale Italiana e dell’occupazione tedesca. Non vennero uccisi in combattimento, non furono vittime di un rastrellamento né di una delle tante aberranti rappresaglie con cui i nazifascisti cercarono di spegnere o scompaginare il movimento partigiano e di terrorizzare le popolazioni. Non caddero in una delle zone calde del conflitto tra partigiani e nazifascisti. Furono vittime di un bagno di sangue, la cui smisurata efferatezza non credo sia ascrivibile alla malvagità ed al sadismo che talora albergano nell’animo umano, ma va considerata come manifestazione dell’odio accecante che scatta nei regimi totalitari quando essi incontrano dinanzi a se opposizione e disobbedienza, tanto più se espresse da uomini delle classi popolari. Il rifiuto di massa di tanti giovani di rispondere ai bandi Graziani, di arruolarsi cioè nei corpi militari della RSI, nonostante le minacce di fucilazione o di rappresaglie sulle loro famiglie, rappresentò davvero lo specchio nel quale esponenti e militanti della RSI videro il fallimento del loro stato fantoccio, videro di non poter nutrire altra speranza che una sempre più improbabile vittoria delle truppe naziste. Constatarono cioè il loro isolamento dal popolo, e per reazione all’isolamento maturarono un cieco fanatismo e un fanatismo di tal fatta conduce spesso ad un turpe incanaglimento. Contro quello specchio, allora rappresentato dagli occhi puliti e fiduciosi dei giovani di queste contrade, si accanirono e lo vollero ricoperto dal sangue nell’illusione di non vedervi riflessa l’immagine del loro fallimento. E fu un crimine così orrendo, così aberrante, che la stessa stampa fascista dell’epoca dovette occultare la verità, parlando di resa dei conti tra due bande e dando ad intendere che di bande partigiane si trattava.

E più che ad altri è a questi sette giovani che è doveroso, senza neppure un briciolo di retorica, dare il nome di martiri.
Nel suo significato primo la parola martire vuol dire testimone.
Martire è colui è che sino all’estremo sacrificio testimonia non solo la propria fede, religiosa o civile, ma avvenimenti che per nessuna ragione gli uomini debbono far cadere nell’oblio. L’eccidio di Grancona è uno di questi fatti, perché rivela non solo gli orrori connaturati alla guerra, ma l’odio connaturato ad ogni regime totalitario quando avverte l’isolamento e sente traballare un potere fondato solo sulla forza di armi straniere..

Martire è chi testimonia avvenimenti che, magari lontani nel tempo, ci aiutano ad avere criteri di giudizi e comportamenti rispetto a fatti che purtroppo anche nel presente rivelano nei conflitti tra gli uomini o tra i popoli il divampare degli eccessi dell’odio espresso in atti terroristici, massacri di civili, campi di concentramento, torture, stupri, in ogni caso nella feroce volontà di ridurre al silenzio il proprio avversario.

L’eccidio di Grancona, se dovessimo dargli una qualche definizione, potrebbe essere catalogato come atto terroristico. Degli atti terroristici ebbe la cecità, la tremenda sproporzione tra la responsabilità che si voleva punire e la pena inflitta, tanto più che esso per puro caso non fu un massacro ancora più orribile. Ma è un terrorismo che mostra un doppio volto: in uno si coglie la perfida volontà di seminare il terrore soprattutto tra la popolazione, nell’altro si coglie il terrore che provavano gli stessi autori avvertendo il loro fallimento politico e l’inesorabilità della sconfitta.

Cittadine e cittadini,
ho cercato qui di sviluppare qualche riflessione sull’eccidio di Grancona che possa renderne ancora attuale l’ammaestramento. Ma al di là delle riflessioni, al di là delle parole resta un fatto incontrovertibile.
Se è vero che la Liberazione dell’Italia fu dovuta in larga misura alle potenti armate angloamericane, altrettanto vero che il contributo della Resistenza, importante anche sul piano militare, fu fondamentale per restituire la dignità al popolo italiano, per riscattarlo da vent’anni in cui aveva accettato di essere governato da una dittatura e s’era acconciato a vivere senza libertà.
Gli angloamericani ci restituirono un territorio sgomberato dall’occupazione tedesca, ma sono stati i giovani resistenti come Raffaele Bertesina, Silvio Bertoldo, Attilio Mattiello, Guerrino Rossi, Giulio Sartori, Mario Spoladore, Ernesto Zanellato che restituirono la dignità al nostro popolo e alla nostra patria.

E quindi, cittadine e cittadini: onore ai Sette Martiri.

Viva la Resistenza, Viva l’Italia, Viva l’Unione Europea.